l'isola della... menta
Quell’accidente d’isola difficilmente localizzabile sulle carte nautiche faceva impazzire la bussola dei marinai a causa dell’eccessiva concentrazione su di essa, di sostanze contenenti agenti ferrosi polarizzati chissà come da cariche elettromagnetiche. La rotta delle navi eludeva quell’atollo puzzolente e malsano, in quanto il cattivo odore che ventilava da quel posto arrivava a disturbare i nasi dei passeggeri imbarcatisi chissà dove. Vista da un improbabile orizzonte quel punto fermo nel mezzo dell’Atlantico ricordava una vallata immersa in una nebbia perennemente marronastra. I suoi isolani erano per lo più abbienti e passavano il tempo a bighellonare fra chiacchiere mondane e cure del corpo – un modo come un altro per rimandare la inevitabile e naturale decadenza fisica poiché quella interiore era iniziata da un bel pezzo‐ I tanti svaghi soliti e “annoievoli” portavano con essi un percorso di vita solita e banale. Quegli abitanti avevano potuto permettersi di possedere di tutto, agevolati di molto dalla potenza del denaro. Si erano confinati in quell’isola fingendosi defunti organizzando finti funerali e falsificando resoconti medici e atti di morte. Quella nuova genesi di elusi era alla ricerca di reconditi piaceri, di nuove motivazioni da supportare a un modo di vivere diverso, di adorare possibilmente nuovi dei. Quelli vecchi ‐di dei‐ si erano resi obsoleti, compresi i miti del possesso e la bramosia smisurata di denaro. Alcuni di loro veneravano tronchi di quercia marciti, portati a spiaggia dalle correnti marine –quelle Amadriadi avevano perduto la sembianza umana e si erano raccomandate alla pietà dell’oceano, implorando il mare di essere naufragate su lidi sconosciuti, dove poter ricominciare una nuova esistenza tributata degli onori che si devono a semidei sconfitti.‐ altri si raccontavano storie indicando un pinnacolo roccioso dell’isola dicendo parlandosi quasi sottovoce e con un timore di peculiarità ancestrale: sapete, da lì cadendo morì Dio.
In quel piccolo golfo, dove ribeve la schiuma il genio salmastro del mare, cresceva rigogliosa una sterpaglia fatta di piante, che avendo assorbito dalla sabbia inquinata il fosforo e il mercurio, avevano assunto forme inusuali, sembrava non appartenessero al regno vegetale. Quegli steli carnosi maleodoranti e viscidi nei loro colori bluastri facevano affluire alla mente il ricordo delle ecchimosi contornate dal sangue pesto. La loro crescita avveniva in senso obliquo rispetto al suolo, e puntavano l’unica estremità oscurata di un fiore nero verso la foschia dell’orizzonte. Quelle coscienze sporche, confinate e tenute scrupolosamente a bada, circoscritte in quel luogo segreto, lontano da eventuali curiosi, piantonati da Aurighe lobomotizzate‐ eterne essenze prive della ragione‐ alle quali avevano impiantato nel vuoto lasciato dal cervello la violenza dell’obbedienza.
Le navi che passando al largo, scaricando i liquami prodotti dalla defecazione dei passeggeri lasciavano una scia che andando ad accumularsi sull’acqua si faceva trasportare dalla marea frangendosi poi sugli scogli dell’isola. Quel colore brunastro era forse il sottoprodotto della tanquilla cattiveria e della ignavia umana Scivolava sulla sua schiuma nell’insenatura, depositandosi su quell’unico lembo di sabbia nera. Questo rappresentava un momento di sacralità per gli abitanti, un battesimo rigeneratore avvertito ore prima per via del maestrale che ne trasportava l’olezzo. Tutti allora correvano a incontrare quel Battista pagano che avrebbe spianato loro la via dell’estasi mistica introducendoli nel regno della redenzione. Arrivavano ansimando e si beavano nel respirare gli effluvi, poi lautamente banchettavano con il cibo metabolizzato