L'ultima sera dell'anno
C’era un giorno un anno nuovo, la vigilia di un anno nuovo: c’erano tre persone, amici che non sapevano di essere legati, tre dolori mai sedati, tre ferite che ognuno di essi riapriva volontariamente.
Solo uno piangeva, gli altri due rimanevano a guardare, non l’altro, non l’amico, ma la strada. Un fiume di auto, di gente, clacson, tavolino e bicchieri, luci, quelle del Natale da poco trascorso. Guardavano lì dove non c’era niente, per annullare il loro tutto.
Finite le lacrime, un saluto.
‐ “Auguri Karan. Auguri End”
… E i due insieme: ‐ “Auguri Gian…vai via?”
‐ “Sì. È ora, ed anche per voi due”
‐ “Io rimango. Un’altra birra Karan?”
‐ “Un’altra birra, sì. Sarà la quinta End, e lo spumante, e dobbiamo tornare a casa, non vorrei farlo l’anno prossimo”.
‐ “Non ho voglia di tornare, ho troppe facce grigie da guardare. Tu hai di meglio?”
‐ “Per niente male, niente bene. Sto con te.”
‐ “Ci contavo… Gian un’altra e poi via tutti, insieme”
Gian disse no… poi pianse… restò.
‐ “Gian, hai altre 3 ore per piangere, poi finisce l’anno e smetti anche tu”, Karan lo disse con il capo reclinato sulla spalla, riscaldata dalla pelliccia sul collo del giubbotto.
E End gli fece coro: ‐“Eh sì Gian, ha ragione lei, basta”. Suonava grave detto da lui, con vocione profondo e virile, e tutta la persona confermava la frase. Grande, robusto, e dall’espressione dolce pur nella durezza dei tratti ben delineati. Ancora una volta spalleggiava l’amica, e le sue spalle potevano reggerla tutta la crudezza di Karan, quella crudezza che la rendeva libera.
Gian smise di piangere; non perché volesse. Piuttosto perché fu distratto dal pensiero che gli attraversò la mente all’udire le parole dei due.
‐“Ma voi non piangete mai?”
‐“Io no, sono uomo!” ‐ affermò End.
‐“Io ho pianto quando sono stata operata, che dolore!! Ah i brividi!”. Questo fu quanto si limitò a dire Karan, simulando un fremito con una scossa di movimento del suo copro: era molto più esplicito così il suo senso.
‐ “Io non riesco a non sentire la mancanza, questo non è un giorno felice per me, tutti gli anni, da anni, tremo quando penso che dovrà arrivare; mi manca mio padre”.
Gian lo aveva detto ora con parole, lo aveva detto tutta la serata con le lacrime ed i blackout di attenzione durante le chiacchiere e i caffè. E End e Karan sapevano già, sin da 2 ore prima, che avrebbero dovuto contenere la colata lavica del pianto di Gian e delle sue parole malinconiche. Era solo questione di tempi e persone.
Tra i due intercorse il pensiero comune, al pari delle altre volte, e lo sguardo di assenso che diceva chiaramente (per loro almeno, che avevano fatto di quel codice unico mezzo e alimento della loro amicizia): “Ok ci siamo, ora dobbiamo solo un po’ spingere, lui si aprirà, sanguinerà parole e respiri e poi starà meglio”.
‐ “Gian anche a me manca il mio, certo che mi manca. E’ normale.”
L’aria era distratta nel parlare: troppo distratta. Quando End guardava le “farfalle” e il suo interlocutore a fasi alterne e continue voleva dire senza ombra di dubbio che era in difficoltà. Non avrebbe mai permesso che lo si guardasse negli occhi mentre era all’angolo. E Karan sorrise, divertita al pensiero che quell’espressione la conosceva benissimo, le era familiare, la avrebbe distinta tra mille, perché era davvero sua, era End solo se aveva quella faccia, in quel momento: e ancora sorrise con l’immagine di End che diceva “SONO UOMO IO!”.
‐ “A me mancano un sacco di persone e un sacco di cose… però ne ho anche tante altre. Stasera mi siete capitati voi per esempio”.
Karan cercò di smorzare la fiammella della malinconia che stava in mezzo a quelle due micce viventi, e voleva evitare di dover consolare Gian e subirsi un’ipotesi mentale di End.
Dovevano distrarsi. Doveva distrarli: era ancora serena nonostante tutto, e voleva rimanerlo. E si chiese quanto tempo avrebbero impiegato a tirarla dentro quella bolla di anidride carbonica che le toglieva fiato. Karan si mise fisicamente tra loro infilandosi a braccetto di entrambi e attirandoli verso di lei come a chiuderla in un doppio abbraccio: aveva freddo e ne approfittò per scaldare a se stessa il corpo e ai due il cuore:
‐ “Voglio una sigaretta e vorrei starmene al caldo, si gela qui fuori. E poi lo sapete che siamo gli unici matti rimasti in giro praticamente?. Non passa più un’auto da almeno mezz’ora. Sono tutti a tavola con i bicchieri riempiti già per due volte. Anzi, scommettiamo che nel tempo di 3 minuti chiama anche la moglie di End, la sorella di Gian e la mia?”.
‐ “Eh si! Io scommetto che squilleranno tutti i telefoni insieme” ‐ End subito colse l’occasione per straparlare volontariamente e far ridere gli altri due.
‐ “No, la moglie di End sarà la prima a chiamare, poi tocca a te e per ultima arriva la mia” ‐ anche Gian decise di partecipare al gioco, e non piangeva più. Stava risalendo.
Karan non rilanciò perché stava pensando alla risposta che aveva già alla domanda della fatidica chiamata, la quale con calcolo statistico verificato avrebbe seguito uno script standard del tipo: “Quando vieni? È pronto, aspettiamo solo te” ; oppure “La pasta scuoce, è già impiattato”.
E lei? Lei non aveva fame. Era semplice: non aveva fame. Forse le birre, forse i 14 o 15 pasticcini e rustici vari che aveva mangiucchiato tra un brindisi e quello successivo. O forse erano quei due personaggi strani che portava ai suoi lati, quelle due strane sembianze, raggomitolate su se stesse e su di lei che al vento e alla luce dei due lampioni sulla strada, si stringevano e tremavano e dicevano stupidaggini. Quelle due ali, erano le sue due ali, quello che le serviva per alzarsi in alto. Era sazia di quello. Era piena e sazia dell’aria buona e sferzante che quei due le facevano respirare. Era una simbiosi perfetta quella che si stava realizzando in quel momento, in quella precisa ora. Lei era il pensiero di essere lontana dalla bassezza dei giorni di tutti; End e Gian erano il mezzo per sollevarsi e realizzare quel pensiero. E così lei per loro. E tutti e tre lo sapevano: niente di quello che godevano poteva essere possibile senza loro stessi.
La consapevolezza di un meccanismo così semplice e efficace, ribaltò i pensieri di Karan. In un secondo esatto tutto il prima di quel momento le si parò davanti, eventi sovrapposti, sequenze veloci di immagini, intervalli di luce luminosi e senza contorni. Era la mancanza, a poco, in poco, il vuoto le stava ritornando dentro. E quel vuoto si sarebbe colmato di pensieri di dolore, di moti della coscienza del male che aveva avuto e dato. Puntuali come orologi quelle orde di storie volanti arrivarono, insieme, tutte, arrabbiate come sempre. Ma lo sapeva, era previsto che accadesse, aveva il rimedio; Karan sapeva di dover solo dare loro il tempo e lo spazio per correre, dimenarsi, graffiarsi e graffiarla. Sapeva che la sua testa si sarebbe stancata presto di una lotta del genere. E i pensieri sarebbero sfumati senza lasciar traccia.
Così fu.
Si scosse da quell’immenso attimo di assenza e ritrovò Gian che sorrideva alla sua destra.
E dalla parte opposta End che la guardava tenendo la testa bassa e gli occhi obliqui, fermamente puntati verso i suoi in attesa che si voltassero nella sua direzione, in attesa di incontrarla in quello sguardo.
Forse fu anche quel richiamo intenso di End a riportare Karan al tempo normale. Lei si girò completamente verso di lui e lo vide immediatamente sorridere; fu un attimo il contagio. Sorrise a sua volta a se stessa e a lui. Ritrovò quell’espressione a lei dedicata che le ripeteva “siamo insieme”.
Cominciò lei i saluti.
‐ “Ok, ora a casa, tutti. Auguri ragazzi, ci vediamo l’anno prossimo, alle 13.00 aperitivo insieme”.
‐ “Auguri Karan per l’anno nuovo, e a te Gian pure, naturalmente a voi e ai vostri cari”.
‐ “Auguri End e stai attento alla pancia, crescerà di parecchio altrimenti. Karan mi dai un bacio? Auguri tesoro e ti voglio bene”. Karan baciò una guancia di Gian e lo pizzicò sull’altra provocandogli un gridolino di dolore.
Poi lui salì in macchina e salutò End e Karan con una nota di clacson.
Rimasero solo loro due, appoggiati uno accanto all’altro allo schienale della panchina del loro angolo; entrambi infreddoliti, entrambi restii a tornarsene a casa, entrambi sereni però insieme.
End ruppe il silenzio che era lì, intorno a loro. Lo adorava, era il più bel silenzio del mondo, quella piccola peste non sapeva dir meglio che con le silenziose occhiate o con i sinuosi accostamenti al suo corpo, come una bambina che vuole giocare ma sa di non poterlo fare senza permesso. Era sua complice anche in questo. Era la sua complice:
‐ “Karan senti…” ‐ non la guardò ancora, sentiva il braccio di lei contro il suo, e sentiva anche quella serpe che gli strisciava dall’inguine alla testa tutte le volte che avveniva il contatto con lei, si sarebbe girato volentieri a baciarla, era tutto quello che voleva per quella sera, ma qualcun altro aspettava il suo ritorno, e Karan non avrebbe diviso quel momento con il pensiero che gli attraversava la testa.
“End ti sei addormentato? Dimmi ti ascolto”… lei invece lo guardò, voleva vederlo, voleva ricordarselo quella sera e il mattino dopo e anche solo in un passaggio furtivo, aveva il desiderio di beccare in flagrante End a spiarla con lo sguardo torvo e fintamente imbronciato e la voglia negli occhi.
“Niente… dai, notte e tanti auguri… e aspettami domani ”.
Era chiuso l’argomento.