La festa della vita
Nello, il maggiordomo, era appena uscito dallo studio col solito passo strascicante.
Quel telegramma non finì accatastato sopra gli altri. Grazia volle leggerlo tutto d’un fiato.
“E’ il nipote del libraio Carlino… chiede notizie sulla mia salute. Andavo e venivo da loro tutti i pomeriggi.”
Come gli sfrigolii del temporale indugiavano presso i vetri dei due finestroni laterali, allo stesso modo gli occhi di Grazia erano due direttori d’orchestra che modulavano in sincronia la pioggia dei ricordi.
“Ha visto? Neanche a esserci messi d’accordo! Le raccontavo della mia Sardegna, e guardi un po’ chi mi ha scritto.”
Grazia mi chiese con cortesia di spalancare i battenti.
Del maltempo non le importava più.
Per quasi un’ora la circondò un denso tepore di lacrime.
“Suo padre si arrabbiò?”
“Reagì molto male, d’altronde l’avevo messo in conto. Ma non c’erano altri modi allora di guadagnare quei soldi, che trafugare e vendere l’olio della nostra cantina.
Il peggio avvenne dopo le prime pubblicazioni.”
Quattro giovinastri appollaiati presso i cespugli di una tanca, una mattina l’avevano presa a colpi di rami e sassi, e le avevano insudiciati i capelli d’inchiostro.
“Volevano che smettessi di scrivere; ripetevano che mi conveniva cercarmi marito, che quella era la mia terra e io la stavo disonorando!”.
Grazia insistette perché mettessi almeno un mezzo cucchiaino di zucchero nel mio caffè; era un suo mirabile vezzo prodigarsi per rendere le cose meno amare.
“L’indomani per la festa di S. Antonio Abate, mi spuntarono sulla fronte e sulle braccia, lividi grandi come noci.
Quei quattro furfanti stavano a vigilare da sopra i loro muli; passai loro nel mezzo, e li salutai.
La notte stessa poi, sotto una luce fiochissima, il vento delle brughiere chiamò la mia mano a scrivere le Leggende Sarde.”
Il marito fu indispettito della mia presenza a quell’ora inoltrata; ho ragione di credere che temesse più che altro un mio coinvolgimento con la stampa clandestina antifascista.
Grazia restò indifferente alle sferze del marito; la tenne desta il mio viso asciutto e carnoso; prese a fantasticare su di me, come sull’immagine di un Elias Portolu più forte e conturbante.
“Essere giovani è il premio che Dio offre a tutti; ma ascoltami; bisogna ben riporre la giovinezza in noi stessi, per rintracciarne ancora il luccichio, quando la vecchiaia ci condurrà sul suo cocchio”.
Grazia rimase in silenzio per una ventina di minuti, posata sul letto come un ritratto nostalgico.
Meno che mai la scuoterono le mie domande sul premio Nobel, sul prestigio internazionale, sulla bella amicizia con D.H.Lawrence.
“Cantami qualcosa della tua Sicilia”, riprese, dopo avere scompigliata la sua crocchia, e resi liberi decine e decine di capelli ingrigiti.
“Veramente non ne conosco” ammisi con molto imbarazzo.
“Dopotutto”, mi disse,intercalando una smorfia a ogni parola,”tu non sei come Elias.”
Passarono due giorni e tornai da Grazia a mostrarle l’anteprima dell’articolo che avrei pubblicato l’indomani per il mio giornale, sperando sempre d’integrarlo all’ultimo momento con rivelazioni esclusive.
Con mia sorpresa mi aprì il marito; i suoi baffi neri e lo sguardo vagamente astioso, stavano quasi per farmi recedere.
M’introdusse poi un po’ forzatamente nello studio della moglie; la sorpresi che cantava un brano in dialetto sardo, mentre a mano scriveva su un foglio per lettere. A un segno dei suoi occhi mi feci più vicino. Di diverso notai gli scaffali svuotati di libri, e quattro piante alte, poste agli angoli della scrivania.
“Basta, non poto pius relatare, discorro su chi poto insa memoria”, fu tutto ciò che a un orecchio mi disse.