L'ultimo vigneto
Ho incontrato Eliseo mentre, a piedi e distratto da mille pensieri, procedevo verso casa.
E' stato lui a riconoscermi; appena mi ha visto ha suonato ripetutamente il clacson della macchina, poi si è accostato e con una manovra impacciata ha abbassato il finestrino richiamandomi a sé.
Eliseo è una persona già avanti con l'età, ma il suo fisico, a prima vista, sembra non risentire del tempo che passa.
E' alto e robusto, al punto che l'utilitaria lo contiene a fatica, ne limita i movimenti, lo ingobbisce; il sedile del conducente, spinto indietro a toccare quello posteriore, lascia uno spazio enorme tra lo schienale e il volante, ma lui lo satura completamente e a vederlo sembra stia guidando una macchinina degli autoscontri.
Dopo i saluti di rito ha cominciato a parlarmi di politica e ha finito per ricordarmi alcuni compagni di viaggio che non ci sono più e che invece secondo lui oggi dovrebbero essere qui: a mettere ordine in questo casino in cui ci siamo cacciati, a cercare, se non di cambiare la società, almeno di tornare a farci sognare un futuro.
Ascolto volentieri, anche perché a guardar bene la penso proprio come lui, ma dopo un po' quei ragionamenti mi mettono addosso tristezza e rabbia; allora, nel tentativo di dare una svolta al suo monologo, cerco di fargli cambiare argomento e chiedo della sua campagna e del vigneto.
Lui guarda l'orologio e, vista l'ora, di colpo si ricorda che deve correre a casa perché la moglie lo sta aspettando per il pranzo; mi lascia con l'invito a ritrovarci nel pomeriggio.
Quando arrivo a casa sua è nel cortile che sta combattendo con la magnolia, rastrella le foglie e aiutandosi con gli scarponi le raggruppa in piccoli mucchi.
‐ E' una bella pianta, ma sporca troppo ‐ dice con un tono di voce tremula.
Mi accorgo che è diventato lento nei movimenti e stenta a piegarsi; un vero supplizio vederlo chinarsi per raccogliere le foglie e poi sollevarsi per metterle nel secchio.
Se continua così facciamo notte, penso, allora decido di aiutarlo.
Quando terminiamo il lavoro, mi porta in garage e una volta lì riempie due bicchieri di vino.
Lo trovo esageratamente dolce: più che fruttato direi zuccherato.
Naturalmente non faccio apprezzamenti e lui nemmeno chiede; subito dopo da un mobiletto toglie una bottiglia e me la porge: è grappa di sua produzione aromatizzata al cumino, sostiene che tale spezia facilita la digestione ed elimina i gas che escono dalla bocca e anche da altre parti del corpo considerate meno nobili.
L'avvolge in un foglio di carta e mi raccomanda di non dire niente in giro; prometto che la berrò solo io e farò il possibile per fare scomparire in fretta ogni traccia.
Ride di un bel ridere, ed è proprio un piacere vederlo così.
Lasciamo il garage e ci spostiamo nella vigna: una delle poche rimaste, forse l'ultima.
Gli racconto che tempo fa, in un libro di storia locale, ho visto una vecchia stampa del nostro paese: fuori dal centro storico, dove ora ci sono palazzi, ville, capannoni, boschi, prima c'erano immensi e ordinati vigneti, prosperosi frutteti.
La vite è sostenuta da pali in cemento, unica concessione alla modernità; il rasato tappeto verde del fondo esalta la bella geometria del vigneto, i filari seguendo il profilo della collina disegnano un'onda marina.
L'unica cosa che stona, in quell'intreccio perfetto di ordine, lavoro, amore per il paesaggio, è la sbilenca casupola costruita con materiali di riciclo e posta proprio nel bel mezzo del vigneto.
Fuori è proprio brutta, ma dentro è una guerra.
La visione però più di tanto non mi scandalizza, anche perché sono cresciuto in una cascina della bassa in mezzo a bestie di ogni tipo, al fieno, agli attrezzi agricoli, al letame con i suoi gradevoli sentori; quindi so benissimo che per un contadino i concetti di ordine e utilità non sempre coincidono, anzi spesso divergono.
Nel rustico c'è di tutto: cassette piene di sarmenti tagliati in piccoli pezzi (buoni d'inverno per accendere il fuoco nella stufa) badili, vanghe, zappe e altri ferri del mestiere, poi damigiane, bottiglie; il tutto ricoperto di polvere e con una nuvola di mosche e moscerini a fare da contorno.
Eliseo toglie il tappo da una damigiana, ci ficca dentro un pezzo di tubo di quelli da irrigazione e aspira, appena il vino gli entra in bocca, sposta il tubo in una bottiglia impolverata che ha preso da una cesta; terminato il riempimento cerca un tappo ma non lo trova, allora prende un mezzo foglio del quotidiano l'Unità, lo accartoccia e lo preme nella bottiglia.
Prima di togliere la canna dalla damigiana spina un bicchiere di quel vino, ne sorseggia un po' e mi porge quello che rimane.
Sono imbarazzato, ma non posso rifiutare; assaggiandolo però mi rendo conto che è migliore di quello che prima avevo bevuto in garage.
Nei gesti del mio volto Eliseo intuisce approvazione e, compiaciuto, mette la bottiglia di vino in un sacchetto e me la porge.
Sinceramente non so che cosa ne farò una volta arrivato a casa, e di colpo mi ricordo di aver già vissuto una situazione simile.
Con lei, che da lì a poco sarebbe diventata mia moglie, stavo trascorrendo alcuni giorni di vacanza a Vernazza: paese delle Cinque Terre.
Oggi quella frastagliata costa della Riviera Ligure di Levante, a cui sono aggrappati i borghi, è universalmente riconosciuta come un'area turistica di pregio, capace di farsi ammirare da una frenetica, invadente e straripante platea di visitatori.
Invece nel tempo del nostro soggiorno prematrimoniale non era proprio così, quei paesi avevano ancora il respiro lento dei borghi di pescatori e contadini; ma erano anche gli anni in cui gli abitanti cominciavano a intuire le potenzialità dei luoghi in cui vivevano e a pensare che la bellezza e la generosità di quelle terre di mare potevano diventare fonti di un buon reddito aggiuntivo.
Da quel momento in poi fu tutto un fiorire di nuove attività, inizialmente di tipo individuale e spesso condite da qualche furbizia casereccia.
Avevamo lasciato il mare e stavamo percorrendo i caruggi, gli stretti e ombrosi vicoli caratteristici di Vernazza e di quasi tutti i borghi liguri; volevamo salire alla fortezza, da dove la vista a tutto campo spaziava sul golfo, il paese sottostante e le colline dell'entroterra.
Arrivati a un piccolo slargo del caruggio, notammo alcune persone sedute fuori da una cantina: stavano imbottigliando del vino e nello stesso tempo ne bevevano in abbondanza esaltandone le qualità.
Uno di loro ci offrì un assaggio, faceva un caldo infernale e quel fresco bicchiere di vino bianco era proprio un toccasana; subito dopo ci propose di acquistarne un po', ma noi anche volendo non avremmo potuto farlo, eravamo venuti in treno e sulle spalle avevamo già gli zaini che sembravano carichi di pietre.
Giusto per non essere scortese, dissi che al massimo avrei potuto comprarne due o tre bottiglie.
Il cantiniere, attaccandosi alle mie parole, affermò che non c'erano problemi.
In men che non si dica prese da una cesta tre bottiglie, le riempie e con un gesto altrettanto veloce vi conficcò i tappi; poi, porgendomele, sparò una cifra esagerata.
Non mi andava di mettermi a litigare e quindi pagai.
La prossima volta non mi freghi più! pensai allontanandomi da quel teatrino in versione ligure; ma la fregatura oltre che nel prezzo, stava anche nella qualità del vino.
Quando alcune settimane dopo feci per aprire la bottiglia (le altre due le avevo regalate a degli amici) il tappo, di pessima qualità, si disfece lasciando cadere i trucioli nel vino; lo filtrai con un panno, ma a quel punto mi accorsi che oltre ai pezzi di sughero c'era dell'altro, evidentemente la bottiglia non era stata lavata.
Alla fine, quando insieme a tutto il resto trovai anche un lungo capello grigio, dissi basta e buttai il tutto nel lavandino.
Penso che i miei amici fecero altrettanto, ma non ebbi mai la conferma perché non li rividi più.
Usciamo da quel posto e ci spostiamo nell'orto che sta sull'altro lato della strada.
Un disordine quasi autunnale ha invaso il terreno, rimangono alcune file di paletti a cui sono aggrappati i rinsecchiti e sterili fusti dei pomodori, pochi ceppi di insalata che hanno nelle foglie la stanchezza del vivere e, in controtendenza rispetto alla tristezza che le circonda, una bella fila di verze con un futuro da cassoeula. In un angolo del coltivo ci sono anche alcune piante cariche di peperoncini di un bel colore rosso carminio.
Eliseo ne prende uno e se lo mangia in un boccone, poi ne coglie un altro e me lo porge dicendomi di assaggiarlo; ormai pronto a tutto, ma pure fiducioso nella mia resistenza ai sapori forti, lo porto alla bocca e morsico con decisione.
Nel giro di pochi secondi mi ritrovo il palato in fiamme; per un po' fingo e resisto, quando però mi accorgo che sto per esplodere, prendo la bottiglia di vino, tolgo il tappo de l'Unità e bevo senza ritegno.
Lui stavolta non ride, però butta lì una delle sue battute.
Questa settimana ne ho quasi ammazzati tre con i miei peperoncini.Lascio un po’ di spazio alle sue parole, giusto per riprendere fiato, poi rispondo:
Bell'amico che sei!
Adesso Eliseo ride, ed è di nuovo un piacere vederlo così.