La giusta misura
Avrei giurato che fosse più difficile, che fosse più... non so nemmeno io… che fosse comunque diverso da così... ed anche questo senso di astrazione, questo agire “dal di fuori”, cosciente ed incosciente allo stesso tempo, responsabile di quell’azione, ma parimenti irresponsabile perché commesso dall’altro me... mi dà una strana sensazione, ed anche il rendermi conto di provarla mi giunge ovattato, come comunicatomi per interposta persona.
Continuo a stringere esercitando una pressione innaturalmente costante, meccanica, troppo perfetta, quasi poetica nella sua ieratica esaltazione.
Il collo della ragazza non è molto grosso, sembra quasi concepito appositamente per le dimensioni delle mie mani, che infatti lo cingono con millimetrica precisione, pregiandosi di svolgere così mirabilmente il compito che gli ho assegnato.
Ma chi cazzo è ‘sta tizia? Chi la conosce? Dato che, (ve l’ho già detto), mi sembra di agire da migliaia di chilometri di distanza, in maniera forse similare alle esperienze post‐mortem raccontate da certa gente, ho tutto il tempo di pensarci, (o forse mi sembra solo di averlo fatto ed il mio cervello sta lavorando in maniera accelerata, il che dal punto di vista pratico è lo stesso), e lentamente comincio a collegare i ricordi.
Sto camminando sulla via principale della città... gente, carte, cani , macchine, fumo, passi, sigarette, urla , spinte, gelati , vetrine e merce, merce, merce... vestiti, occhiali, valige, palloni, giocattoli, cappelli, pentole, detersivi, cibo, borse, fiori, chiodi… è inverosimile… come può esistere una quantità di denaro così enorme da poter comprare tutto? E cosa fanno tutte queste persone come cyber‐formiche programmate per seguire lo stesso percorso?
E più ancora… cosa ci faccio io tra loro? Con che diritto percorro la loro strada, guardo le loro vetrine, entro negli stessi caffè? Nonostante stiano sciamando troppo velocemente per prestarmi attenzione cosciente, qualcosa dentro di loro deve averle messe in guardia circa l’intrusione. Non hanno il tempo di fermarsi, ma un qualche segnale biochimico le ha già messe in guardia, e forse si preparano ad attaccarmi.
Le file dei negozi si susseguono prive di logica apparente, qual è il senso di un negozio di scarpe accanto ad una ferramenta, e poi un bar, un negozio di elettrodomestici, uno di pelletteria... a me sfugge, ma loro sembrano sapere bene dove andare, o forse non lo sanno, vanno e basta.
I negozi sono tutti pieni di formiche a loro volta cariche di altra merce, di orpelli tecnologici, di gadgets senza senso, di pantaloni a vita bassa, di scarpe NeroGiardini, di borse con impresse carte geografiche, e premono contro le vetrine, sembra vogliano ingoiarle, fagocitarle, assimilarle, per poi vomitarle e rifarlo con le successive.
Osservo... sono sempre stato bravo ad osservare... dà un senso di sublime superiorità sentirsi immune dalla spinta a partecipare a certi banchetti dove è il cibo a mangiare te; un senso di superiorità... ma c’è, da qualche parte, un malato barlume di coscienza che sa, e non manca di sussurrarti sommessamente, che tu quel cibo non lo hai mai assaggiato, non hai mai potuto, e questo però riesce ad avvelenarti anche se non sei nemmeno seduto al tavolo, ed è proprio questo che te lo fa odiare.
La ragazza è giovane, anche bella a suo modo, occhiali scuri, ben truccata, tinta bionda, orecchini pendenti acciaio/oro, una t‐shirt con un logo stampato, un paio di jeans sdruciti, (ma da uno stilista), che sembra soffrano a cingerle i fianchi e quindi vogliano sfuggire a questa tortura cercando di scivolare sempre più in basso per liberare il tanga che spunta orgoglioso dall’orlo, ed un paio di stivaletti chiari, di pelle, tacco medio.
Dappertutto una serie di piccoli marchi sicuramente molto noti, che io non riconosco, (a cosa mi servirebbe conoscerli?), sui jeans, sulla t‐shirt, sugli stivali, ed anche sulla borsa che completa il quadro, (è quella con la cartina geografica stampata, ho sentito il nome in ufficio, ma non lo ricordo), chissà se ne ha anche qualcuno tatuato, sarebbe molto trendy.
La guardo dalla strada mentre all’interno di un negozio di abbigliamento prova con evidente annoiato distacco, quasi per dovere, una lunga serie di vestiti, in condizioni normali se fossi nei panni della commessa l’avrei mandata a farsi fottere da tempo, ma la ragazza deve guadagnare lo stipendio, e sicuramente è lì in nero, come da prassi , e non è in condizioni di reagire.
Ma perché non la lasci in pace? Devi comprare? Allora compra e vattene. Non devi comprare? Allora gira il culo e lascia in pace quella povera crista .
Mentre lo penso devo essermi immedesimato nella situazione ed assunto un’espressione minacciosa, in quel preciso istante la pseudo‐cliente incrocia il mio viso e si accorge di me, ma non è affatto intimorita o spiazzata, anzi... assume un’espressione di gelida, mortale superiorità, costruisce in una frazione di secondo, e solo utilizzando la postura corporale, una distanza incalcolabile, posta su piani separati della realtà e proprio per questo sconfinata. Così come è impossibile incontrarsi per le rette parallele, una posta al di sopra dell’altra ed eternamente in posizione di superiorità, (io nel tuo quadro sono quella di sotto, vero?), così i nostri universi non collideranno mai, in eterno, ma io sognerò sempre di fare il drop‐out nel tuo, mentre tu procederai sempre in linea retta nell’altro, felicemente al riparo da tutto.
Cristo, ma come hai fatto? Come sei riuscita in uno spazio così breve e senza dirmi nulla a comunicarmi tutto questo? E poi cosa ne sai tu di universi, di vita, di rette parallele, di cyber‐formiche, quando il tuo mondo, la tua vita, i tuoi affetti, esistono solo se hanno un brand forte, riconoscibile dagli altri?
Realizzo…..sei tu quella messa male, perché non capirai mai cosa significa cogliere l’apparenza sotto vuoto della tua realtà, il vivere solo per essere economicamente funzionali, l’essere avatar all’interno di un programma il cui scopo è solo quello di girare all’infinito in questo super‐computer biologico. Ed allora entro… scosto gentilmente la commessa… le prendo la mano, (è inebetita, è normale), la accompagno fuori dal negozio, rientro, non ci sono altri clienti, chiudo a chiave, e ti faccio il più grande favore che possa farti, anche se tu non lo capisci e non puoi capirlo... .
Che bel collo… l’ho già detto, sembra fatto apposta per le mie mani, per favorire il rapido concludersi della faccenda... non pensavo che fare del bene facesse così bene, allora stringo… stringo... stringo...