La maschera di cera
Nella piccola stanza da bagno un ricciolo di fumo si posò sul lavandino. Stefano spense la sigaretta e gettò il mozzicone nel cestino sotto il lavello. Un filo di luce penetrava dalle tendine rosso fuoco che velavano la finestrucola del cesso e lasciavano intravedere il calore di quell’estate così torrida. Aveva sentito proprio quella mattina alla radio che da cinquant’anni non si viveva una stagione così arida e bollente. “E fra un anno diranno esattamente la stessa cosa” pensò con un sogghigno chiudendosi dietro la porta del bagno. La camera era stretta, spoglia alle pareti, ma riscaldata da una luce rossastra e dal profumo dell’ incenso patchuli, che fumava da sopra il comodino. Stefano gettò uno sguardo alla cravatta appoggiata sul letto, poi prese a trastullarsi con le stringhe delle scarpe, con una libidine da feticista pervertito. Quelle guaine di cuoio, strette e appuntite, lo costringevano al patibolo ogni santa mattina di lavoro. Scarpe scomode, cravatta ben annodata, giacca, pantalone inamidato e perfettamente stirato, calzino lindo, camicia linda, capello lindo e valigetta linda con firma. Tutto il neçessaire del provetto bancario si adagiava ogni settimana, escluso sabato e domenica, sul corpo ben rodato del nostro quarantenne. Pronto per la giungla, pronto per la battaglia quotidiana, pronto per cacciare fuori la lingua con costante e splendente vitalità.
Magda entrò proprio in quel momento.
‐ Sospiri? – gli chiese sorseggiando lo champagne.
‐ Come? – rispose Stefano riprendendosi di colpo dai pensieri. – Già, qualche grattacapo.‐
Magda lo pregò di attendere un momento e uscì dalla stanza. Dopo un po’ tornò con una sedia di vimini e un altro bicchiere di champagne.
‐ Tieni – disse porgendogli il bicchiere – bevici su e racconta.‐
Stefano la guardò un attimo di traverso, poi sospirò ancora e dette un piccolo sorso.
‐ Non è niente di che Magda.‐
‐ Niente di che? Ma guardati… Sembri appena uscito da un campo di battaglia. Lavoro? –
‐ No.‐
‐ Silvia?‐
‐ Silvia…‐ sospirò senza guardarla negli occhi.
Magda spostò la sedia sulla quale si era accovacciata e si avvicinò all’ uomo.
‐ Cosa è successo?‐
Stefano la fissò con uno sguardo nudo e rigido che la spaventò un poco.
Le raccontò della mattina, poche ore prima, dell’auto che aveva fatto le bizze e della corsa per andare a prendere l’autobus. Della calca che ci aveva trovato, l’odore di sudore e chiuso al quale ormai da tempo aveva perso l’abitudine. Quell’ odore che lo rimandava all’ infanzia, all’ adolescenza, alla scuola e le vacanze estive, agli amici e le partite di pallone, alla sera che lo trovava sfinito e felice.
Quell’ autobus colmo di gente sconosciuta, quegli odori familiari eppure così lontani e sfumati, gli avevano stretto la gola. Era sceso ben prima della sua fermata, a una quindicina di minuti a piedi dalla banca. Non riusciva a sopportare il ritorno di quei pensieri. Da molto tempo la sua vita si era trasformata in un automatismo perfetto, lubrificato e calcolato al millesimo. Si svegliava, si vestiva, prendeva il primo dei quattro caffè della giornata, usciva e raggiungeva la banca con la sua macchina splendente, salutava i colleghi e controllava la scrivania, si sedeva, accendeva il computer e spengeva il cervello. Poi, una volta finito il lavoro, un breve salto in palestra oppure il rientro a casa, il bacio a Silvia, il cane, il divano, la cena, il sesso, i denti lavati, filo interdentati, uno sguardo allo specchio e poi Morfeo. Così ogni giorno, fino al sabato e alla domenica che si perdevano in una nebbia di routine ancora più vuota e impersonale.
Adesso che l’ autobus si allontanava lungo la strada, Stefano osservava quella città ‐ la sua città fin da quando aveva un giorno di vita ‐ per la prima vera volta. In movimento, in fermento, in balia dell’ umano vagare. Stefano ruotava gli occhi su quello spettacolo da macello che è la prima mattina, così umana da far rimpiangere il tempo della scimmia. Le bocche gli apparivano troppo larghe o strette, troppo sorridenti o contratte, troppo svenevoli o acide. Notò l’ Uomo e il suo ghigno incipriato. Fotografò la vita in controluce e ne restò atterrito. Non credeva a niente, ma le sue gambe presero a muoversi. Dovette fare uno sforzo per controllarne il movimento e cambiare direzione. Non aveva voglia di banca, né di colleghi. Sarebbe tornato a casa e dato malato almeno per oggi. Forse domani quell’ incubo sarebbe scomparso e la realtà avrebbe ripreso i suoi colori e confini. Ma oggi, Stefano era lì, ghiacciato da un pensiero nato e morto in un autobus troppo affollato. Potere dell’ imprevisto! La macchina lo aveva sempre condotto in porto sano e salvo. Ma quell’ avaria mattutina aveva fatto si che l’ esilio dal mondo terminasse, e in modo piuttosto brusco.
Stefano giocava coi gioielli della camicia, regalo di Silvia per il loro quinto anniversario di matrimonio. L’incenso era buono e pizzicava con dolcezza le narici dell’ uomo. Magda posò il bicchiere di cristallo sul comodino e prese nelle sue la mano di Stefano. Aspettò che continuasse, ma il suo silenzio pareva non aver fine.
‐ È questo che ti ha sconvolto? Quella sensazione, quell’ immagine dell’ infanzia? Ehi, guarda che capita spesso anche a me. A volte esco a passeggio, e zac! ecco un ricordo che spunta e mi folgora, anche nelle situazioni più strane: mentre faccio la spesa, dalla parrucchiera, mentre mi provo un paio di scarpe nuove… E’ così, pensi ai cazzi tuoi e di col…‐
‐ Magda, Magda, MAGDA!‐ la interruppe gridando lui. –Non c’entra niente quel pensiero… O meglio non è solo quello…‐
Stefano le chiese una sigaretta, la accese e ne assaporò il gusto acre. Poi, proseguì con il suo racconto.
Era lì imbambolato sul marciapiede, incapace di pensare e volere. La mente gioca brutti scherzi quando il pensiero riesce a sorprendere la ragione. Le auto non gli erano mai sembrate così veloci. Persino la gente non camminava più come al solito, bensì correva, si urtava, cadeva, scattava a velocità supersonica. Le nuvole schizzavano nel cielo, i raggi del sole bruciavano l’ iride, il vento colpiva con forza. Tutto il mondo pareva ruotare in un frullatore. Eppure lui, sentiva le sue articolazioni incapaci di proseguire, bloccate e trattenute da qualche braccio appiccicoso.
‐ E poi cosa è successo? Sei tornato a casa?‐ gli chiese Magda accarezzando quelle dita lisce e ben curate.
‐ No.‐ rispose Stefano con voce ferma e sicura, la voce di un uomo consapevole e tuttavia incredulo. ‐ Sono entrato in un bar e ho ordinato un caffè.‐
Il bar era affollato; ora di colazione. Il barista gli gettò un’ occhiata distratta, indifferente. Eppure Stefano sentiva gli sguardi di tutti puntati solo su di lui. Gli pareva di avere pesi immensi legati ai polsi e alle caviglie. Forse gli altri fingevano di non vederlo, ma certo lo stavano osservando di sottecchi. Questo accrebbe il suo fastidio e la rabbia, l’ impotenza dei gesti lo facevano sudare. Con un filo di voce ordinò un caffè a quel barista beffardo e bisunto, afferrò tremante la tazzina e si sedette al primo posto libero; proprio in mezzo alla sala. Adesso ne era certo: tutti i clienti lo fissavano. Alzò di colpo lo sguardo e… niente! Nessuno dei presenti pareva dargli peso: furbi... Aprì lo zucchero e ne versò mezza bustina, prese il cucchiaino e iniziò a girare piano. L’odore del caffè riusciva a calmarlo. Sempre, ovunque si trovasse, il caffè aveva su di lui quel potente effetto rilassante. Guardava la schiuma rarefarsi piano piano e sentiva l’angoscia scivolare via. Ma che idiota, pensava. Tutto per uno stupido bus: la folla, un pensiero, e il mondo perde i suoi confini! Avrebbe dovuto rivolgersi a uno psicologo, giusto per buttar via un po’ di soldi, o forse no, forse era solo stanchezza.
Eppure c’era qualcosa di più dietro quel piccolo insignificante incidente; Stefano aveva compreso, forse per la prima volta nella sua vita, qualcosa di sconvolgente, qualcosa che avrebbe potuto mandare in frantumi l’esistenza intera, la famiglia, il lavoro, gli amici, lui stesso: provava noia. Non aveva mai avuto il tempo di staccarsi dal suolo e osservarsi dall’ alto per un po’. Adesso che quell’ insignificante trauma gliene aveva dato l’opportunità ‐ imprevista e non voluta certo – poteva permettersi di guardare cosa fosse in sostanza la vita di Stefano Trabesi: una tabella sincronizzata e ben oliata, priva di imprevisti imprevedibili e di emozioni. Ebbene si, per la prima volta comprese di vivere una vita piatta e asettica: da formica. Aveva una posizione certo, era rispettato, poteva permettersi molto e fare quella che si chiama “la bella vita”; cene fuori, macchine, casa, regali di lusso. Ma cosa era lui in fondo? Un uomo in carriera? Bello, ma cosa diavolo significa? Un uomo rispettato? Ma rispettato da chi? No, sentiva qualcosa stridere nel profondo, una rabbia repressa per lungo tempo e ora in procinto di esplodere. Quello che vedeva riflesso nello specchio del bancone non era più un uomo: era un automa privo di tridimensionalità.
Quel maledetto autobus – adesso ricordava era giallo, era sempre stato giallo, fin da quando era bambino – quello stramaledettissimo carrozzone di merda lo aveva reso cosciente: e la coscienza può essere peggio del napalm. Pensava a Silvia e al loro amore, ora. Quante volte la guardava davvero? Quante volte la amava davvero, con foga, con passione, con – perché no? – rabbia? Quando era stata l’ultima volta che la aveva pensata con amore? Non ricordava, nonostante tutti gli sforzi. Da molto tempo ormai, Silvia non era altro che un numero nella sua personale tabella, un altro orpello da usare, conservare, adoprare. Ma che pazzo era stato, che uomo cieco! Guardò il bancone lustro e ben lucente, vide il suo riflesso e un ghigno impermeabile sul suo volto sconvolto. Scosse la testa e soffiò via quella maschera di cera.
Fuori il mondo aveva ripreso i suoi ritmi normali. Nessun movimento sospetto, nessun proiettile supersonico sfiorava la sua mente adesso. Si incamminò verso casa, lucido come un cristallo. All’ angolo si fermò dal fioraio per comprare delle rose. O no, girasoli, a lei piacevano tanto.
Prese un pezzetto di carta e scrisse un piccolo pensiero per Silvia. La mattina era già calda. Il sole di luglio cominciava il suo sporco lavoro di roditore invisibile. Attaccava le strade, fin negli angoli più nascosti, sotto i tendoni, dietro agli ombrelloni dei negozi, sotto le camicie di tela e le magliette di cotone fino alla pelle pregna di sudore. Ma Stefano non si curava più di niente.
Affrettò il passo, non vedeva l’ ora di giungere da lei. Forse non era ancora uscita per fare la spesa, magari si rigirava ancora assonnata fra le lenzuola. Pensò, sorridendo di sorpresa, che neanche si ricordava di che colore si era fatta fare i capelli dal parrucchiere, solo due giorni prima. L’aveva guardata? Come sempre, solo vista di sfuggita. Adesso si batteva la mano sulla fronte, conscio della stoltezza che lo aveva imbrigliato in quegli anni di dura carriera. E il figlio che volevano, le vacanze, i natali soporiferi dai suoi genitori, le cene per i compleanni, per gli anniversari, per San Valentino e Ferragosto. Quanti attimi vissuti eppure fuggiti chissà dove. Stefano si sentiva in preda a un raptus. Vivo e vitale, folle di energia, stava ai piedi del palazzo come Maometto o Mosè di fronte alla montagna: ansioso, speranzoso, timoroso ma pieno di felicità.
Aprì il portone del palazzo. I gradini volavano via come schegge sotto il suo passo slanciato. Arrivò al terzo piano in un baleno. Tese l’ orecchio e non sentì nulla. Bene, doveva ancora dormire. Infilò la chiave nella toppa, piano, facendo attenzione a non fare il minimo rumore. Un pallido odore di caffè si aggirava per l’ingresso. Chiuse la porta e si tolse la giacca. La casa era fresca. Il sistema di condizionamento dell’ aria che aveva fatto da poco installare funzionava alla perfezione. Il torrido clima estivo si fermava fuori della porta e così sarebbe stato anche per il freddo invernale. Potenza della tecnologia e vantaggi del quattrino. Stefano appoggiò la giacca sul divano, si tolse anche le scarpe per fare ancora meno rumore e si incamminò così, sudato allegro e con il suo paio di scarpette in mano, verso la loro camera da letto. S’ impuntò di colpo, quando sentì un rumore provenire proprio da lì. Tese ancora l’orecchio, ma non riusciva a percepire nient’ altro che un bisbiglio sommesso e qualche strano sospiro. Con il cuore in gola si avvicinò alla porta socchiusa e gettò uno sguardo nella camera. Il materasso era scoperto, il lenzuolo di seta sfregava contro il pavimento e poi… una scarpa sconosciuta. Spinse ancora un po’ la porta e fu allora che tutto gli esplose davanti. Silvia di spalle gemeva e sospirava, e un uomo giovane, dall’aspetto possente e pieno d’ energia, la stava scopando da dietro, proprio lì, sul loro letto, nella loro stanza.
Un lamento strozzato uscì dalla bocca tremante di Stefano. I due si fermarono di colpo, saltando giù dal letto e Silvia iniziò a gridare. Ma Stefano non sentiva più niente. Senza proferire parola, si voltò e di scatto partì verso la porta d’ingresso. Uscì correndo per le scale, saltando tre quattro scalini alla volta. La forza che lo aveva spinto fin lassù, adesso lo stava schiantando verso il suolo con potenza quintuplicata. Sentiva Silvia dietro di sé, ma come un’ eco lontana e soffusa, impalpabile.
Era in strada ormai, perso fra la folla che, ora si, lo stava fissando sbalordita. Con la cravatta ancora allacciata e le scarpe in mano, Stefano correva chissà dove, senza meta né scopo, correva solo per fuggire lontano da lei, da tutto. Da se stesso. Adesso l’ ombra era totale, la fossa aperta e pronta per l’ inumazione. Stefano sentiva le lacrime solcargli il viso e allora ricordò l’ ultima volta che aveva pianto di dolore, d’amore. Molti anni prima, proprio davanti agli occhi di quella che sarebbe diventata sua moglie, per uno stupido bacio che aveva dato e che lei aveva scoperto. Bacio che non era stato solo un bacio, ma qualcosa di più; un bivio, la scelta di una vita. E lei aveva finito col vincerla, su tutte, persino su di lui. Capiva quanto l’ inganno di una mente abile fosse stato allora fatale e piangeva, correva, gridava. La pazzia lenisce ogni dolore e così lui voleva essere: pazzo da legare.
Questo era tutto. Era arrivato da Magda, proprio come un cane trova il suo giardinetto preferito: con l’odore. Era giunto da lei, aveva suonato a quel campanello conosciuto, aveva salito i soliti scalini e aveva fatto tutto ciò che aveva sempre fatto negli ultimi sette mesi. Così, come un automa sull’ orlo di un crisi di nervi, tuttavia perfetto e lucidissimo.
Magda lo fissava. Aveva nuovamente riempito il bicchiere di champagne e accavallato le belle gambe. I capelli biondi, biondo‐ finto ma ugualmente belli, le ricadevano sulle spalle seminude. La sottoveste le ricamava il seno e attraeva l’ occhio come una ipnotica danza. Era bellissima. Stefano se ne accorse solo ora e ne rimase disgustato: Magda era davvero un essere meraviglioso. Si sentiva piccolo piccolo di fronte a lei e fece fatica ad alzarsi dal letto. Si guardava attorno, ma non riusciva a trovare qualcosa.
‐ E la giacca?‐ disse poi con la voce di un bambino.
Magda gli sorrise e poi gli disse:
‐ Non la avevi quando sei entrato. Forse…‐ e lasciò cadere la frase nel vuoto con un’ alzata di spalle.
Stefano taceva. Guardava la donna come se volesse giustificarsi di qualcosa, con le braccia aperte e i palmi delle mani rivolti al cielo.
‐ Vedrai che tutto si risolverà… Magari ci vorrà un po’, ma tornerà tutto a posto.‐ esclamò la donna, per rompere quel silenzio opprimente e ridicolo.
‐ A posto dici? Forse è proprio questo che mi spaventa…‐ disse con un sospiro. ‐ Non so se voglio che tutto torni a posto, ma francamente adesso non so più niente.‐
Prese la cravatta dal letto e se la infilò nella tasca dei pantaloni. Poi, guardò la donna e sorrise.
‐ Quanto ti devo Magda?
‐ Centocinquanta euro caro, come sempre!
Siena, 3 settembre 2007