La coscienza di Aristide
Che cos’è la coscienza se non un interstizio non meglio localizzato in un anfratto nascosto del nostro cervello; una spia condizionata dal senso comune? Un supervisore atemporale di fattura eterea e divina?
Aristide era conosciuto da tutti nella periferia Est di Roma.
Suo padre essendo rimasto sordo e interdetto durante i bombardamenti sul quartiere di San Lorenzo si rese impossibilitato nell’andare a raccogliere ferro e stracci nei quartieri bene della capitale. Il ragazzo continuò a vivere in quella casa dove sua madre si rabattava a lavare la biancheria sporca dei soldati americani avendo in cambio poche “am‐ lire” e della polvere di piselli.
Aveva quindici anni e quella condizione gli andava stretta come la giacchetta dal colletto liso che indossava sempre. Dopo parecchi furtarelli andati a buon fine decise di investire in attività più redditizie e con meno pericoli da affrontare: dare soldi a strozzo.
Reificato dalla sua giovinezza non avvertiva risentimento alcuno, la disperazione delle persone alle quali avendo prestato denaro e questi: non potendolo restituire, non lo scalfiva neppure. Continuava la sua esistenza asservita alle lusinghe del dio denaro accompagnato dagli anni che, passando in fretta iniziavano a marchiare le sue mani di chiazze marroni.
In quel Settembre del duemilaquattro si trovò ad avere improvvisamente settantacinque anni. Essendo sempre vissuto da solo dopo la morte di entrambi i genitori, aveva fatto del denaro l’unica compagnia. Prima di andare a letto la sera contava febbrilmente il frutto delle “cravatte” riscosse, “smazzandole” e accatastandole per taglio e valore, con la Marlboro pendente dalle labbra, ingrigendo quella camera di fumo e della sua presenza.
Ne aveva ammonticchiati di soldi in cinquant’anni di debosciata carriera. In una sera, come le tante che passava a sbavare sulle banconote, un fatto insolito cominciò ad inquietarlo. Gli sembrava di percepire una presenza, era qualcosa che non sapeva definire ed era molto lontano dal saperla interpretare. Ultimamente, appisolandosi sul letto gli sembrava di scorgere un’ombra che sovrastandolo sulle lenzuola lo alitava di inquietudine, si sollevava allora seduto, l’ombra pareva ritirarsi andandosi ad acquattare sotto la rete. Gli sembrava sentirla ansimare. Aristide per i primi tempi non diede peso a quel fenomeno, erano certo visioni dovute per lo più ai fumi dell’alcool del quale ultimamente faceva grosso abuso. A notti intervallate l’ombra si ripresentava. In quelle notti cominciando ad avvertire il peso degli anni sembrava volesse trarre un bilancio della sua vita ricca di solitudine. L’ombra strusciava ed alitava. Aristide non si sollevava più dal letto ma arrotolandosi nelle coperte si faceva coraggio e con un braccio ciondoloni tastava lo spazio angusto fra la rete e il pavimento. Non trovando nulla sonnecchiava, di quel sonno sudato anticamera dell’angoscia e prolegomeni di un futuro orrendo. La mattina con gli occhi affossati mescolava i ricordi, mangiava poco e cominciò a pisciarsi anche addosso, il suo stato di salute andava peggiorando con i giorni che gli passavano accanto. Decise di non adagiarsi più sul letto divenuto ormai il parallelo della tomba, avvertiva un recondito terrore solo al pensiero di sdraiarsi su una superficie piana, si appisolava allora sulla poltroncina nel corridoio, ricettacolo da sempre di pacchi di carta di giornale che scansava quasi a fatica per farsi posto. In quell’angusto e ristretto spazio si sentiva più sicuro, ma quando si fu abituato alla nuova dimensione ricominciò a pensare avvertendo di nuovo l’inquieta presenza dell’ombra, questa lo derideva sbeffeggiandolo, poi lo osannava portandolo in alto della sua presunzione e lo lasciava da lì cadere nell’inferno dei suoi dubbi. La salute continuava a peggiorare fin che non fu costretto a ricoverarsi in ospedale.
In quell’ambiente di sofferenza gli sembrò di stare meglio, riusciva persino a restare disteso sulla brandina senza provare tedio. Passarono dei mesi, si era ristabilito ormai fra qualche giorno sarebbe uscito e avrebbe ripreso gli affari di una volta.
Quella ultima notte di degenza passò tranquilla, ma dentro qualcosa lo rodeva, aveva settantacinque anni e un senso di colpa lo opprimeva, cominciò di nuovo a stare male ora era immobilizzato si muovevano solo i suoi occhi, larghi spalancati verso il biancore del soffitto, l’ombra tornò ad alitargli addosso, lo incollava lo amalgamava con lei. Gli alitò nella bocca un fetido fiatare e soffocandolo nel suo abbraccio lo fuse a se. Durante quella notte, l’infermiera di turno avvicinandosi al letto divaricò il pollice e il medio, e portandoli sul viso dell’uomo abbassò quelle palpebre con circostanziale pietà.