La marcia di Brasida
Non c’era possibilità di scampo per il giovane ilota. Con le spalle rivolte verso un grosso tronco di ulivo, gli occhi caricati d’odio e di terrore, sotto i rami cadenti che sembravano velare di morte con la loro ombra il finale di una vita che pareva l’epilogo di un gioco.
Non avrebbe mai creduto che sarebbe toccato proprio a lui; troppo furbo, veloce, abile a nascondersi e a difendersi, ora si trovava attorniato da quattro ragazzini spartani con le teste rasate che ridevano eccitati. Uno dei quattro stringeva un pugnale, e come un felino, con le gambe leggermente piegate, pronto a spingersi con ferocia verso la gola della vittima, già pregustava quella doppia porzione di brodo nero che si sarebbe guadagnato dalla madre grazie al suo trofeo, e che avrebbe consumato forse al riparo dagli occhi del padre, il quale disapprovava un onore non necessario per chi non aveva fatto altro che il proprio dovere.
L’ilota disarmato resistette al primo attacco, ma ben presto un calcio violento nel petto lo fece sbattere con violenza al suolo. Quando la punta del pugnale ormai nei pressi dell’obiettivo era pronta a trasformarsi in un fulmine di morte, una pietra scagliata con precisione fece volare via l’arma.
«Basta così!» disse con voce ferma Brasida.
Un grosso corvo spiccò rapido il volo dall’erba, e il suo battito d’ali dissolvendosi lontano insieme ai passi dell’uomo sempre più vicini, parvero essere gli unici rumori per alcuni istanti in quella radura immobile. Brasida era una figura nera in controluce che sembrava caduta dal cielo chiarissimo della Laconia come una freccia di Apollo. Poco dopo, in lontananza, dei flauti iniziarono a spargere le loro note, e altri uomini in marcia comparvero all’orizzonte.
Tutti e cinque i ragazzi tenevano gli occhi incollati verso la direzione di quella musica, e della polvere, la quale lungo la strada che tagliava in due metà la campagna, sotto la mole del Taigeto, cominciava a mescolarsi nell’aria.
Il giovane lacedemone con la mano dolorante raccolse il pugnale da terra: «Come ti chiami?» domandò Brasida.
«Mi chiamo Areo, figlio di Leonte. Tu chi sei?».
Si sentì rispondere «Non parlavo con te, Areo, figlio di Leonte, ma con l’ilota…».
Il ragazzo si incupì improvvisamente, e quella macabra gioia che fino a quel momento lo aveva invaso, lasciò spazio alla rabbia, che accese sul suo viso una smorfia di disapprovazione.
«…Comunque io sono Brasida, e mio padre si chiama Tellis, e quello…» disse con un movimento del braccio a indicare una massa sempre più lucente di panoplie, lance e scudi «…è il mio esercito».
I suoi occhi erano neri, profondi come un tenebroso abisso che gli fuoriusciva dall’elmo dorato, e l’armatura da oplita spartano insieme al suo corpo poderoso, lo facevano sembrare Ares in persona. Guardò l’ilota, che nel frattempo si era assicurato una posizione sicura per la fuga, al di fuori della trappola in cui lo avevano messo i suoi carnefici: «Mi chiamo Leumas, e sono figlio di questa terra, al contrario di voi».
Areo, al culmine dell’insofferenza, strinse il pugnale con tutta la sua forza. «Stupido schiavo, non osare…» ma lo interruppe la voce di Brasida, la quale risuonò come un tuono divino: «Guarda, Leumas, anche questa è Sparta!».
Adesso si scorgevano chiaramente i soldati procedere a passo sostenuto. Era uno spettacolo impressionante, che riempì di sorpresa gli occhi degli osservatori. Non soltanto alcuni spartiati facevano parte di quella temibile potenziale falange, ma anche moltissimi iloti armati, i quali insieme a un gran numero di mercenari arruolati in tutto il Peloponneso, contribuivano a far vibrare il suolo come fossero un unico maestoso strumento: erano 1700 guerrieri in marcia verso la Tracia.
«Questi sono gli uomini al mio seguito, e con essi libererò la Grecia dalla schiavitù ateniese. Eppure non siamo che un’esigua parte di ciò che ci servirebbe per raggiungere i nostri obiettivi» commentò Brasida. «Anche se i nemici ci supereranno in grandezza noi li vinceremo, e conquisteremo saggiamente le città che si dimostreranno disposte ad accogliere la nostra benevolenza. Dobbiamo respingere uniti, e con il favore degli dei, tutti coloro che si trascinano con il respiro della smaniosa ambizione, in nome di Sparta!».
Che Brasida non fosse un comune spartano lo testimoniava la sua capacità oratoria, pensò Leumas, il quale iniziava a provare una sorta di fascino nei confronti di quell’uomo che pareva circondato da un’aura splendente di coraggio. E che poco prima gli aveva salvato la vita, anche se non ne comprendeva ancora il motivo.
Intanto l’esercito incominciava a sfilare al loro fianco; il suono dei flauti scandiva con la sua melodia un tappetto di suoni sui quali la marcia dei soldati imprimeva i suoi fragorosi passi.
Brasida alzò il tono della voce, portandosi in mezzo ai ragazzi ormai immersi in una scena che li aveva completamente rapiti: «Voi siete in quattro, eppure l’ilota si stava difendendo, e forse se la sarebbe cavata anche senza il mio intervento» disse, guardandoli negli occhi a turno.
«Un giorno fui morso a un dito da un topo» continuò, «ma non potei fargli nulla, perché dopo avermi ferito, non si fece prendere. Anche una creatura piccola riesce a salvarsi, se ha il coraggio di difendersi dagli aggressori». Fece un passo verso l’ilota, conficcò la lancia al suolo, e appoggiò lo scudo contro il tronco dell’ulivo; quindi, con con un movimento lento e deciso, gli mise una mano sulla spalla: «Vedi Leumas, noi siamo il topo».
Fu in quel momento che Leumas capì che il suo destino aveva appena preso una direzione dalla quale non sarebbe potuto fuggire. Nel frattempo, numerosi guerrieri iloti, pronti a servire un generale spartano che li stava portando lontano dalle proprie famiglie, ma anche dalla schiavitù, si muovevano poco distanti da lui. Allora Brasida domandò al giovane se volesse unirsi all’esercito.
L’ilota non gli rispose, aspettò che congedasse i suoi assalitori: «Voi andate…» ordinò. «…E tu, Areo, porgi i miei saluti a tuo padre Leonte».
Poi, in silenzio, guardò Brasida, e annuì.