La commessa
La regola è sorridere, sempre, con nonchalance, come se stessi parlando con un’amica, come se avessi già visto quella cliente chissà quante volte. Anche quando è una di quelle che ti fa prendere tutta la roba e poi te la critica pezzo a pezzo, anche se poi si innervosisce perché non c’è la taglia che le sta bene, non esiste l’abbinamento che ha in mente o quel capo visto in tv. L’importante è sorridere anche quando le gambe ti fanno male perché non ti puoi sedere nemmeno un attimo, nemmeno con l’orario lungo che piace tanto alle amministrazioni ma poco perfino ai clienti. Sorridere anche quando le tue cose vanno male e vorresti piangere ma non puoi perché lì non sei una persona umana e hai meno diritti di un manichino: lui può restare un po’ nudo a guardarti schiattare di caldo in una divisa di cameriera un po’ più elegante.
Erano questi i pensieri che mi avvolgevano quel martedì mattina, giorno inutile, dove non si vede un cliente nemmeno a pagarlo, dopo la scorpacciata degli ultimi sabati di saldi. Non mi vedevo con il mio ragazzo da quasi un mese ed il fatto che non se ne lamentasse mi convinceva sempre di più che avesse un’altra. Non ci volevo pensare per cui tentavo nel mio specchio falsi sorrisi quando l’ascensore si mise in funzione.
Quando sei in un negozio che ha solo un piano interrato l’ascensore dovrebbe essere solo proforma, giusto per far vedere che te lo puoi permettere. Ed invece è un incubo. Quando senti il bip di attivazione cominci a presagire guai. Il caso migliore è quello in cui qualche peste scappata alla mamma l’ha preso per fare un giro. Quando ti avvicini facendo finta che li vuoi acchiappare premono subito l’altro pulsante e spariscono per sempre dai tuoi problemi.
Ma questo capita di rado. Invece generalmente le porticine si aprono a fatica e, tremendamente stipate in quell’uovo di metallo, ci sono signore enormi, di quelle a cui nemmeno le taglie forti sanno opporre resistenza, oppure anziane che si muovono a stento, portate sottobraccio da badanti con colori diversi: loro non sanno che lei veniva qui, da giovane, tanti tanti anni indietro, quando il negozio portava il nome del proprietario e non quello di una multinazionale di casa nostra con i capitali in qualche paradiso fiscale. Difficilmente si riesce a vendere qualcosa: le persone grasse cercano di trovare qualcosa, si misurano abiti succinti sperando nei miracoli dell’elasticizzato, abiti molli pieni di veli che pure si incurvano sotto le loro abbondanti forme. Le persone anziane invece non cambiano quasi mai il loro vestito ma lo arricchiscono con un foulard, un cappellino, un qualcosa che come dia la sensazione di cambiamento senza la pretesa di riuscirci.
Così guardai sott’occhi l’ascensore per vedere a quale delle tre categorie appartenesse lo spettacolo rivelato dal sipario delle porticine. Apparve una ragazza alta dai lunghi capelli neri che incorniciavano un viso scuro, abbronzato, su cui campeggiavano come enormi fari due occhi scuri, appena sottolineati dal trucco. Mi chiedevo cosa ci facesse questo portento della natura nell’ascensore quando le braccia, avvolte nell’aggancio delle stampelle, accolsero il suo corpo. Pensando ad un incidente di sci, calcio o moto cercai nel lungo gesso della gamba la solita coreografia di disegni e firme. Ma non trovai né gesso né gamba: un moncherino mi rivelò ben più duratura tragedia.
Mi vergognai dei miei pensieri e le chiesi cosa potessi offrirle. Dei jeans mi disse, con taglio e cucitura della gamba mancante. Posai subito sul tavolo il lungo vestito da sera che stavo sistemando e mi precipitai, con tutte e due le gambe, verso lo scaffale con i jeans. Lei non mi guardò nemmeno ma saggiò con le mani la seta dell’abito da sera, lo appoggiò sul suo petto valutando la taglia e poi, timorosa e tenera, mi chiese se poteva provarlo. Più incantata che sorpresa, le risposi che poteva, offrendomi di darle una mano. Ma lei era già nel camerino, già sentivo le stampelle che erano poggiate e riprese velocemente dalle pareti.
Riapparì come una dea. Il lungo scollo metteva in evidenza un petto robusto, sicuro, che continuava nel collo la morbidezza della pelle. Arrivò al centro della sala, davanti ad uno specchio a tutta altezza che rimandava ai suoi occhi la bellezza del corpo. Ora ruotava, gonfiando leggermente lo spacco, e chiudeva gli occhi quando, girando, il moncherino si sostituiva alla gamba sana. Lo facevo anche io perdendomi nella grazia di quel corpo soave.
Le dissi che le stava benissimo e mai fui più sincera con un complimento. Lei mi guardò con gratitudine, sorridendo alla assurdità della mia frase. Poi prese il jeans e si richiuse dentro il camerino.
Quando emerse si avvicinò al tavolo restituendomi l’abito da sera e la misura della cucitura del jeans da preparare.
Riprese l’ascensore regalandomi un ultimo sorriso.
Forse anche per lei il sorriso era la regola. Un sorriso di difesa, un sorriso di disperazione che sostituiva il dolore e la rabbia verso una vita che le aveva dato tanto e poi se l’era ripreso, con gli interessi.