L’inutilità degli auguri a Natale
L’estate arriva, bussa, si fa invitare e rimane ospite indesiderata fino ad Ottobre. Odio l’estate, odio l’estate. Non è una semplice constatazione o una frase da dire in ascensore con una signora tanto profumata da uccidere l’ozono e tre o quattro animali in estinzione che cerca di farti sorrisetti per arrivare al punto più basso dei pantaloni. Tutto questo è una verità scientifica che inevitabilmente si traduce in notti insonni impanato nelle lenzuola, in guerre psicologiche con zanzare di dimensioni disarmanti, disarmanti nel senso che riescono a prenderti e a levarti dalle mani la ciabatta che cercavi di dargli in testa, e una sete con la quale ci puoi parlare notando anche delle vene sarcastiche nelle sue risposte. Alla fine rassegnato vai sul divano in salotto, cercando il telecomando dappertutto e non dove dovrebbe essere se da persona normale la sera prima lo avessi messo a posto, e trovandolo dopo un’ora sotto ai 18 cuscini sparsi, inutili a tutto ma ottimo nascondiglio per telecomandi. Nel silenzio più totale accendi. Il televisore per un motivo sconosciuto all’uomo è sintonizzato su di un canale tipo Teleproboscide dove inevitabilmente si scopa e gli strilli della deflorata svegliano tutto il vicinato visto che il volume è alla penultima tacca prima del massimo. Il tentativo di trovare qualcosa di quasi decente dentro quella scatola luminosa è assolutamente vano. Ci sono da scegliere: vecchi telefilm polizieschi dove un obeso è stato fatto crescere dentro una divisa da policeman di tre taglie più piccole e con il suo passo tenta di correre dietro ad una macchina, o ci sono nozioni sulla teoria quantistica applicata alla fissione nucleare spiegate da cavie umane con la faccia di Limiti e il corpo di Platinette. Verso le 04:00 riesci a prendere sono. Ore 06:30 una sveglia suona. Ore 06:30 in una casa vicino al mare una sveglia suona. Suona e nessuno risponde. Non smette. Uno strillo, nel silenzio del divano. Dovrei fare uno sforzo, devo trovare un martello per distruggerla definitivamente. Lo dico tutte le mattine, e tutte le mattine bene o male riesco sempre ad alzarmi. Mi odio, mi odio perché riesco a mettere una gamba dietro l’altra e alzarmi, mi odio perché mi mento davanti allo specchio fingendomi molto impegnato in quello che faccio ma soprattutto mi odio perché so che anche questa mattina diventerà pomeriggio e poi sera e poi notte e io avrò sprecato tutto. Seduto sul letto guardo di sbieco l’armadio, che in effetti è troppo lontano e vuoto per aiutarmi a vestire in maniera accettabile. Ma le 07:15 arrivano puntuali, incuranti se chi le vive è pronto, in effetti io non lo sono, neanche ho idea dei calzini da prendere. Rompo l’incantesimo e masticando rabbia riesco a scendere in un fiato le scale. Che darei per una giornata grigia! non sono pronto per il sole, il mio psichiatra dice che ho paura della verità, si sbaglia. Io la verità la conosco bene, io con la mia verità ci vivo, forse la inganno qualche volta ma so tutto.
Eccomi seduto sul l’ultimo vagone della metro B, intento a non farmi portare via il piccolo sorriso che a stento ostento. Il risultato di pochi minuti è l’odio indiscriminato di tutto il mondo, io non faccio distinzioni di razze o religioni, la mattina li odio tutti e per non fare dispetto a nessuno li odio in eguale modo. Come tutte le mattine penso di non andare a lavorare e andare all’EUR, sdraiarmi sul prato del laghetto del Palasport. Sulla mia carta d’identità è scritto stato civile LIBERO, un impiegato del comune mi ha dato la libertà che ogni giorno mi viene sottratta per qualche euro. L’avvocato ha detto che se sarò bravo fra 33 anni uscirò e poi me la dovrò cavare da solo. Troppo vecchio per fare battaglie, troppo stanco per portarle avanti ma soprattutto troppo povero per pensare di fare tutto questo. Il lavoro presso clienti è la cosa che conosco che si avvicina di più ad una interpretazione teatrale. Deturpato dall’odio dovevo calarmi nella parte un secondo prima dell’apertura della porta dell’ascensore. Il campanello strilla, stringo forte la borsa degli attrezzi e aspetto. Altro strillo, la porta si apre: "Buongiorno", mi dice una signorina bionda sorridendo. "Buongiorno... sono Franco Quattro della ditta Celio, sono qui per il sistema telefonico". Questa frase ormai mi esce spontanea, non ha più senso, neanche la sento. Esce senza suono. "Finalmente… si accomodi pure, la centrale è di là". Eccomi entrato a pieno nella parte, ormai il palco è pronto, il telo si è alzato e le comparse sono pronte con le loro battute. Io continuo a sfoggiare sorrisi vari, camminando con il passo di chi sa il fatto suo, che sa di essere il salvatore, colui che permetterà a voi povere creature di comunicare con il mondo esterno. La sala CED coma al solito è un piccolo loculo con fiori appassiti, un metro per uno con temperature che perfino l’illustrissimo Satana non riesce a creare nel suo inferno. Ma va tutto bene, mi muovo con agio, poso la borsa e comincio a sfiorare piano la tastiera, è un crescendo. Entro ed esco da cartelle gialle come se fossi il vento, sfioro drivers, software, come se fossi Miles Davis. Dopo qualche minuto di applauso iniziale inizia tutto, buio in sala, il gobbo si sistema e a me non rimane che aspirare e partire con la prima battuta. "Signorina credo di aver capito il problema… non c’è comunicazione". Il pubblico rimane con il fiato sospeso preoccupato dalla mia affermazione e dalla gravità della situazione. "Mi scusi sig. Quattro, ma tra chi?... O tra cosa?" Altro silenzio… "Semplice", il sopracciglio si gira e invita l’occhio a ballare con lui, tra la centrale telefonica e il software. Un boato scoppia fragoroso seguito da un applauso scrosciante. Un inchino, un sorriso e riprendo da grande attore quale sono. "Dovrei verificare la connessione, cambiare qualche cavo e il gioco è fatto". Conscio che il sistema che vendo e installo fa acqua dappertutto cerco di ottenere la solitudine in modo da provare a casaccio e con moderato panico tutto il provabile, dalle preghiere a Manitù a un dialogo con Siddarta, a spegnere, riavviare, aprire un programma prima di un altro brancolando nel buio. Il primo atto si chiude con questa velata tristezza: il nostro eroe alle prese con un mostro dai molteplici poteri non riesce a venire a capo della situazione. Il pubblico accusa il colpo, qualcuno piange, altri si alzano smarriti e vanno la bagno.
La luce si spegne di nuovo, secondo atto. La Sig.ra di nome Luisa si avvicina al CED e si affaccia dalla piccola porta. Avendola vista arrivare continuo la mia recita muovendo i tasti e interrogando il collegamento con veloci ping. "Come va sig. Quattro?" "Ancora un attimo e dovremmo esserci". Penso proprio che l’Oscar questo anno non me lo leva nessuno. Vedo tra le luci la gente in sala che segue con il viso ogni mossa, ogni parola, catturati dalla fase grave della situazione. E poi tra tutti quegli sguardi noto due occhi. Due occhi tristi lasciati troppo a lungo soli. Il viso che li porta è dolce, delicato, sembra la schiuma soffice del sapone profumato. Continuo con le mie manovre teatrali e alla fine per sbaglio risolvo la situazione facendo una piroetta e incrociando tutte le dita. "Sig.ra Luisa io avrei fatto". Il tono ora è più lieve. "Potrebbe fare una prova per sicurezza?" "Certo Sig. Quattro". La suspance rapisce tutti, ognuno aspetta la risposta della sig.ra Luisa come una liberatoria fine. "Sì, sembra funzionare tutto…" Un applauso con urla mi rese impossibile rispondere subito. Dovetti aspettare 15 minuti prima di poter riprendere la parola. Mi inchino e applaudo a mia volta il meraviglioso pubblico. "Perfetto, se firma gentilmente il rapportino posso concludere l’intervento". E sull’ultima parola lascio cadere il braccio verso terra accompagnando il sipario con la mano. Mi chiudo la porta dietro e inizio a struccarmi. Lentamente riprendo l’odio nascosto liberandolo silenziosamente. La farsa è finita il mio personaggio ha reso gioia e felicità lasciandomi vuoto e senza un motivo per cui essere felice o orgoglioso. Penso solo a tornare a casa per chiudere un altro giorno dentro le lenzuola, per inserire nella scheda anche oggi. Un giorno come un altro un giorno che cancellerò da qui a qualche anno un giorno inutile come gli auguri a Natale.