L'omino col sorriso negli occhi
Vi potrebbe capitare, un giorno, di passare dalle parti di Palmi, la ridente cittadina che s’affaccia come la tolda d’una nave sul paesaggio dello Stretto, e che vi consente d’ammirare, da lontano – in certe giornate di primavera, quando l’aria per qualche strano incantesimo diventa di cristallo ‐ la Sicilia, i suoi monti e le sue isole: le Eolie con lo Stromboli e il suo pauroso pennacchio.
Sarà difficile che vi capiti, perché per raggiungere tale cittadina occorre utilizzare la più allucinante delle autostrade, che s’arrampica, piena di curve e incredibili tornanti, deviando ‐ per gli eterni lavori in corso ‐ per viuzze secondarie, che s’insinuano fra alti monti e penetrano nel loro ventre, in oscurissime gallerie e labirinti.
Ma se vi capitasse, non dimenticate di visitare la perla più preziosa di tale cittadina, che, come accade con le cose preziose, la cui preziosità è ignota a chi la possiede, è posta nello scantinato d’un enorme edificio pomposamente chiamata Casa della Cultura. E’ questo un grandissimo edificio posto su una collina, così grande che, volendolo, vi si potrebbero racchiudere tutti gli abitanti della cittadina.
Questa Casa, immersa nel verde, costruita ai piedi del piccolo monte che, come leone accovacciato fa la guardia alla piccola città, contiene innumerevoli tesori: una pinacoteca di rilievo, con quadri di Guttuso, Morandi e tanti altri, una biblioteca con centinaia di migliaia di volumi, molti dei quali antichi e preziosi pezzi unici. E contiene uno dei più straordinari musei esistenti: il Museo Etnografico e Archeologico, che riunisce splendidi esempi della cultura locale: straordinarie offerte votive, piccole statuine in cera che riproducono, con candore incantevole, parti del corpo umano che il Santo ha risparmiato o fatto ricrescere, una collezione di infinite asticelle in legno ‐ le conocchie ‐ finemente intarsiate con arte e pazienza ai limiti dell’umano.
Bene, questo museo, nei suoi vastissimi e freschi scantinati (motivo in più per visitarlo, se il viaggiatore fosse pervenuto da queste parti in una di quelle afose e terrificanti estati di fine millennio), contiene un’ampia raccolta di cimeli e reperti archeologici, rinvenuti durante gli scavi nella località di Taureana, l’antica Oppidum Tauroentum, porto importante della Magna Grecia, da cui si presume passassero molte navi dirette dalla Grecia a Roma, e viceversa.
Il museo ha molti addetti e guardiani, perché molte sono le sue sezioni, ma i guardiani del Museo etnografico e archeologico, quello che sta negli scantinati, sono solo due, entrambi orgogliosi della loro divisa blu, ma piuttosto infelici. Perché il museo, nonostante la sconfinata bellezza (raccoglie oltre a una serie innumerevoli di oggetti risalenti alla civiltà romana: monete, pettini di metallo, monili, bracciali in oro di pregevole fattura che le matrone romane ordinavano agli abilissimi orafi della Magna Grecia, molti reperti statuari, bassorilievi, cippi e busti di matrone e condottieri di difficile identificazione), ha pochissimi visitatori. Praticamente solo uno.
Costui, un ometto che sembra uscito dalle favole, ispira uno stranissimo rispetto: il sorriso triste stampato nei suoi occhi, la nobiltà e la fierezza della piccola figura, sempre vestita in lino chiaro, le spalle ricurve, tutto ciò ispira un rispetto che, in certo senso, impedisce a chiunque d’avvicinarlo e chiedergli alcunché.
Non si sa quasi nulla di lui. Qualcuno dice che sia un filosofo ‐ un grande filosofo, presidente di qualche importante associazione filosofica ‐ altri dicono che questa è una leggenda, che il signore in bianco è solo un pensatore, cui nessuno s’è mai sognato d’assegnare titoli.
Dal momento che nessuno osa rivolgergli parola, per quella forma di rispetto ‐ forse timore ‐ che suscita il diverso, lo straniero o l’estraneo (sebbene tutti siano concordi nel dire che, per quanto ricordino, l’omino è sempre vissuto in paese) nessuno sa dire quanti anni abbia, né, naturalmente, il suo nome. Riguardo all’età le opinioni sono le più discordi. Qualcuno giura che, fatti i debiti conti, non può averne meno di settanta. Altri metterebbero la mano sul fuoco che non ne ha più di cinquanta, e che siano solo i suoi modi, così modesti e timidi, così inusuali e fuori dal tempo, a farlo sembrare più vecchio di quanto non sia in realtà. Quelle spalle leggermente ricurve, strette in se stesse, come se l’omino si scusasse d’esistere e, stringendole, volesse farsi più piccino, e quel suo sorriso degli occhi che nessuno sa definire e nessuno sa capire.
Anche sul nome non vi è accordo. Di sicuro si sa che è unico: nessuno ha mai portato il suo nome da queste parti, e nessuno lo porterà mai, perché l’omino non è mai stato visto con una donna. Si favoleggia che nella sua gioventù abbia amato un’incantevole donna del luogo, che è poi scomparsa e nessuno sa dove sia andata. Ma questa, forse, è solo una favola che la sua figura, così ieratica, così letteraria, ispira.
Costui, come si diceva, è il visitatore regolare e praticamente unico della sezione del Museo etnografico e archeologico. Unico perlomeno nel lungo periodo dell’anno che esclude l’estate, perché in quest’ultimo periodo molti turisti cercano refrigerio alla calura fra le sue sale silenziosissime, piene di teche illuminate da numerosi fari e luci al neon che rendono l’atmosfera un po’ irreale, come si fosse sulla tolda d’una astronave immensa, pronta a salpare per gli abissi dello spazio.
In questo periodo (che l’omino deve considerare orrendo) egli non si vede più nei sotterranei del museo, semplicemente sparisce. Nessuno sa che fine faccia. Talora lo si vede passeggiare, prima del tramonto, sul corso della cittadina. Andare su e giù, con le mani dietro la schiena, le spalle curve, e quegli occhi – d’un azzurro acqua ‐ che se ti capita di guardarli ti sembrano impauriti o persi. Il sorriso triste che recavano impresso è sparito e l’uomo sembra chiedersi: «Quando finirà questa iattura?»
Allora la gente lo guarda e pensa, divertita e preoccupata: «Poveretto. Deve amarla tanto.»
Ma il resto dell’anno, tutto il resto dell’anno, l’omino è sempre lì, davanti alla sua Dea, ad Afrodite.
Il direttore del Museo, tale S.M., è il più classico esemplare di burbero simpatico che ci sia. Sempre sorridente, con un sorriso simpaticissimo che trabocca dal faccione largo, incorniciato dalla barba rossiccia e ispida. Quando vuol far vedere d’essere arrabbiato fa udire il suo vocione tonante: le urla rimbombano allora nelle sale semivuote del palazzo, così forte da impressionarti. Sapendo che sono sue nessuno vi fa caso, anche se qualcuno, per gentilezza, si gira.
Quella volta che seppe che l’omino, che chiameremo Bàrlebi, dato che è un simpatico nome che stranamente gli s’addice, aveva allungato le mani sulla sua Afrodite, quasi gli venne un colpo e chiamò immediatamente a rapporto i due guardiani della sezione, facendogli una scenata che sarebbe stata paurosa se fatta da chiunque altro.
Fatta da lui provocò solo il fatto che i due guardiani, a rapporto sull’attenti, abbassarono gli occhi, fecero la faccia contrita e assicurarono che avrebbero provveduto come con gli altri reperti di valore.
Il giorno dopo, quando puntuale sull’orario d’apertura pomeridiana, Bàrlebi attendeva che aprissero il museo, uno dei due guardiani fece all’altro: ‐ Gli parli tu? L’altro rispose: No, parlagli tu.
Così il primo prese Bàrlebi sottobraccio e lo condusse in una delle sale del sotterraneo, appartata, dove poteva parlargli senza che vi fossero testimoni. Sapeva che quanto stava per dirgli era delicato:
«Signor Bàrlebi, mi perdoni, sa, per quello che sto per dirle. Non vorrei mancarle di rispetto o che pensasse – Dio non voglia ‐ che noi si pensi minimamente male di lei. Lei sa quanto noi tutti la stimiamo. Stimiamo i suoi studi in campo filosofico e sappiamo che lei è persona importante…»
Non sapeva come entrare nel discorso. Non sapeva come dirgli quanto doveva dirgli e che di sicuro non sarebbe stato piacevole per lui. Avrebbe potuto offendere quello strano ma illustre personaggio, l’unico fra i suoi concittadini che capisse la bellezza e l’importanza del Museo e che lo visitasse con costanza, con assiduità. Innamorato, soprattutto, del suo pezzo più importante: la straordinaria Afrodite che qualcuno attribuiva, addirittura, a Fidia.
Dopotutto, cosa sarebbero serviti ben due guardiani se nessuno avesse più visitato il Museo?
Bàrlebi era, dunque, molto importante per urtarlo troppo. Non conoscevano bene il suo carattere, nonostante la frequenza quotidiana degli incontri. Può darsi che sotto l’apparente docilità, la mansuetudine che sembrava provenire dal fondo della galassia, si celasse un carattere suscettibile, che sentendosi annunciare la cosa che ormai s’era resa inevitabile, la prendesse a male, come un’accusa indiretta alle attenzioni che Bàrlebi nutriva, senza mistero per alcuno.
Ma il direttore del museo, nonostante la bonomia che lo contraddiceva, non s’era mai visto così arrabbiato e categorico: la decisione era presa e la cosa si era resa inevitabile.
Bàrlebi lo guardò con uno sguardo in cui tenerezza e comprensione avevano preso il posto dell’usuale sorriso.
«Signor Bàrlebi» riprese il guardiano «il fatto è…».
S’interruppe e non seppe come andare avanti.
Bàrlebi sembrava ora un po’ inquieto. Capiva che il guardiano stava per dirgli qualcosa di spiacevole ed era preso fra due spinte contrastanti: aiutare il poveruomo a dire quanto doveva dire, e che evidentemente gli provocava molto dolore, oppure scappare, perché intuiva che quel qualcosa di grave riguardava la sua vita e minacciava di sconvolgerla.
Si erano accorti? Possibile? Aveva fatto tutto con la massima discrezione. E poi era avvenuto una sola volta. Aveva resistito così a lungo. Aveva resistito anni prima di farlo, quando finalmente aveva ceduto, spinto da una forza interiore così intensa da risultare perfino dolorosa.
Ed era accaduto una sola volta: dopo averle parlato per anni, dopo avere atteso invano un suo cenno, anche minimo, anche impercettibile agli altri. Non a lui, lui avrebbe senz’altro visto e capito. Niente. Anni d’attesa. Infinite poesie e struggimenti. Parole sublimi che sgorgavano dall’animo con una freschezza e una luce che un poeta non avrebbe saputo avere. Lei niente. Lei ferma, immobile, soprattutto silenziosa.
Sì, gli era sembrato talora d’avvertire dentro di sé delle parole, un ruscello, un fiume di parole che potevano provenire da Lei. Ma quelle parole somigliavano troppo alle sue. Quella voce somigliava troppo alla propria, per non esserlo davvero. Allora aveva capito: non era Lei a parlare. Lei era lì, fredda e inaccessibile com’era sempre stata, fin dal primo momento. Fredda inaccessibile e altera. Con la sua inarrivabile bellezza, la sua incorruttibile giovinezza. Mentre per lui... anni e affanni pesavano. La vista non era più quella avuta in gioventù. E neanche l’udito era più lo stesso.
«Signor Bàrlebi, mi ascolti…» continuava a ripetere il guardiano, il quale cercava senza troppo successo d’inserirsi nel corso dei pensieri dell’uomo, sapendo bene quanto fosse difficile farlo. Bàrlebi era solito sostare, rapito, davanti alla Dea, così rapito e assorto d’apparire quasi in tacita conversazione con la stessa.
Si sarebbe detto che anche Lei gli parlasse, se non fosse risaputo che gli dei non parlano.
Quando Bàrlebi era preso in tali atteggiamenti, nessuno si sognava di disturbarlo: sembrava quasi di rompere un momento d’intimità religiosa, di preghiera. Era come se un raggio impalpabile di luce unisse le due fronti: quella chiara, luminosa di lei, con la bella fronte di lui, ampia e pensosa, traversata da finissimi solchi, incorniciata da una chioma candida e fluente.
«Signor Bàrlebi…» riprese il guardiano con tono cordiale, senza tradire, questa volta, il minimo tono di rimprovero nella voce. Noi tutti sappiamo quanto lei ami la nostra Afrodite. Come tutti noi, del resto. Nessuno si sognerebbe di supporre che lei possa farle del male. Tuttavia, vede, come certamente saprà, in passato sono accaduti casi molto, molto spiacevoli. Avrà sentito parlare di quel tale che ha preso a martellate nientemeno che La Pietà….»
Bàrlebi era stupito, spaventato. Dove volevano arrivare?
Cosa avevano deciso di fare? Va bene, aveva ceduto al desiderio e le aveva dato una carezza, ma era accaduto solo una volta. Possibile che fossero così crudeli da…
«Sì, signor Bàrlebi. Dobbiamo farlo: sono ordini superiori. Direttive che partono da Roma, sa?»
Cosa, cosa avete deciso di fare, per l’amore di Dio?!
Una fitta dolorosa strinse il cuore dell’uomo. Non voleva neanche tentare d’immaginare cosa avevano deciso di fare: racchiuderla in una teca di cristallo. Anche Lei: la Dea Afrodite? La Dea nata dall’acqua. La Dea col vento nei capelli. Racchiuderla in una teca di cristallo? Soffocarla. Metterla sotto vetro con orribili balenii di luce a deturpale il viso, e il corpo. Quel corpo straordinario che conosceva ormai in ogni più intima piega. Non la mente, no. Quella non era certo di conoscerla. Ma il corpo sì. Quello aveva potuto conoscerlo, osservarlo, rimirarlo da ogni possibile prospettiva. Quel corpo ‐ adesso ne era certo ‐ attraverso il quale Lei gli parlava.
Racchiuderlo in una teca era semplicemente mostruoso. Si disse che la barbarie non poteva avere raggiunto limiti così estremi: non sapere riconoscere la bellezza, la vita. Imprigionarla, nasconderla. Prima nel fondo d’uno scantinato, poi nell’indistruttibilità, nella lontananza e freddezza d’una teca.
Il guardiano era adesso silenzioso e triste. Sapeva d’avere arrecato molto dolore a quell’uomo che in fondo comprendeva e compativa. Anche il guardiano, molto tempo prima, aveva amato e sapeva che l’amore, quello vero, non conosce confini d’età o di razza. Lui, ad esempio, aveva amato, da giovane, un cavallo. Quando quello era caduto spezzandosi una gamba e avevano dovuto macellarlo, una parte di sé era morta con lui. E se si poteva amare un cavallo forse era possibile amare anche una forma, un’idea.
L’indomani una teca di cristallo, lucido, spesso, traversato da orribili lame di luce, imprigionò la Dea.
Bàrlebi scomparve. Nessuno seppe dire che fine avesse fatto. Col tempo qualcuno cominciò a dubitare perfino che fosse esistito.