La casa delle zie
C’è una collina, tra le colline, nell’entroterra romagnolo. C’è un paese sulla collina e una chiesa più grande del paese. Una piazza, un borgo, la scuola e, appunto, la chiesa.
In quel paese sulla collina, ricordo l’infanzia di una bambina un po’ timida e sognatrice.
Lì aveva trascorso i periodi più belli, in una casa vecchia di tre secoli ma gravemente lesionata dalla guerra e malamente adattata alle esigenze di vita più urgenti e necessarie. Aveva vissuto giorni felici tra campi di grano, filari di viti e sentieri di more. Aveva giocato nel giardino delle zie, tra le aiuole di dalie e di zinnie e sull’orlo dello stagno, bordato di calle bianche. Quel giardino un po’ selvaggio, che sembrava immenso, con i suoi viottoli erbosi e irregolari, i cocci e le piastrelle scompagnate che segnavano i sentieri tra le rose. Aveva ascoltato sinfonie di grilli nelle notti di giugno, respirando il profumo dei tigli e dei gelsomini, quando giungeva un chiacchierio sommesso dal cortile appena illuminato, mentre le lucciole nascevano dal buio e il sonno scendeva lentamente. Aveva sentito le cicale nel silenzio dei pomeriggi estivi, cullata da una noia leggera. E i cori del rosario nel mese di maggio, quando la chiesa odorava di gigli e risuonava di canti e preghiere, nelle sere tiepide di primavera.
All’orizzonte si vedeva il mare e laggiù, sulla costa, indistinta e sparsa in una linea confusa di case, la città.
Aveva ascoltato le “sue” fiabe, tante volte ripetute dalla voce delle zie e tante volte richieste, e poi sognate, sempre uguali e sempre nuove, quando ai primi brividi d’autunno si assopiva nel letto, intiepidito dai carboni ardenti dello scaldino e ancora odoroso di cenere. Guardava il grande quadro scuro con l’immagine del bisnonno garibaldino, quel bisnonno famoso che, giovane ribelle, era fuggito dal collegio appena sedicenne contrariando la famiglia “reazionaria”.
Aveva aspirato dalla porta di cucina l’aroma del ragù, lungamente sobbollito sul fornello della stufa, quando le zie lo cuocevano per ore, perché doveva “covare” a lungo per riuscire saporito.
Il caminetto scuro nella grande cucina, la lampada azzurra dall’aspetto opalescente, la fruttiera bianca sul tavolo quadrato, il tavolo dei lunghi “solitari” giocati e ripetuti senza fine: era il regno delle “zie”, le sorelle della nonna ormai scomparsa.
I gomitoli di lana, i centrini, gli uncinetti nelle mani operose di zia Aida che pregava, lavorando silenziosa nel suo angolo, seduta accanto alla finestra. Le verdure fresche ammassate sul tagliere, per i brodi saporiti di zia Alfonsa. E i discorsi sempre saggi di zia Anita, che sapeva ascoltare e consigliare, materna e generosa ma dall’indole forte e indipendente: degna figlia di un eroe garibaldino.
La casa delle zie. Aveva sognato in quella vecchia casa piena di calore, di affetti quieti e di presenze antiche. Aveva giocato con le amiche e coi cugini in quel giardino un po’ selvaggio che, nel disordine dei fiori e dei cespugli, si perdeva tra gli alberi dell’orto. Era un teatro sempre nuovo di avventure che aprivano la mente a tante fantasie.
Ricordava le lunghe estati assorte, col loro susseguirsi di giorni odorosi: quello pieno e solare del grano tagliato, nei campi sotto il paese, quello fresco e aromatico della terra dopo gli acquazzoni, quello forte e dolciastro dei gigli nei lenti crepuscoli, quello tenue e avvolgente delle rose, che si aprivano e si slabbravano presto, seminando i loro petali negli orti e nei giardini. Profumi, sensazioni, frammenti d’immagini: un patrimonio prezioso per gli anni a venire.
Ora quel mondo non esiste più.
Io non sono più quella bambina. Le zie sono scomparse, la casa venduta, lo stagno prosciugato. Il paese dell’infanzia è stato abbandonato e ormai dimenticati i compagni di giochi e di avventure.
Gli anni son corsi veloci, nell’altalena incessante di esperienze, di mete raggiunte o svanite, di cambiamenti e delusioni. Uno srotolarsi inafferrabile di giorni che strappa la vita dalle mani, che lascia l’indefinito rimpianto delle occasioni perdute e la malinconica insoddisfazione delle gioie appena avvertite e subito sfuggite, mai assaporate a lungo, mai abbastanza trattenute e meditate.
Eppure mi basta un profumo, un’immagine, un lampo breve e improvviso: ed ecco il sussulto del cuore.
Mi basta guardare là verso le colline, ed ecco tornare, insieme al ricordo, la quieta dolcezza delle cose. Quegli attimi preziosi e segreti che hanno il potere di rapirmi fuori dal tempo e riportarmi un’antica armonia, un rapido palpito di felicità.
Tratto da "Passeggiata d'autunno"