La cucina etnica del geometra Saverio Pandullo

È piovuto tutta la notte e un residuo di nuvolaglia nera dondola pigra sulla verticale di Monte Orlando. La sabbia chiara della spiaggia di Serapo, inzuppata di pioggia, ha preso un insolito colore marroncino e gli ombrelloni multicolori degli stabilimenti balneari sono ancora chiusi e coperti dai regolamentari cappucci protettivi. La mareggiata notturna è arrivata a sfiorare le prime file e qualche ombrellone è piegato in avanti. Il geometra Saverio Pandullo, alto, ossuto, quasi calvo, acquosi e sporgenti occhi azzurri, come ogni mattina da dieci anni a questa parte, da quando cioè è andato in pensione, fa colazione seduto al tavolino d’angolo del solito bar con caffellatte e cornetto ripieno di crema chantilly. Ha letto a scrocco i titoli del giornale durante la colazione, non riesce a leggere altro perché malgrado una elevata presbiopia si intestardisce a non usare gli occhiali. Gli basta leggere solo i titoli, tanto le notizie sono sempre le stesse e non scalfiscono le sue radicate convinzioni: dovrebbe rinascere un nuovo Mussolini per mettere a posto le cose, ci vorrebbe la pena di morte e i lavori forzati per chi non rispetta la legge. Ma durante il periodo estivo il bersaglio delle sue invettive sono i vuò cumpra e i vacanzieri napoletani. Dopo aver ingoiato l’ultimo pezzo di cornetto e i residui dello zucchero dal fondo della tazza, si pulisce il mento con il dorso della mano, accende una puzzolente Nazionale senza filtro e dà inizio alla sua solita filippica contro i disagi estivi.
“Mi domando e dico, come si può venire in vacanza a Gaeta? È un posto bellissimo, su questo non ci sono dubbi, ma purtroppo non offre niente, tranne prezzi spropositati per le case in affitto ai napoletani della peggior specie, vigili urbani incarogniti, gli ausiliari del traffico altrettanto incarogniti a fare multe anche se si sfora di qualche minuto la sosta, il traffico convulso, i parcheggi che mancano, il furto dei grattini, la maleducazione collettiva... e chi più ne ha più ne metta!” Scuote la testa, riprende fiato e continua. “Poi oltre all’invasione dei vacanzieri c’è quella dei vu’ cumprà che occupano indisturbati le spiagge e i marciapiedi del lungomare Caboto. Quei negri fanno i loro comodi, i vigili fanno finta di niente: anche quelli devono campare. Insieme agli ambulanti sono arrivati i cinesi, silenziosi, una folla, hanno aperto ovunque i loro negozi e vendono la loro merce schifosa a pezzi stracciati, facendo concorrenza ai commercianti locali. Io voglio bene a Gaeta, per questo ci sono venuto a vivere dopo la pensione, ma se non facciamo qualcosa di serio diventerà peggio della riviera romagnola. Troppa gente, troppa folla di fetenti!” In genere arrivato a “troppa folla di fetenti” si ferma, in attesa di interloquire con qualcuno. Deve fare passare in qualche modo le ore della mattinata. Molti dei clienti abituali hanno fatto il callo ai monologhi di Pandullo e non gli danno spago.
Stavolta, per il tempo che minaccia pioggia, niente spiaggia per l’ing. Mahone Naweto, ghanese, dipendente di un’impresa di navigazione, in trasferta a Gaeta per ordinare presso il Cantiere Navale la costruzione di due pilotine da porto. Ne ha approfittato per farsi tre giorni di vacanza, ma ha beccato tre giorni di pioggia. Anche lui ha finito di fare colazione, richiude il giornale che stava leggendo, poggia gli occhiali a mezzaluna su tavolino e sorridendo si accinge a rispondere, anche per lui si tratta di fare passare le ore che mancano al pranzo. “Beh, io a Gaeta ho iniziato a venirci da giovane, quando, anni fa, frequentavo l’Università a Roma. Un mio compagno di studi aveva casa qui e mi piaceva venirlo a trovare. Con altri due studenti, anch’essi ghanesi, affittavamo un appartamento nella casa rossa dei vetrai di fronte alla stazione. Ce la diedero senza tanti problemi, pensando che fossimo marinai americani, allora ce ne erano tanti con le tasche piene di dollari che spendevano a piene mani, per la soddisfazione di tutti. Noi non avevamo tanti soldi da spendere, eravamo studenti fuori sede, molto fuori sede, ma nella convinzione dei gaetani, essendo neri, eravamo americani. Ora mi capita di tornarci di frequente per il mio lavoro con i Cantieri Navali e non perdo occasione per trattenermi qualche giorno in più. Scendo all’Hotel Serapo, sempre la stessa camera che guarda verso il mare. Mi piace Gaeta perché si fanno sempre le stesse cose: la sera un pezzo di pizza al taglio da Roberto, il gelato a mezzanotte dalla francese, il cenone di Ferragosto all’Aenas, la cena la domenica sera all’Antico Vico, se poi ti vuoi abboffare fino agli occhi si va dal Nostromo, la trattoria dei camionisti delle cisterne Agip, la colazione del mattino con cornetti ripieni dalla Triestina, il cabaret di palle ciotte di Stenta, quattro chiacchiere con il filoborbonico che dirà anche un sacco di cazzate ma è piacevole da ascoltare perché ci crede, il mercato del mercoledì per trovare maglioni a metà prezzo, che non li trovi mai, il mercato del pesce sul lungomare Caboto ogni pomeriggio, le cozze e le vongole al vivaio di Calegna. Mi direte: sempre le stesse cose? Si, se no che razza di vacanza sarebbe! Questa città la conosco bene, anche se ho girato il mondo. I problemi che lei ha sollevato non credo siano solo di questa città. Che vuole fare mettere i cannoni sulle coste italiane e bombardare i barconi che attraversano il Mediterraneo? Vede, io ho la pelle scura, anzi sono negro, come lei ha detto prima. Cosa crede, che a quei poveri cristi faccia piacere caricarsi la loro mercanzia sulle spalle e andarsene in giro sotto il sole? Sarebbero felici di trovare un lavoro decente. Tanto per sua conoscenza quella merce la vendono per conto di padroncini italiani. E sono i padroncini che si arricchiscono. Poi, caro signore, vada in giro per i campi, per i cantieri edili, a casa degli anziani non autosufficienti e vedrà chi fa quei lavori che voi italiani non volete più fare. Veniamo poi ai cinesi: hanno monopolizzato il commercio e la produzione intensiva dell’abbigliamento e delle calzature a basso costo e quindi a basso prezzo. Cominciate a porvi qualche domanda e a darvi qualche risposta seria. La soluzione non è certo alzare muri per difendere qualcosa che non è più difendibile. Il mondo è diventato piccolo. Veniamo a me ora: vivo in Italia da trent’anni, ho sposato una italiana, ho due figli color cioccolata ‐ come qualcuno ama definirli ‐, pago le tasse in Italia ed ho le palle piene di dover dimostrare che non sono un cannibale o un mangiatore di banane ‐ a cui oltretutto sono allergico ‐. Poi mica è bello sentirsi trattare come un’orda di vandali che invade il territorio e turba la tranquillità dei “locali”. Sul rispetto delle regole, infine, ci sarà anche qualcuno di quelli che vendono la loro merce sui marciapiedi del lungomare, magari parlano ad alta voce e lasciano in giro cartacce, ma quei ragazzi che, di fronte al mio albergo, ogni sera ci puntano contro, dal loro balcone, quelle pistole laser, sono di Gaeta, lo so per certo. Ho chiesto ai loro genitori di tenere a bada i propri figli. E ora mi fermo qui, se gradisce, prendiamo un altro caffè. Ah, dimenticavo. Lei propone di salvare Gaeta dall’invasione dei vu’ cumprà, non capisco come”. Pandullo gli manda un sorriso sbieco e: “Mica non mi piacciono… ”, ha un momento di pausa, “gli africani, anzi è il contrario. Sapesse quanto amo la cucina etnica. Ogni mese vado a Roma o a Napoli a rifornirmi di ingredienti. Ho un capiente congelatore. A Napoli e a Roma si trovano buone cose da mangiare, a buon prezzo. Poi ho l’hobby dei sottaceti. Abito a due passi da qui, se le fa piacere, per riconciliarmi le voglio dare in omaggio una mia specialità”. L’ingegnere è stupito di questo invito: in genere i gaetani sono il massimo dell’inospitalità, ma non se la sente di rifiutare. Si avviano lungo lo stretto budello di Via Indipendenza, insolitamente deserta. Si è alzato un violento vento caldo e sta iniziando a piovere. In un angolo cieco c’è un palazzotto mezzo diroccato con un portone di metallo arrugginito che Pandullo apre con una grossa chiave. L’ingresso è un unico ambiente che fa da cucina, soggiorno e deposito. Al centro un tavolone di legno scuro con intorno quattro sedie scompagnate. Addossato alla parete di fronte un congelatore a pozzetto tipo quelli dei supermercati, di fianco una cucina da ristorante, forse comprata a qualche vendita fallimentare. Sui fornelli accessi due pentoloni mandano un vapore denso. Dal soffitto annerito, attaccati ai ganci pendono prosciutti dalla forma allungata. Di fianco alla porta una vecchia madia dipinta di giallo con vezzosi fiorellini verdi e rossi. Naweto si guarda intorno incuriosito e con tono scherzoso: “Fa servizio catering per qualche ristorante?” Pandullo bruscamente: “Non proprio! Apra quella madia e si serva pure, ci sono i miei sottaceti”. Naweto vorrebbe rifiutare l’invito e andare via, ma tanto per accontentare Pandullo si avvicina alla madia e solleva il pesante coperchio. Prenderà un vasetto di sottaceto, tanto per gradire. All’inizio del vicolo, fuori dalla vista di Pandullo, c’è un capiente contenitore per rifiuti pronto a ricevere il poco gradito omaggio. All’interno diversi vasi di vetro, ne prende uno a caso. Lo guarda. Nell’aceto galleggiano tre lingue. Non sono lingue bovine o suine.
Sono lingue umane. Naweto sta per vomitare. Non fa a tempo. Un colpo al centro della testa che si apre come un’anguria. Pandullo sorride e mormora: “Stasera provo una nuova ricetta, stufato ghanese con origano e olive nere di Gaeta”.