L'Uomo Allegro, la città e la pira.
La strada era scura, bagnata e urlava.
Una pioggia oleosa e grigiastra cadeva lentamente da un cielo invisibile.
Plumbeo e temporalesco, eppure celato: così era il cielo; coperto da strati infiniti di filamenti e teli lattiginosi, talmente fitti l’uno con l’altro, da apparire come uno sbilenco intreccio di fasci candidi; gli occhi del cielo non si potevano posare sulla città, e viceversa la città non era in grado di alzare il suo sguardo compassato e triste senza incontrare nient‘altro che intrecci della bianca fibrosità dei sogni.
Cosa avrebbe dato ogni singolo abitante della città per tendere la mano, ergersi al di sopra dei tetti sgraziati, spioventi dei palazzi in rovina, e riafferrare con foga quegli ammassi lattiginosi appesi come panni lavati da poco, che tuttavia marciscono giorno dopo giorno e si lordano inevitabilmente al contatto con i miasmi della città.
Il cielo era al di là di tutto questo. Celato dal bianco che era più terrificante di tutti i neri ammassi tempestosi di nubi e tempeste che la mente potesse concepire.
Ciò nonostante, la pioggia, pesante e untuosa com’era, si accumulava sulla superficie di questi strani veli bianchicci, creando conche stracolme di liquame dalle screziature arcobaleno dell‘inquinamento.
Le pozze d’acqua tendevano i fasci bianchi di membrane setose fino ad abbassarle verso il suolo, come malinconiche bave di ragno dalle pance gonfie di acque luride.
Attraverso le fibre fittissime eppur traspiranti delle membrane candide, la pioggia filtrava, scavando e lambendo la stoffa, per poi piovere nuovamente sulla strada urlante, ancor umida e unta ma in qualche modo lievemente purificata.
Ma della pioggia interessava poco e niente alla strada.
La strada urlava.
I tombini vibravano di grida stridule della ghisa che, rabbiosa, risuonava nell’aria come la voce adirata di un golem metallico.
Le finestre, le porte e le imposte di legno dei palazzi e retrobottega si esibivano in cacofonie di scricchiolii e schiocchi legnosi, accompagnati dal rumore tamburellante di schegge invisibili infrante contro i muri ammuffiti.
I lampioni e i pali dell’energia (un’energia che nessun abitante della città si era mai premurato di capire) sfrigolavano con soffi di puro odio felino, emanando nuvole di vermiglie scintille che piovevano, ad intervalli regolari, simili a sciami di lucciole malate e incattivite.
Ogni cosa inanimata, persino il selciato di ciottoli e i muri di calce delle case, nonostante fossero affievoliti da strati e strati di intonaco e pavimentazioni, emanava lamenti e stridii.
L’uomo affrettò il passo.
Odiava quelle strade. Le più vecchie della città. Era in quel luogo da pochi giorni, suo malgrado, e già odiava quelle strade. Ma non voleva perdersi d’animo, così pensava al meglio, concentrandosi sull’idea ferrea che si sarebbe trovato bene lì, avrebbe potuto piegare quel luogo a lui così ostile a favore della sua inesauribile forza d’animo.
Però, ogni volta che si fermava ad ascoltare il suono della città, rabbrividiva inevitabilmente.
Quelle strade…
Talmente vecchie, putrescenti e disperate da accumulare un carico empatico di odio dalla forza incalcolabile, al punto di esplodere in suoni rabbiosi e incontrollati: vibrazioni talmente vigorose da diventare grida inanimate, generate dalla strada stessa e da tutto ciò che essa contenesse.
L’uomo affrettò il passo, a disagio, ma ciò non poteva tappare le sue orecchie né nascondere la sua anima dalla malvagità che aleggiava tutt’intorno, dentro il più profondo recesso di ogni cosa.
Odiava camminare tra i muri scossi da gemiti , piangenti nubi di vecchi calcinacci in caduta; il dover sopportare piogge di scintille incandescenti che gli ricadevano sul collo scoperto pungendolo con il loro calore ustionante, al punto da indurlo a credere che quelle scintille piovessero da lampioni e centraline energetiche al solo scopo di recare dolore alla sua persona. Che fossero nubi di sputi ardenti, colmi di ardore e disprezzo.
Nelle strade urlanti, e in quella strada in particolar modo, la città esprimeva a piena potenza tutta la sua insofferenza per il mondo, per la vita, per gli abitanti che, come formiche affamate, popolavano e scarnificavano il suo ventre. Sempre di più, sempre più a fondo.
Rimanevano solo i drappi candidi e gonfi di pioggia.
Apparentemente inermi ma al tempo stesso immuni a tutto quell’odio traboccante, svolazzavano quasi annoiati, mossi da brezze che non erano avvertibili tra i dedali cittadini.
Tali drappi ciondolavano lentamente ai venti afosi che regnavano sopra quel luogo. Ingrigivano, ma resistevano. Come l’animo di colui che incassa le disgrazie della vita, ma piano piano ingrigisce dentro.
Ma non sono certo pensieri così malinconici a sfiorare la mente dell’uomo che in questo istante, dopo aver attraversato la strada urlante in preda al disagio, giunge all’altezza di un basso edificio rossiccio ed entra finalmente dentro ad una piccola porta nera e incrostata, alla base di esso.
La porta si aprì con violenza sotto il peso della sua spalla.
L’uomo entrò tendendo il braccio in segno di saluto e sorridendo.
‐Salve a voi, gente bella!‐ Esclamò, piegando una gamba dietro all’altra in un accenno di inchino dal retrogusto guascone.
Il tugurio fumoso che aveva l’onore di esser chiamato “locanda” non badò minimamente a lui, nemmeno per un istante.
Il vociare rimaneva basso ma costante come lo scrosciare di un fiume, intervallato da qualche colpo di tosse e sovente dai sonori sputi catarrosi di qualche avventore che aveva fatto sua una sputacchiera.
Più che una locanda, quel buco era da considerasi una lurida cantina con un bancone di legno graffiato e deformato dall’umidità e dalla birra versata nel corso degli anni; quel misero tocco di legno marcio doveva aver vissuto molte notti come quella, generazione dopo generazione di ubriaconi sbilenchi dalla mano di burro.
Se il posto era rivoltante, gli avventori contenuti al suo interno non erano da meno: corpi deformi e grezzi, scheletrici o grassi o bitorzoluti; alcuni di loro erano talmente imbruttiti dalle bevute e dalla vita, che stavano iniziando a perdere i connotati umani più sottili e personali, in una metamorfosi lenta e inesorabile che rendeva taluni simili a grosse statue di creta malamente abbozzate.
L’urlo della strada era decisamente attutito, ma nei rari momenti durante i quali per pura coincidenza le persone del locale abbassavano il tono di voce, l’orecchio acuto avrebbe potuto cogliere il sussulto ovattato di pareti e travi, inferiate e finestre a vetro opaco.
Tuttavia visto che tali lamenti erano rivolti verso il mondo, all’esterno, anche in condizione di silenzio assoluto l’effetto sarebbe stato imparagonabile al baccano intimorente che regnava al di fuori, nel vicolo.
L’uomo andò al bancone, togliendosi il pesante pastrano nero e ripiegandoselo malamente sull’avambraccio.
Incrociò lo sguardo dell’Oste: un uomo talmente grasso, che il suo stesso volto era parzialmente nascosto da rotoli di disgustosa pelle adiposa, tanto da rendere quasi impossibile l’atto di incrociare il suo sguardo.
Non che all’uomo interessasse particolarmente scambiare giochi di sguardi con quell’individuo fetido.
‐Un boccale di Falsa Speranza! E fammelo bello schiumoso!‐ Enunciò l’uomo, mentre con la mano che non reggeva il cappotto, sollevava il cappello a tesa larga ancora gocciolante, in un saluto teatrale che sapeva di sberleffo. Tuttavia la gioia stampata sul viso dell’uomo pareva sincera.
‐Finita…‐ Ruttò l’oste con sarcasmo, mentre con le mani grasse puliva boccali grandi quasi quanto le sue stesse dita.
‐Allora una pinta di Caparbietà bella forte, con un goccio di Ottimismo per il futuro! Non troppo Ottimismo, mi raccomando, non voglio che mi salga troppo alla testa, ho mangiato leggero questa sera…‐ Ritentò l’uomo, ammiccando verso l’Oste come se lui e quella palla di lardo si conoscessero sin dai tempi in cui entrambi succhiavano avidamente il latte materno. Lo stesso latte materno.
L’Oste poggiò la brocca sbeccata che stava tentando di pulire (invano, impossibile far passare i suoi enormi polsi all’interno di essa) e scrutò l’uomo. Almeno, così parve, visto che quel volto rugoso non aveva praticamente occhi.
‐Sei nuovo di qui eh?… ‐
L’uomo si grattò il capo, a disagio.
‐Beh, non proprio, mi pare di esserci già stato, ma…‐
L’Oste scosse il capo e sbuffò, dimostrando eloquentemente che le opinioni personali di colui che aveva davanti lo interessavano quanto un ballo di gala canino organizzato all’interno di un cratere lunare.
‐Qui nel mio bar, solo questo serviamo.‐
Detto questo, l’Oste prese un bicchiere da mezzo litro e ci versò dentro mezza dose di Disillusione, un quarto di Tristezza cronica e coronò il suo capolavoro con un goccetto di Odio sprezzante per le Diversità e le Novità.
Dal bicchiere salì istantaneamente un tanfo rancido che fece cadere stecchiti sul bancone due mosconi grossi come un unghia di pollice, accidentalmente sul tragitto dell’olezzo generato dalla bevanda.
L’uomo tuttavia non si fece tante domande e trangugiò l’intruglio.
Aveva fatto troppa strada ed era troppo intirizzito per rifiutare un cicchetto, anche se si presentava decisamente male.
Sentì il liquido viscido anche più della pioggia stessa scendergli per l’esofago, rotolando in un miscuglio di sapori, umori e sensazioni completamente negativo e anacronistico.
Immediatamente un gelo attanagliante si accumulò nello stomaco dell’uomo, propagandosi lungo tutto il corpo come se vene, arterie e capillari stessero diventando ghiaccioli invernali di diametro diverso, malamente intrecciati l’uno con l’altro in un sinistro percorso ad incastro.
Lo sguardo dell’uomo, prima vispo ed energico, a poco a poco perse intensità. Un velo bianco, una cataratta, scese sulle iridi verdi smeraldo che spiccavano così tanto su quel suo volto rugoso ma al tempo stesso senza età, proprio come quel luogo.
Con movimenti lenti e cadenzati, l’uomo appoggiò il pastrano sullo sgabello al suo fianco e si sedette. Ogni suo gesto, dal più evidente a quello più impercettibile, era improvvisamente diventato l’opposto di quelli che aveva sfoggiato all’entrata, esuberanti e carichi di allegria.
Chinò il capo, come tutti avevano fatto prima di lui, e senza proferir parola ordinò un altro giro, semplicemente alzando l’indice ossuto verso l’Oste.
Mentre l’uomo una volta allegro, ora grigio e stanco, ordinava un altro giro di “MalDiVivere” (così il panciuto Oste aveva chiamato la sua bevanda principe, ostentando un compiacimento a conti fatti esagerato), un manto candido e lattiginoso, simile in tutto e per tutto a quelli appesi a mezz’aria sopra tutta la città, apparve intorno al corpo dell’uomo, per poi dissolversi nuovamente un istante dopo.
Nel momento esatto dell’apparizione del telo candido e fibroso, che sembrò svolgersi via dall’uomo come se fino ad un attimo prima lo circondasse, l’Oste proruppe in una risata obesa, soffocata dai doppi menti esagerati impilati l’uno a ridosso dell’altro.
Tutti gli avventori si unirono alla prima risata, producendo un coro distorto di ghigni agghiaccianti e secchi, alcuni stentati, altri orribilmente squillanti, altri grotteschi e soffocati da bile e salive e bevande mal trangugiate.
‐Benvenuto nella città senza Arte né Parte!‐ Esclamò l’Oste tendendo una grossa caraffa lercia, colma di Cattivi Pensieri, Malvolenza e Superficialità Gretta.
Fatto questo, portò la caraffa alle labbra carnose e bevve in sonore lappate canine, rovesciandosi una buona metà della bevanda sul grembiule di pelle e sul petto peloso.
Altre risate risuonarono, più forti stavolta, e finalmente anche dentro il tugurio infernale risuonarono chiaramente gli stessi lamenti grezzi e gutturali del Vicolo Rabbioso della Città senza Arte né Parte, famosa per avere decine e decine di Vicoli, tuguri e Cittadini identici a coloro che stavano ammucchiati tristemente in quel buco di calce soffocante.
Trascorse la notte, una notte dove la pioggia continuò a cadere flaccida sui drappi bianchi dei Sogni e delle Belle Qualità personali che, ad uno ad uno, erano volati via dall’animo di ogni abitante della Città, tanto che avevano presto riempito il cielo, coprendo la vista a tutto ciò che albergava al di sopra di essi.
La mattina successiva, un sole malato e verdognolo sorse a EstOvest, nella non‐direzione dove era sempre sorto e probabilmente non avrebbe mai smesso di brillare di quella sua fioca luce sbagliata.
La porticina nera venne spalancata con forza dall’Oste, tanto che si infranse contro al muro facendo cadere un paio di mattoni.
Un lamento più vigoroso degli altri si levò dalla parete colpita ma nessuno degli avventori, davvero nessuno, se ne curò minimamente, inebriati com’erano di sbronze tristi, emozioni depresse e rassegnazioni interiori.
I clienti deformi e bitorzoluti uscirono dal locale, trascinando i piedi e ciondolando come anime infernali ritornate nel mondo dei vivi in attesa del Giudizio Universale.
In realtà, ogni loro notte era un inferno.
Ogni nuova mattina il proprio personale Giudizio Universale.
Tutti quanti, persino il “fù” uomo Allegro, ora rinato come uno dei tanti Uomini Senza Arte Né Parte, sapevano dove andare.
Completamente ottenebrato dal terribile miscuglio di cattiva umanità servito dal perfido Oste, l’uomo non più Allegro si sentiva ormai parte della comunità cittadina, legato a tutti coloro che lo circondavano da grondanti sentimenti di malevolenza, pregiudizio e odio.
Aveva trovato la sua nuova casa. Lo diceva che non avrebbe dovuto preoccuparsi di quel luogo, che l’avrebbe piegato alla sua indole, lo diceva ed era stato uno sciocco a temere il contrario.
Era tutto giusto, era tutto come doveva essere. Era tutto orribile e cattivo e spietato ed era esattamente come voleva che fosse.
Si diressero lungo il viottolo Urlante, che dopo pochi metri scendeva in una leggera pendenza verso il centro cittadino. Lentamente, ma inesorabilmente, ogni abitante della Città stava facendo la stessa, identica cosa: si incamminava, in silenzio, in un rito collettivo e silente.
Non c’erano uccelli in quel limbo di pena. Nessun volatile solcava il cielo sulfureo e sporco, costellato di pioggia perenne, perché in quel luogo nemmeno il più feroce degli animali meritava di perdersi nel oblio del circolo vizioso che governava la Città senza Arte né Parte.
Certo è, che se un uccello fosse esistito, e in quell’istante avesse scrutato con la sua vista acuta le strade e i dedali di ciottolato lercio che componevano la Città, avrebbe visto file e file di formiche umane, nere e vuote, che avanzavano verso la grande piazza ottagonale posta esattamente al centro dei sette ottagoni concentrici che formavano la Città.
Lì, esattamente nel mezzo della piazza, sorgeva la più grande Pira Infuocata che occhio umano, volatile o di altra natura avrebbe mai potuto osservare.
Una Pira alta decine di metri e che mai si consumava, ardendo con un fragore che pareva provenire dalle viscere stesso Dio punitore che aveva forgiato quel luogo.
La Pira, che ardeva costantemente senza mai consumare nemmeno un ciocco di legna, rendeva pesante l’aria e insudiciava irrimediabilmente i bianchi teli delle Anime ormai corrotte, rendendo i più vecchi ormai grigi come un cielo invernale.
Lì, intorno alla Pira di innaturale grandezza, gli abitanti si radunavano in cerchi concentrici esattamente come i quartieri della Città.
Una volta radunatisi in quel luogo, rendevano omaggio al loro fuoco guida, all’ispirazione per il loro rinnovato stile di vita nella Città.
L’ardente odio per ogni cosa.
Rendevano grazie in silenzio. Fissavano la Pira con occhi vitrei, incuranti del calore indicibile che bruciava loro i capelli o ustionava le pelli.
Rendevano grazie così, senza fare niente di significativo, senza pronunciare nessuna parola che fosse degna di essere udita.
La Pira bruciava e bruciava, immutabile.
I teli bianchi e fibrosi, raccoglievano la pioggia insudiciata dalla Pira e dalle sue zaffate sulfuree, e ingrigivano.
Ingrigivano sempre di più.