La lavatrice

Ora sono qui. Fra poco non sarò già più.
Scusate se irrompo nelle fresche mattine, nei pomeriggi indaffarati o nelle sere soavi in compagnia delle vostre attività preferite, ma credo di avere buone ragioni per la mia maleducazione. Ma scusate ancora, che sbadato, non mi sono ancora presentato… Vi garantisco, sarò breve, perché non posso più aspettare…
Io mi chiamo L. e sono nato nel borgo di Cittanova Uzzolini; come tutti i cittanovesi, detesto l’invadenza e l’intrusione… Perlomeno, le detestavo fino a quando, lontano dalla mia piccola comunità arroccata sui monti Spigolini, non sono stato reso partecipe, addirittura coinvolto, di eventi demoniaci e terribili. A causa di tali accadimenti, ho deciso di rendervi edotti di quanto ho vissuto sulla mia pelle. 
Ma procediamo con ordine.

Scusate se parto da lontano, dai miei anni più giovani, in cui i sensi sono più acuti. In quegli anni già lontani ma vividi nel mio ricordo, il vigore sia fisico che mentale mal si concilia con l’angustia di una cittadina di poche migliaia di abitanti; uno spregiudicato senso di immortalità ti spinge lontano dal sopore contagioso di un minuscolo agglomerato di case sospeso all’altezza delle nuvole. Insomma, finita la scuola e raggiunta la maggiore età, una mattina di lunedì scelsi che, di lì a una settimana, sarei partito per la capitale, sospinto dalla galassia delle opportunità che la metropoli pareva offrirmi.
Certo, la scelta comportò fragorosi malumori fra i miei cari; in particolare quattro persone contrastarono, talvolta con collere vomitatemi addosso, talaltra con silenzi punteggiati di rancore, il mio proponimento. Nell’ordine: la mamma (il babbo era morto quando avevo da poco imparato a parlare…), mia sorella F., mio fratello P. e, infine, S., la mia fidanzata di allora. Nessuno di loro mi risparmiò il proprio risentimento per quella partenza probabilmente inattesa (mai avevo dato segno esplicito di volermene andare), sicuramente poco avveduta (quasi nessun cittanovese, e io lo sono da almeno venti generazioni, aveva scelto di emigrare; i pochi avventurosi fecero perdere le tracce o fallirono miseramente, tanto che dovettero tornare al luogo di partenza). La mia prolungata ostinazione, però, fu tanto forte quanto la loro avversione e, dopo qualche giorno di silenzi reciproci, organizzato alla bell’è meglio un bagaglio di fortuna, senza salutarli il mattino stabilito partii.
Le nuvole erano basse, caliginose, opprimenti. Dopo pochi passi sulla strada per la città, però, già mi mancavano l’amore e la benevolenza dei miei cari; il modo scontroso e offensivo con cui avevo imposto loro la mia decisione e il mancato conforto di un abbraccio mi struggevano. Alla stazione ferroviaria del paese di Fondovalle, tuttavia, il mio umore migliorò e, una volta che fui salito sul treno per la capitale, non mi diedi più pensiero: comunque avevo scelto, il mio destino era oramai lontano dalla casa natale. Punto e basta. Gli occhi tremolanti di un pallidissimo sole benedissero il mio ritrovato buonumore.

In effetti, dopo qualche mese di opportuno ambientamento in città, con lavoretti saltuari qua e là, mi feci largo alquanto velocemente nel nuovo mondo, sospinto tanto da un’intelligenza prensile e rapida, quanto da un carattere pervicace e meticoloso, non disgiunto da una vigile disponibilità (che mai avrei sospettato di possedere) verso il prossimo. Con i pochi soldi che avevo mi iscrissi all’Università. Lavoro, studio e tanta ambizione. 
Dopo un anno fui assunto in pianta stabile in un’azienda multinazionale di elettrodomestici come operaio. Al secondo anno divenni impiegato, dapprima generico, poi qualificato. Al quinto anno fui nominato capufficio. Al decimo, dopo una laurea conseguita più con rabbia che con applicazione, mi diedero una scrivania da dirigente, con tanto di vista panoramica sui palazzi della città, segretaria tuttofare, stipendio pingue e colorate piante tropicali provenienti dalle migliori serre della regione. A quindici anni dal mio arrivo in città, divenni finalmente presidente della compagnia nella quale ero entrato, quindici anni prima, come operaio generico. Ero diventato un uomo di successo, ricco e potente, inserito nel bel mondo cittadino, venerato dalle donne, benevolmente invidiato dagli uomini che, anche se mai perdonarono fino in fondo la mia origine provinciale, non mancavano di prendermi a esempio di competitività e fascino.
Non mi volli mai sposare, perché temevo che la vita a due sarebbe stata in perenne conflitto con un lavoro intenso e dinamico come il mio, fatto di riunioni, telefonate, vertenze, pugni sul tavolo, per almeno sedici – diciotto ore al giorno; per non parlare dei viaggi d’affari nei più inimmaginabili luoghi della Terra. Avevo completamente rotto con la mia cittadina d’origine, non cercai più nessuno. Scelsi deliberatamente di non sapere più nulla dei miei cari, dai quali mi ero allontanato quindici anni prima senza un abbraccio.
Vivevo, solo e contento di esserlo, in una villa ottocentesca situata nella zona più esclusiva della città (con ministri, banchieri, imprenditori, professionisti da parcelle gravide di cifre) circondata da una siepe, vigilata da molossi e guardie del corpo; la casa era abitata, oltre che dal sottoscritto, da domestici, giardinieri, cuochi, automobili di lusso, automobili sportive, quadri d’autore, mobili raffinati di antiquariato, stoviglie e suppellettili preziosissime, abiti eleganti e da… lavatrici.

Sì, proprio così.

Avevo sempre avuto la passione, fin dalla mia più tenera infanzia, per questi oggetti così geometrici, per la loro solidità parallelepipedale, per i recessi circolari del loro cestello; sembravano sottoporre i panni sporchi a chissà quali metamorfosi. Una lavatrice non era un elettrodomestico, oltre l’oblò era un crogiolo d’alchimista che dava vita a nuove forme a seconda della velocità del metallo forato. Era l’elementare, erano il rettilineo e il circolare. Era l’ingranaggio perfetto del cosmo. Da piccolo scrutavo sempre la mamma intenta a programmare i vari possibili lavaggi. Ammiravo estasiato il getto d’acqua iniziale, il lungo e ipnotico volteggio intermedio del cesto metallico, il travolgente sirtaki della centrifuga finale prima dello stop e dello schiudersi di nuovi tesori all’apertura dello sportello. Mi piaceva illudermi ogni volta che, dalle sporche tenebre di pedalini, camicie e pantaloni, si generasse, dopo ogni lavaggio, un mattino fiorito di fate danzanti nel sole, fragranze appassionate e campi costellati di coccinelle.
In seguito potei coltivare la passione per le lavatrici anche dal di dentro, man mano che scalavo la gerarchia aziendale. Per ogni nuovo prodotto creato nelle nostre officine, un esemplare – spesso il prototipo ‐  finiva inevitabilmente a casa mia, in una stanza allestita per ingrassare la mia bizzarra collezione.

Intanto, parallelamente al mio successo professionale, cresceva, anno dopo anno, la competenza progettuale dei nostri ingegneri e la perizia esecutiva dei nostri tecnici e operai nel partorire nuovi gioielli per le massaie – e i massai, sì, perché ce n’erano ‐ di ogni angolo del globo. All’epoca in cui mi insediai alla scrivania più prestigiosa della compagnia, non esistevano sul mercato lavatrici più precise, silenziose ed economiche delle nostre. I materiali erano leggeri e innovativi; l’elettronica, sofisticatissima. Qualche taglio qua e là sul personale – ma chi non ne fa? – e qualche speculazione ben mirata in Borsa permisero di abbattere i prezzi di vendita ai clienti. Tuttavia, mancava ancora la carta vincente e decisiva per demolire definitivamente i nostri competitori.

Ma un giorno di gennaio che non dimenticherò mai più – stavamo conducendo in quei mesi ricerche incoraggianti per un nuovo tipo di macchina che avrebbe sbaragliato ogni concorrente – bussò alla porta del mio ufficio il responsabile tecnico del settore, l’ingegner Zeta. Lo invitai a entrare. Spalancò la porta rosso in volto, in uno scoordinato mulinare di mani. Urlò, riuscendo a stento a trattenere lacrime di gioia, che era pronta la nuova lavatrice. “Venga Lei stesso a vedere, dottore, è un miracolo”. Quasi mi trascinò per la manica fino all’officina dove vidi lei. Lei, bianca come Afrodite sulla spuma del mare, solida come un maniero scozzese, silenziosa come il battito d’ali di una macaona. E che linea: snella nel corpo e morbida, carezzevole nel cestello superiore (oramai ne era passato di tempo dagli oblò frontali della mia infanzia, portoni di vetro scuro sul mistero delle forme in movimento). Femmina altera e ammiccante in lega leggera! E quanta biancheria poteva contenere in uno spazio così contenuto! E quanti lavaggi, mi fu spiegato, prima di usurare serpentina e guarnizioni! E che risparmio per il cliente! E che salvaguardia dell’ambiente! Con certezza mi dissi che il divino Efesto, nella sua fabbrica, non poteva avere raggiunto una simile perfezione di fattura quando forgiò le armi di Achille. Tutti i nostri dipendenti si erano superati nell’impegno e nel risultato. Durante il collaudo, rimasi anch’io a bocca aperta, stupefatto dall’eccellenza del nostro lavoro.

Come sempre facevo a ogni parto delle nostre officine, anche in quell’occasione  diedi un nome femminile a quel prodigio di meccanica: non potei che chiamarla Eva, la prima, l’archetipo, l’antonomasia. E, come sempre, la volli provare personalmente a casa mia, prima di produrla in serie: era una tradizione consolidata, un additivo scaramantico che, nel corso degli anni, aveva consentito di decuplicare gli utili delle casse dell’azienda.
Così quella sera stessa di freddo compatto, sotto lo sguardo chiaro di un cielo araldo di neve, i fattorini della ditta condussero Eva nella mia villa. Ero euforico, frizzante come l’aria che di lì a poco avrebbe sfarinato, sulla città e sulle colline circostanti, fiocchi compatti. Eccola lì, alla mia porta, avvolta in un cappottino di plastica puntinata per imballaggio, chiusa in alto da un fiocchetto rosa vezzoso; eccola lei, un po’ lamiera, un po’ Lolita…

Subito dopo avere congedato i ragazzi delle consegne con un generoso pourboire, spinsi Eva in bagno, dove, in meno di mezzo giro di lancetta, mi spogliai dei vestiti della giornata, la denudai e le riempii il cestello. Decisamente non ero uomo da romanticherie, dovetti ammettere… Preso com’ero da un’irrefrenabile eccitazione nervosa, mi ero persino dimenticato di inserire la spina. Poco male, era prevista anche un’alimentazione a batteria con un significativo risparmio energetico in bolletta.
Oltre ad altra biancheria residua, colmai lo spazio interno della macchina con un  vestito della mia giovinezza che non avevo mai più indossato e che era rimasto compresso nell’armadio. Mi venne in mente che quel Principe di Galles seminuovo e vivace doveva essere l’abbigliamento del giorno in cui abbandonai definitivamente Cittanova Uzzolini. I nostri tecnici mi avevano garantito che Eva poteva lavare qualunque capo,  persino quegli abiti eleganti che, normalmente, avrebbero richiesto un trattamento più dolce per non scolorire o rovinarsi irrimediabilmente; vestiti da tintoria, per intenderci.
Così, dopo aver programmato sul computer della macchina il lavaggio per indumenti delicatissimi, premetti il pulsante rosso, ben disegnato in cima al cestello. Erano le otto e trentasette della sera, recitava il mio orologio slacciato, prudentemente collocato sulla mensola sopra il lavabo. Il digitale della lavatrice confermava. A quel punto non mi rimase che abbandonarmi allo sciacquio iniziale e alla trionfale cavalcata wagneriana verso il pulito finale…

Ma non feci in tempo a serrare le palpebre per salpare verso sinuosi cieli d’ambra, che venni assalito da un nauseabondo senso di vertigine. Credendo di precipitare, mi aggrappai forte ai fianchi metallici e vibranti di Eva, ma li trovai gelidi, respingenti, repellenti. Staccai di colpo le mani. Mi gettai a terra. Il cuore iniziò a pompare sangue all’impazzata, le ghiandole emisero un sudore gelato e appiccicoso. Cercai aria inspirando con vigore. Poi incominciai a dimenarmi senza controllo sul pavimento, in un ballo spaventoso, quasi osceno, a scatti, a impulsi secchi. Provai a urlare, ma non mi udii. Gridai più forte. Emisi solo uno sbuffo schiumante. La nausea crebbe. La mia testa, fino a quel momento solo terrorizzata, estrasse, da chissà quale anfratto cavernoso, scoppi di tuono da offrire impietosamente alla mia percezione. Pum, pum, pummm. Trrrrr. Prima trapano da dentista, ma amplificato. Poi martello pneumatico. Infine aereo a reazione incastonato nel cranio. Non ne potei più. Di riflesso, solo di riflesso, colpii con la testa e con i pugni la sagoma poliedrica della macchina. Con violenza. Con furore. Colpii senza precisione, con una forza malata e residua. In qualche modo, tutto questo doveva finire, finire, finire… Colpii uno, due, tre, dieci volte sul fianco nudo di Eva. Basta, basta, basta. Basta. Un fischio sordo dall’interno della lavatrice sancì la mia salvezza. L’ultima immagine che ricordo fu una fila di piastrelle color avorio che mi gelavano le tempie e un sapore dolciastro di detersivo sulla lingua… Poi solo luce bianca d’infinito e silenzio.

La notte era appena cominciata quando rinvenni. Guardai l’orologio che avevo lasciato sul lavabo. Dieci in punto. Il digitale della macchina era bloccato sulle venti e trentasette. Ero stordito, indolenzito, ma vivo. Fuori dalla finestra, la prima canizie nevosa rivestiva l’acciottolato del sentiero e la siepe in lontananza.
Provai a saggiare le mie energie, tentando di alzarmi. Riuscii. Per prima cosa aprii il cestello di Eva – ma quel momento fu l’ultimo in cui riuscii a chiamarla così – per saggiare lo stato dei miei indumenti dentro il mostro. Ne trassi fuori calzini, mutande, camicie intinti in un’acqua melmosa, insalubre; poi estrassi il mio vestito di un tempo, il mio Principe di Galles. Lo toccai, lo rivoltai, lo appallottolai, infine ne frugai le tasche: la mia mano se ne uscì dal taschino interno della giacca con qualcosa di cartonato e parzialmente sbriciolato dal lavaggio. Una vecchia foto sbiadita virata seppia mi si materializzò davanti agli occhi. Ora ricordavo. Era l’immagine di una cena a casa nostra, a Cittanova. Di fronte all’obiettivo, il volto sereno della mamma; alla sua destra, il sorriso buffo di mia sorella; alla sua sinistra, preso di sbieco in uno sguardo assonnato, mio fratello; infine, in piedi con le mani appoggiate alle spalle della mamma, la mia fidanzata S., nella solita espressione luminosa e amorevole verso di me. Al centro del tavolo – doveva essere l’inizio della serata o la fine, perché non era ancora o non più apparecchiato – un massiccio Buddha di ferro battuto affiancato da un vaso di violette fresche. Ora ricordavo. Io avevo scattato la foto. Immediatamente, lacrime dolci solcarono binari d’argento sulle mie guance.

Passai una notte assai inquieta, popolata di colori cangianti, ma cupi. La mattina seguente, come ogni giorno, la mia segretaria entrò nell’ufficio per consegnarmi posta e giornali. Non stavo bene: gli episodi della sera prima e il tempo da neve mi avevano tagliato il respiro. Respiravo male, a brevi sorsi di fiato. Avevo addosso un’irrequietezza proveniente da mondi lontani. Non riuscivo a stare seduto, a toccare la scrivania. Camminai avanti e indietro per la stanza, stropicciai compulsivamente le foglie delle piante tropicali, torturai fogli e matite. Non riuscivo a concentrarmi sul lavoro. Mi risedetti al mio tavolo, ordinai alla segretaria che mi annullasse ogni appuntamento, che trovasse ogni genere di scuse con chiunque e che impedisse a chiunque di entrare nella mia stanza. Poi provai a sfogliare il primo quotidiano.

E lessi.

“Orrore in provincia.”, titolava il pezzo nella prima di cronaca. “A Cittanova Uzzolini, sonnolenta cittadina sui monti Spigolini, nella serata di ieri sono stati rinvenuti quattro cadaveri ‐ tre donne e un uomo ‐ orrendamente sfigurati e mutilati, al di fuori di una villetta. Si tratta dell’anziana padrona di casa, di due dei suoi tre figli, un maschio e una femmina, e di un’altra donna che da anni frequentava la famiglia.  La strage risalirebbe alle otto e trentasette di ieri sera: al polso dell’unico uomo è stato ritrovato un orologio rotto fermo a quell’ora. A completare la scena raccapricciante, sono stati ritrovati sulla neve un pesante Buddha metallico insanguinato e petali avvizziti di violetta sparsi tutt’intorno ai poveri resti. Il commissario che conduce le indagini ha dichiarato che in tanti anni di carriera mai si era imbattuto in un simile orrore e profanazione di vite umane. Per rendere l’idea, ha proseguito il funzionario con una certa macabra fantasia, è come se quattro coniglietti fossero stati centrifugati da una lavatrice difettosa.” .
Fu come se un branco di tigri violacee avesse violentato la mia stanza silenziosa, lasciando al suo passaggio un tappeto di specchi infranti e di angoscia cieca, irredimibile. Guardai la neve fuori, sui tetti piatti della città. Maledetta neve.

Capii.

Così ora sono qui, fra pochi minuti non sarò già più. La corda che ora pende dal soffitto dell’ufficio sarà l’ultimo abbraccio che il mio collo riceverà.

Il racconto qui riferito è ora al vaglio degli inquirenti.
Qualche mese dopo il quadruplice delitto di Cittanova, in una notte di luna alta due ladri si introdussero nella villa dell’autore della lettera riportata sopra. Dopo avere frugato in armadi e cassetti, fatto scempio di lenzuola e divani, messo a soqquadro mobili e suppellettili, i due malviventi visitarono il bagno. Alla luce di una torcia elettrica si imbatterono in una lavatrice nuova nuova. Bella, bianca, solida. Senza motivo, per puro gioco si divertirono, fra  risatine sempre più eccitate, ad accenderla vuota, senza carico. Dopo un iniziale clangore di ingranaggi male assortiti che fece dapprima trasalire, e poi tacere, i due sciagurati, dal cestello evaporò fumo sottile, ma avvolgente e penetrante. Tossirono forte, sempre di più, convulsi. Il fumo aveva ormai avvolto il bagno. Uno dei due riuscì ad accendere l’interruttore della luce per cercare una via d’uscita dalla stanza invasa. A quel punto la scena mutò. Sulla parete sopra la lavatrice il fumo, prima così volatile, si compattò in una sagoma scura, nerastra, sempre più nitida nei contorni. Un’ombra dell’inferno. I due delinquenti divennero di colpo cerei e muti. Sul muro apparve il profilo di un uomo impiccato seduto eretto a una scrivania. La figura li fissava con occhi violacei, accesi, infuocati. Per un attimo – ma era suggestione, sicuramente suggestione – a loro parve che l’ombra puntasse verso di loro il dito indice in tono ineluttabile d’accusa. I due provarono a urlare. Poi la presenza stinse e si dissolse.
Quel che rimase sulle piastrelle fu solo notte, silenzio e goccioline di detersivo avvolte nell’argento liquido di  una luna alta e immobile.