La candela spenta
Il 19 aprile 1774, alle cinque e mezza del pomeriggio, il grandioso teatro dell’Opera di Parigi mandò in scena la prima di Ifigenia in Aulide di Christoph Willibald Gluck. Nel palco d’onore il conte e la contessa di Provenza, la duchessa di Chartres e di Borbone, Luigi Augusto e Maria Antonietta e accanto a lei la principessa di Lamballe, sua amica del cuore, tanto pia quanto buffa, col naso a patata sotto un’acconciatura a grattacielo.
‐ Angelo mio – la Delfina in apprensione le prese la mano ‐ speriamo vada tutto bene… qui sono favorevoli all’opera italiana… Gluck si batte contro questa moda, utile solo ai virtuosismi dei cantanti…
‐ Non c’è motivo di temere… ‐ la tranquillizzò la Lamballe ‐ dicono che si sia convertito a Gluck persino Jean Jacques Rousseau…
‐ Mmmh, di filosofi e enciclopedisti non mi sono mai fidata…
‐ Questa volta dovete farlo per sconfiggere Piccinni e la du Barry…
‐ Silenzio! Comincia… tra cinque ore e mezzo sapremo – le zittì il Delfino, riferendosi alla durata dello spettacolo.
Ma non ci fu bisogno di attendere. Sin dall’ouverture gli accenti tragici di Agamennone, padre e sovrano disperato, che implora Diana di risparmiargli il sacrificio della figlia, sull’emozione di una melodia innovativa, toccarono il pubblico che cominciò ad applaudire seguito da Maria Antonietta le cui esclamazioni si udirono:
‐ Wunderbar! Das ist prima…*
E fortificati dal sigillo dell’autorità i battimani aumentarono prolungandosi fino a decretarne il successo.
‐ Non ci può essere competizione tra i compositori italiani e francesi e quel Gluck! – la settimana dopo madame du Barry ne parlava al duca d’Aiguillon in quei giorni ospite al Petit Trianon.
‐ Sono d’accordo… sarà presto dimenticato…
‐ Sarei lieto se si cambiasse discorso – Luigi XV s’intromise irritato ‐ queste dispute mi sono venute a noia, sono cose che mi affaticano… stasera andrò a dormire presto.
Il Beneamato, che aveva avuto la fortuna di compiere sessantaquattro anni in un periodo in cui la vita media era di ventotto, sentiva le forze mancargli di ora in ora. Il suo viso, un tempo maestoso, si era afflosciato, la stanchezza lo tormentava. Le stanze semplici del piccolo Trianon, soffuse d’una luce parca, lontane dalla confusione di Versailles lo rilassavano, ma avrebbe desiderato più silenzio, per sempre, soprattutto su argomenti per i quali non era il caso di accalorarsi come quello dell’insegnante di musica di Maria Antonietta. Mentre veniva accompagnato a letto, rifletté che Gluck a sessant’anni aveva affrontato un viaggio da Vienna a Parigi, chiedendosi se l’indomani avrebbe seguito il delfino in una battuta di caccia. “Lo accompagnerò in calesse” si disse, sbrigandosi a congedare il valletto che rimase a vegliarlo dietro la porta.
Il giorno seguente Luigi Augusto e suo nonno partirono dopo colazione in direzione di Marly. Sin dal risveglio il re aveva un fastidioso mal di testa ma, nella convinzione che l’aria fresca e il profumo del bosco gli avrebbero fatto bene, salì sulla carrozzella avvolto nel mantello. “ Da quando non vado laggiù?” si domandò con nostalgia, mentre il calesse si avviava per viottoli tracciati dagli zoccoli delle bestie, coperti di erba fragrante della sua gioventù. Rammentava il primo soggiorno a Marly nel 1724, per sfuggire una epidemia di vaiolo da cui era scampato immune. Pensò che Luigi XIV, quando vi risiedeva, imponeva la chiusura della reggia e lui aveva permesso invece di entrarci e di giocare fiumi di danaro. Ricordi commoventi mentre l’odore della foresta solleticava le narici! Però il cielo adesso girava, cresceva il dolore alle tempie. Di colpo ebbe l’impressione di trovarsi su una nave il cui ondeggiamento nauseava. Un singulto squassò il suo diaframma e un fiotto risalì la gola. Si sporse a vomitare la cacciagione pesante consumata con suo nipote. Accanto a lui il duca di Aiguillon lanciò un grido di allarme ordinando al cocchiere di rientrare. Una frustata e i cavalli galopparono ma la carrozza, pur lanciata, sembrava non arrivare mai. Al petit Trianon il sovrano andò a letto senza cena, ammaccato come dopo un pestaggio, ma ebbe ancora voglia di chiedere a madame du Barry:
‐ Com’ è andata la caccia?
‐ Mi hanno detto che il Delfino ha mancato un cervo al ponte di La Villedieu ed è rientrato a Versailles.
‐ Peccato!
‐ Non pensate a questo ora… ho mandato a chiamare il dottor Le Monnier…
Che venne il mattino dopo e riscontrando una febbre molto alta prescrisse il riposo assoluto. L’amante, scoprendo che la temperatura non scemava, lo vegliò, inumidendogli a intervalli regolari con un contagocce le labbra riarse.
Luigi XV non riusciva a parlare.
‐ Ho pau… pau…
‐ Non capisco…
‐ Ho paura… sta con me…
Il pomeriggio seguente, alle tre, La Martinière, l’eminente praticone che mai aveva tollerato la favorita accanto a sua maestà, apparve sulla porta come un messo del signore.
‐ Sire – sentenziò – è a Versailles che dovete farvi curare!
“Non riusciranno a separarci” pensò madame du Barry, mettendogli mantello e bandoliera direttamente sulla biancheria per partire insieme.
La camera del re a Versailles apparve immensa. Lei guardò i broccati in oro su fondo rosso come fosse la prima volta. Aiutò l’infermo a distendersi sull’alto giaciglio. Pregò ai bagliori del mortaio d’argento. Il valletto, con intento augurale, aveva sistemato in poltrona la tenuta delle grandi occasioni e la spada: sontuose uniformi senza vita mentre madame du Barry, gli occhi fissi sul re e la mente al cielo, invocava il miracolo.
Il mattino dopo, Le Monnier e la Martinière, insieme ad altri dodici luminari, si consultarono e decisero “febbre umorale catarrosa” decretando un salasso. Il malato spalancò gli occhi. Quella pratica, dolorosa e sfiancante, diffusa nel XVIII secolo allo scopo di purificare l’organismo infetto, si otteneva con l’applicazione diretta sulla pelle di sanguisughe, sorta di lumache prive di guscio, che usando una mascella a ventosa incidevano la cute e ne succhiavano il sangue.
Luigi XV si sottopose a un primo salasso, poi a un secondo. Ma il mal di testa si accaniva, così la febbre.
‐ Se occorre ne faremo un terzo – disse la Martinière
‐ E proprio il caso ? – protestò il re con l’ultimo fiato.
Un terzo significava infatti che era in punto di morte e che, più che di una terapia, aveva bisogno di un sacerdote. Poi lo fecero deporre su una branda da campo, ai piedi del letto a baldacchino, perché respirasse di più e sudasse di meno. A notte La Martinière, portandogli da bere, sentì l’agitazione e chiese al valletto di avvicinarsi con la candela: sul viso erano apparse vesciche gonfie di siero e aureolate di rosso. Sobbalzò. Chiamò i colleghi a raccolta. Gli scrutarono la lingua. Si guardarono.
Le figlie di Luigi XV e la favorita seguirono la scena con angoscia.
‐ Allora? – chiese madame du Barry
Silenzio.
‐ Parlate! – ordinò madame Adelaide.
Gli archiatri si consultarono, vennero verso di loro e quando furono certi di non essere uditi pronunciarono il verdetto terrificante: vaiolo!
“Non posso crederci”, rifletté la favorita mentre inutilmente cercava di addormentarsi, “ non aveva detto di essere immune?” Girandosi su un fianco ricordò che da bambina era stata terrorizzata da una suora guarita da una forma benigna: “E’ tutta spruzzata di caffè!” aveva gridato riferendosi al viso deturpato da cicatrici. Ma ora tutto era accettabile, pur che il re restasse in vita! Aveva sentito raccontare che la forma maligna copriva il corpo di pustole fino a decomporlo e la morte arrivava tra sofferenze atroci. Si rizzò a sedere, andò alla finestra, inspirò l’aria, sudava: si mise a pregare con forza rivolgendosi a Dio con il tu.
Quando il giorno seguente i medici riunirono la famiglia per dare disposizioni non credette alle proprie orecchie:
‐ Maria Antonietta è stata vaccinata a Vienna? – chiese la Martinière sapendo che la malattia aveva falcidiato gli Asburgo.
‐ Non so… ‐ rispose madame Adelaide
‐ I Delfini non devono uscire dai loro appartamenti nella maniera più assoluta… comunque non fatene parola, sua maestà crede si tratti di febbre miliare…
‐ Che altro possiamo fare? – implorò la du Barry
‐ Sperare…. – La Martinière guardò il cielo
Madame du Barry, angosciata e riconoscente, non si allontanò e non si chiuse nelle sue stanze, a costo di ammalarsi, attese con le figlie del re e i dignitari più fidati.
Una sera il duca di Aiguillon le sussurrò:
‐ A Parigi l’Opera ha interrotto l’Ifigenia in Aulide… segno del destino.
Lei lo guardò ma non sorrise, stava perdendo tutti i sogni e niente poteva essere importante.
La camera di Luigi XV aveva altissime finestre, con tende che di giorno oscuravano la luce e di notte la curiosità esterna. Vicino a una vetrata, nascosto da un drappo di broccato, fu messo un tavolino con un candelabro sul quale poggiava una candela sempre accesa.
‐ A che serve? – chiese la favorita al primo valletto
‐ Madame, appena spirerà la spegneremo e il mondo saprà che il re è morto.
“Non succederà, alla faccia di quelli che mi vogliono male!” pensò, ma il petto le si strinse scorgendo nel sottostante cortile la contessa di Brionne, madre di mademoiselle di Lorraine, amante del duca di Choiseaul che il re aveva esiliato, felice di veder risorgere la propria fazione, guardare la fiamma in attesa. “Gli choiseaulisti, i devoti vogliono dargli l’estrema unzione con l’augurio che tolga il disturbo…” rifletté.
Quando giorni dopo il sovrano la chiamò per mostrarle le vesciche sulle braccia e sul viso, atterrito e certo che fosse vaiolo:
‐ Non lo è – lo rassicurò – ne siete immune… E se devoti e choiseaulisti vogliono farvi prendere i sacramenti dategli soddisfazione solo per quietarli… vi raggiungerò di nuovo fra qualche giorno…
Più tardi, pentitosi di averla lasciata partire, Luigi XV la richiamò a se, ma ormai la sua Jeanne era lontana. Madame du Barry obbligata a partire da chi voleva fosse lavato il peccato di lussuria, quando fu sola scoppiò in singhiozzi.
A sera le figlie di Luigi XV ne parlarono sommessamente cenando nei loro appartamenti.
‐ Dov’era diretta? – chiese Sofia
‐ A la Ruel, dal duca di Aiguillon – sussurrò Adelaide
‐ Ha dimostrato devozione, non avrei creduto sfidasse la malattia – ammise Vittoria ‐ Ho contato quindici carrozze… tutti suoi amici o ne hanno approfittano per darsela a gambe?
Le tre mesdames rimasero accanto al padre, rassegnate anche al contagio, finché il suo volto si fece nero e terrificante, finché un puzzo tremendo di carne in decomposizione invase la camera e ne annunciò la fine. Appena arrivò La Roche Aymon, grande elemosiniere di Francia, tutti pensarono all’ora del trapasso: l’agitazione serpeggiò tra servitori, ministri, principi di sangue e cortigiani. Si guardò alla candela come a una fumata di San Pietro. Il confessore di sua maestà ascoltò i peccati e stabilì che il re doveva fare pubblica ammenda prima di ricevere la comunione, potere più grande di quello del sovrano, atteso per una vita intera. Così, il mattino seguente, il cardinale ebbe il suo grandioso quarto d’ora: salì, tra le guardie schierate lungo la sontuosa scala, sotto il baldacchino che reggeva il ciborio, accompagnando il Santo Sacramento nella stanza reale, seguito dalle mesdames di Francia e dai principi non ereditari. Il Delfino, i suoi due fratelli, Maria Antonietta e le loro mogli, non poterono oltrepassare la porta e rimasero ad attendere in fondo alla gradinata con un cero in mano.
All’esterno la voce cardinalizia arrivò prima indistinta e sommessa ma, dopo avere dato al sovrano la comunione, La Roche Aymon si avvicinò al vestibolo e pronunciò ieratico e altisonante: Signori il re mi incarica di dirvi che chiede perdono a Dio per averlo offeso e per lo scandalo procurato al suo popolo…
Un cielo pulito si stendeva sulla reggia in attesa. L’agonia durava da quasi due settimane: stillicidio doloroso che ormai, anche i più affezionati, desideravano finisse. I cortigiani si stavano abituando all’idea che Luigi Augusto salisse al trono, non lo consideravano all’altezza del re Sole però erano intenzionati a ingraziarsene il favore e a sfruttarne malleabilità e debolezze. Versailles e Parigi avevano risposto con indifferenza alla malattia del Beneamato: le campane delle chiese piansero a lungo ma nessuno entrò a pregare. In quella calma apparente e surreale, madame Campan, lettrice e prima cameriere della Delfina, il 10 maggio 1774 attraversava la Corte dei marmi per raggiungere il suocero nell’anticamera del re, ricevere notizie e dare disposizioni sulla partenza per Choisy.
Luigi Augusto e Maria Antonietta, zie, fratelli e sorelle del Delfino con mogli e governanti, avevano infatti deciso, prima possibile, di fuggire a otto chilometri dalla capitale per scampare qualsiasi pericolo di contagio. Tre e un quarto alle lancette dorate dell’orologio incastonato tra Ercole e Marte. “Il fresco di Choisy ci salverà” , pensava la lettrice alla quale pareva di sentire il tanfo orribile di Luigi XV. Dicevano fosse in coma, quanto sarebbe andato avanti? Che responsabilità per i Delfini! “Che Dio li protegga, sono troppo giovani per governare!” sospirò affrettando il passo. Salendo le scale ritrasse la mano dalla balaustra: si favoleggiava di cinquanta morti tra coloro che avevano percorso la Galleria degli specchi ed era terrorizzata. Entrata nell’occhio di bue, tra la siepe silenziosa dei presenti, sentì una leggera nausea e cercò suo suocero. La folla era tale che il salone, vasto e abitualmente luminoso grazie alle altissime specchiere e all’oro degli stucchi, appariva soffocante. I cortigiani aspettando tessevano trame, facevano pronostici, cercavano di guadagnarsi meriti sfidando la malattia.
‐ Avete visto il signor Campan? – chiese a un valletto
‐ Era qui poco fa…
Voleva tornare quanto prima, se solo lo avesse trovato! In quel momento sulla soglia dell’anticamera apparve il gran ciambellano, il duca di Bouillon che, battuto un colpo per richiamare l’attenzione, annunciò con voce solenne:
‐ Signori, il re è morto! Viva il re!
La candela era spenta.
Risposero all’unisono:
‐ Viva il re!
Madam Campan ebbe un tuffo al cuore. Grandioso! Pensò solo a correre in direzione dei Delfini, insieme a un fiume di gente che schizzò fuori dall’Occhio di bue come champagne da una bottiglia. Veloci, si urtarono, lanciando esclamazioni, diffondendo la notizia aumentarono via via, sollevando con i tacchi per corridoi e gallerie un fracasso che parve rombo di tuono o di cannone.
Luigi e Maria Antonetta, seduti nella loro sala, balzarono in piedi:
‐ Che succede ?!
Non ebbero tempo di realizzare, la folla fece irruzione.
‐ Il re è morto! Viva il re!
Per prima avanzò madame de Noailles, si inchinò profondamente:
‐ I miei omaggi al re e alla regina.
‐ Maestà… ‐ la imitarono un duca e una duchessa.
Dignitari porsero le congratulazioni, rullarono i tamburi, ufficiali levarono la spada, squillarono le trombe e centinaia di labbra inneggiarono.
Luigi e Maria Antonietta attendevano da giorni quel momento: non li colse impreparati ma la confusione li frastornò. Guardarono i presenti, si guardarono, giunsero le mani mettendosi in ginocchio. Il Delfino sentì apaticamente la faticosa responsabilità. Potrò fare come voglio? Si chiese Maria Antonietta. Ora muovevano le labbra senza farsi udire.
‐ Che dicono? – una contessa si rivolse a madame Campan
‐ Pregano Dio che li protegga perché sono troppo giovani…
‐ Ah… ‐ assentì la contessa.
Quella frase rimbalzò di bocca in bocca con molte variazioni.
In realtà nessuno aveva capito cosa stessero dicendo e nel grande subbuglio ognuno immaginava ciò che voleva, ma di sicuro si avvertiva ovunque che un’epoca era finita. Per le strade di Versailles e di Parigi il popolo si era già riversato ad acclamare il nuovo sovrano e la sua graziosa consorte. Faceva festa, bevendo, cantando e ballando, come se insieme al vecchio re si fosse estinta la miseria, come se stesse per sorgere finalmente l’alba grandiosa di un mondo nuovo.
*Meraviglioso! Di prima qualità!