L’orbo e il fantasma del cimitero
Maledetto caldo di luglio.
Spostai la luce della torcia e asciugai il sudore dalla fronte.
Anche gli occhiali si mossero.
Per un attimo, nel buio, non vidi niente.
Raddrizzai le stanghette, pulii le lenti offuscate dalla polvere.
Qualcosa si appoggiò sulla mia spalla, quindi mi voltai: la megera scarnificata, vestita di lapislazzuli e diademi, diamanti e preziosi, perdendo l’equilibrio era scivolata dalla parete dove l’avevo appoggiata. Che spavento!
Terrorizzato afferrai la pala da sopra la buca.
Sferrai una badilata nell’oscurità; le arrivò in pieno sulla faccia scheletrica: la nonnina decrepita, spaccandosi, cadde a terra formando un mucchio d’ossa.
Dovevo finire il mio lavoro: in un unico fosso buttai i resti di tre, quattro cadaveri mezzi marci, appena riesumati. Li sotterrai ben bene.
Rimisi a posto le lapidi nascondendo i segni dello scavo: nessuno sarebbe andato a mettere il naso là sotto, perché avevano finito da un pezzo il riattamento dell’ala est; le impalcature dell’impresa edile erano sistemate nel nuovo settore, a nord, in fase di costruzione.
Le mie informazioni si rivelarono giuste: con il feretro e il bottino della vecchia feci un sacco di soldi.
Mi sistemai una volta per tutte.
Io ero un ladro.
Spesso andavo a rubare nei posti più impensati o nelle case disabitate.
Leggevo le notizie sul giornale, i necrologi in particolare.
Mi preparavo a questi furti seguendo i funerali, girando le chiese, perlustrando i cimiteri.
Osservavo le macchine parcheggiate all’esterno durante la funzione; contavo i partecipanti; riaprivo i fogli letti, verificavo l’annuncio, la grandezza del trafiletto, la foto, i nomi, le somiglianze tra i parenti. Controllavo la qualità della bara, quale tipo di legno massello, quali le decorazioni e gli intagli, quali le argentature delle maniglie; mentre viaggiava in macchina o nel carro funerario, la seguivo fino al posizionamento davanti all’altare. Appoggiato accanto ai confessionali cercavo di notare quanto importante era stato in vita il caro defunto.
Il massimo dell’ispezione ante ruberia, la ciliegina sulla torta come si direbbe, era entrare nella camera ardente: per essere presente almeno alla chiusura del feretro, prima del trasporto della salma alla cerimonia, e vedere l’interno della cassa da morto: i velluti, l’abito del dipartito e i suoi gioielli, i denti, la seta dei cuscini. Cercavo di scegliere vittime ricche.
Dopo la messa, molto spesso, mi ritrovavo a inseguire a piedi, per qualche chilometro, il corteo funebre. Accostavo vedovelle sconsolate, uomini disperati, vecchi claudicanti, fior fiori di ragazzette. Eravamo tutti vestiti di nero. Dentro cappelle dalle finestre inferriate, con porte dai grossi lucchetti, percorrendo vialetti pieni di monumenti, statue, lastre. Quante cose interessanti da prelevare. Candelabri dorati, alari bronzati, marmi levigati, piccole fontane, rubinetti, vasi. Tanti, tanti fiori; tante piante.
Chiuso il loculo io sarei tornato presto, molto presto: fintantoché la malta e il cemento fossero stati ancora freschi…
Quell’estate, da un po’ di tempo, nel camposanto del paese di C., si presentava ogni notte una donna anziana, vestita con una vestaglia bianca e una lunga fusciacca verde.
Il custode vedeva quella macchia chiara nelle ore serali estive: la figura attraversava correndo tra un cipresso e un tabernacolo, poi spariva misteriosamente dentro la terra, in un posto sconosciuto tra le erbe del prato. Ricompariva davanti ai muri esterni, alti quattro metri, e intonava una soave canzone, una melodia struggente. La sua voce, come quella delle sirene, incantava molti curiosi.
Le persone si soffermavano a guardare la scena e ne narravano per il paese le lodi, ovviamente amplificando all’inverosimile la storia.
Molti abitanti di C. incominciarono ad avere paura.
Decisero, così, in Comune, di chiudere per bene i cancelli del cimitero, la sera, con grossi lucchetti; di farli riaprire solo alla mattina, verso le nove. L’intero Consiglio, all’unanimità, deliberò per il meglio, costringendo un impiegato dell’ufficio anagrafe a fare gli straordinari per indagare sulla faccenda.
Però, nonostante sigilli e rinforzi, la figura femminile passava e trapassava tutti gli ostacoli, finendo per ritornare, e sparire, dopo la mezzanotte, nel buio pesto tra i sepolcri.
Gli addetti non capivano da dove uscisse e come fare a seguire i suoi passi.
Finché, in un pomeriggio uggioso, e con un cielo pieno di nuvole, che coprivano il sole da parecchi giorni, un becchino la riconobbe sopra un tumulo, a parlottare da sola.
L’uomo si avvicinò cautamente e origliò quel bisbiglio, quelle semplici parole che venivano borbottate. Vide le mani dell’entità muoversi, sollevare la terra. Sentì quella frase, quasi digrignata tra i denti: “faccia di minestra e capelli da insalata.” D’improvviso, tutta l’immagine sparì davanti ai suoi occhi, un brivido freddo lo percorse dietro la schiena. Al beccamorto non rimase altro che prendere nota del numero di riferimento della sepoltura, che si trovava davanti a lui. Era già ora di cena, e avrebbe fatto tardi, a casa lo aspettavano. Non poteva andare subito in Municipio, così, trafelato, sconvolto, per riferire l’accaduto. Eppoi, in ogni caso, avrebbe passato una notte tremenda, piena di incubi; forse avrebbe, addirittura, saltato anche il pasto serale, il suo benedettissimo pasto; e avrebbe rinunciato, forse, a quel vinello, quel buonissimo rosso che centellinava come fosse oro. Qualcosa di pesante gli bloccava lo stomaco, gli impediva di camminare. Dava la colpa alla passione per il cibo, alle pantagrueliche libagioni, alle sonore sbornie che prendeva, ogni giorno, nelle osterie. Forse aveva mangiato e bevuto troppo a pranzo. Forse.
Da qualche anno aveva la digestione lenta, non riusciva a smaltire come quand’era giovane.
Era ancora sotto l’effetto dell’alcol o, la sua, era solo… paura?
Raggiunse la bicicletta con cui arrivava in cimitero tutti i giorni e prese la fiaschetta dalla borsa sul manubrio: ci voleva, un sorso di grappa, contro lo spavento.
“Uno solo, giuro. Poi, da domani, smetto.”
Il giorno dopo la notizia fece il giro del territorio in breve tempo: tutti volevano sapere, guardare, toccare con mano la terra sollevata dal fantasma e la croce di legno piantata al suolo, dove lo spettro si era vaporizzato.
Sì, si trattava di uno spettro, di un fantasma, e io sapevo benissimo perché appariva.
Ma un’altra delibera, quasi unanime, decisa con una riunione straordinaria del consiglio comunale, diventò un’ordinanza immediatamente esecutiva da parte della giunta: il cimitero chiudeva l’ingresso ai visitatori, fino a data da destinarsi, e si dava esecuzione a riesumare delle salme per stabilire l’identità e l’origine dell’entità misteriosa.
Da quanto so, ancora adesso avvengono quelle apparizioni e il caso non è stato risolto.
Dovete sapere che io c’entro, e c’entro eccome.
Un giorno mi era capitato di leggere una storia, sembrava una di quelle fantasie locali, che tanto spesso si ascoltano nei villaggi, dove l’immaginazione supera la realtà, viene esagerata all’infinito, fino ad arrivare quasi alla leggenda e al mito.
Nel paese di C. c’era una nobildonna, di chiare origini veneziane, di nome Tiziana Galvani.
Nacque figlia unica e venne viziata dai genitori fin da piccola. Divenne una creatura snella, sottile. Rimase magnifica per molti anni, tantoché gli spasimanti e i corteggiatori si stupivano che fosse sempre sola, così bella, e che non volesse incontrare nemmeno le coetanee e i parenti. Nonostante molti uomini avessero varcato la sua porta, con poche frasi tutti furono rifiutati, assieme ai regali e agli omaggi. Rispediti lontano, con le pive nel sacco, assieme alle parole che pronunciavano nel salone d’ingresso di villa Galvani. Tutte dichiarazioni d’amore. La fata percorreva solitaria, a piedi o a cavallo, i boschi e i prati; guardava dalle persiane socchiuse della sua casa la gente passeggiare, passare con i carretti. Quando fu sola, sola veramente, ovvero sia quando i suoi genitori mancarono, le cose precipitarono improvvisamente. I suoi capelli corvini si trasformarono, assomigliando a bianche ife, a tentacoli di medusa; il busto divenne storto e la schiena curva come quella di un gobbo; si accentuò la sua magrezza; il viso diventò sempre più esangue; gli occhi si fecero tondi, piccoli, torvi; la gioia e il sorriso lasciarono il posto alla secchezza di un ghigno sulle labbra. Dopo una vita da zitella, mutò tutta la forma. In modo completo. L’indifferenza declinò in tristezza; l’appariscenza e lo sfarzo ostentarono nella capacità di essere taccagna con il prossimo.
La ricchezza soddisfaceva la coscienza di Tiziana Galvani con se stessa; l’unica voglia e desiderio: la sicurezza che dà il denaro, le economie. Per il benessere presente, prossimo e post mortem, mise nero su bianco quanto desiderava. Decise di farsi seppellire con tutti gli averi. Il suo testamento parlava chiaro: la dama esigeva che, alla sua morte, tutto fosse andato venduto. Come in terra, così in cielo, tutto il capitale doveva essere tramutato in un bellissimo vestito da farle indossare nella bara, ornato di pietre preziose e di splendidi monili d’oro. Sarebbe stata sepolta in un luogo sconosciuto del cimitero, nella nuda terra, dentro un feretro di particolare robustezza e finitura. Nell’enorme distesa, vicino a delle piante che erano ancora dei virgulti, fu inumata la megera, tronfia d’orgoglio, istupidita di vanità. Morì con la sua verginità. Quel giorno, verso le otto di sera, un colpo apoplettico la fece schiantare sui piatti della tavola, apparecchiata con bicchieri di cristallo e posate d’argento, la faccia sulla minestra e i capelli finiti sull’insalata…