La mia montagna
Febbraio 1978.
Era già quasi ora che chiudessero gli impianti sciistici, poco prima del tramonto. La maggior parte degli sciatori si dirigeva verso il rifugio, allettati all'idea di una tazza di cioccolata calda, dopo una giornata di vento tagliente sulla faccia e nelle ossa. Alcuni invece tornavano alla stazione delle navette, per rientrare subito in albergo, pregustando il bagno rilassante, l’aperitivo prima di cena, i commenti sulla giornata con gli amici. Solo gli irriducibili si accalcavano all’ingresso degli impianti, desiderosi di un’ultima, velocissima volata, la più bella, quando la pista è ormai sgombra e la montagna diventa di una bellezza struggente. Il nostro maestro, invece, stava dicendo che noi principianti eravamo pronti per la grande prova, affrontare la pista nera, la regina delle piste. Da quando era iniziata la vacanza ne avevo sentito parlare più volte, ma non l’avevo ancora vista, era molto più in alto delle altre piste che avevo percorso. Pensavo a quel nome, pista nera, e sentivo un brivido scendere lungo la schiena.
Era bello il maestro, di una bellezza sfrontata, irriverente: due magnetici occhi verdi in un viso abbronzato, i capelli biondi lunghi sul collo, quasi un fiero manto che accompagnava con eleganza i movimenti del suo corpo flessuoso e potente, un sorriso raro e irritante e per questo ancora più seducente, un sorriso che ti faceva sentire sempre goffa e inadeguata. Il maestro guardò l'orologio, alzò gli occhi verso la parete rocciosa che sovrastava le nostre teste, diede una veloce occhiata alle piste, ancora guizzanti delle ultime colorate frecce umane e dei bagliori rossastri che il sole del tramonto regala alla neve quasi ghiacciata, quindi decise e subito disse con tono quasi sprezzante: "Si va su, veloci che c'è poco tempo. Chi non se la sente aspetti qui, però si perde una bella volata !".
Guardavo gli altri del gruppo, erano tutti ragazzini tra gli 11 e i 14 anni, che, come me, si cimentavano per la prima volta sugli sci. Li conoscevo da appena quattro giorni e con quegli estranei avevo diviso fatiche e frustrazioni da principiante; avrei invece voluto stare insieme ai compagni di scuola che partecipavano alla settimana bianca, i quali, però, sapevano già tutto di piste, scarponi, attacchi, skilift, spazzaneve e curve a sci uniti. Nei giorni precedenti alla partenza, avevo pregustato il divertimento che mi aspettava, le risate per qualche scivolone, le chiacchiere con le amiche sui ragazzi, il vento che lisciava il viso con la sua ruvida carezza. La delusione di non poter condividere con loro la mia prima esperienza da sciatrice tredicenne era stata forte, ma nella mia natura c’è il tratto dell’adattarsi subito alle situazioni, per cui in quei quattro giorni mi ero concentrata solo sulle lezioni, avevo lavorato sodo, senza perdere un passaggio delle spiegazioni del maestro: prima su e giù a scaletta per pendii lievi, su e giù decine e decine di volte, finché sentivi di non perdere più l'equilibrio, di controllare il peso della testa, di concentrare la forza e il pensiero nelle gambe. Poi lo spazzaneve, lo detestavo, una posizione innaturale e faticosa per il corpo, ma indispensabile per capire qualcosa di quello sport di cui mi stavo inesorabilmente innamorando.
Il maestro al terzo giorno del corso ci aveva dato il permesso di chiudere le code degli sci e tentare qualche impacciata curva a sci uniti; avevo scoperto che era elettrizzante ed esaltante riuscire a farlo, anche se non ancora bene, e poi non ero mai caduta. Quando rimanevo di proposito indietro al gruppo per provare un movimento con calma , senza gli occhi di tutti addosso e le risatine dei più intrepidi, come sottofondo alle imprese altrui, mi ero due volte lasciata tentare dalla velocità, con il cuore che mi martellava nel petto, mi ero lanciata senza pensare più a nulla .
In realtà spesso le spiegazioni del maestro mi annoiavano, aveva un fare petulante, sembrava che ci mettesse a parte di profondi e inaccessibili segreti, adatti solo ai più degni e coraggiosi tra gli uomini. In fondo stavamo soltanto imparando a sciare, non a pilotare un aereo della NATO!
Non mi era simpatico il maestro, ma nemmeno gli altri del gruppo mi ispiravano sentimenti positivi. Mi ripetevo ogni mattina che non c’era da meravigliarsi se nessuno mostrava di accorgersi di me. Con il mio carattere chiuso e timido, l'inesperienza e un orrendo giubbotto azzurrino dal taglio maschile, col colletto di pelliccia sintetica color nocciola, che faceva sembrare il mio corpo, dall’aspetto puberale, ancor meno attraente, gli occhiali da sole modello a specchio, troppo grandi per il viso minuto, i capelli che venivano fuori dal berretto di lana come stoppa indurita dal freddo e dal vento, chi mai poteva provare simpatia per me?
Quasi nessuno mi rivolgeva la parola e io facevo altrettanto, ma a quei tempi pensavo che dovesse andare così, mi sentivo fuori posto in ogni situazione e per questo cercavo di farmi notare il meno possibile. Mi ero abituata già da bambina ad osservare gli altri, a notare i dettagli, quasi a spiare le loro vite, a stupirmi della naturalezza con cui alcuni vivevano la condizione di essere oggetto di interesse e ammirazione; spesso desideravo segretamente, senza mai crederci sul serio, di sentirmi disinvolta, spigliata, una sensazione che non avevo fino ad allora mai provato. Immaginavo di parlare in pubblico, di esprimere il mio giudizio su richiesta altrui e di essere ascoltata con approvazione. A volte poi mi interrogavo su quale futuro mi attendesse, su cosa avrei fatto da adulta, chi mi avrebbe amato, quale lavoro avrei svolto, chi si sarebbe fidato di me….era tutto indistinto, sembrava più un’aspirazione che una possibilità, ma non mi soffermavo troppo in quei pensieri, spostavo sempre in avanti il momento in cui avrei avuto il coraggio di guardare in faccia le mie paure, mi aiutava in questo anche la giovane età, credo.
Durante le lezioni di sci, nei tempi di attesa del mio turno di esibizione, quando mi assaliva la noia dei miei compagni così spietatamente normali e prevedibili in ogni loro reazione, sbirciavo gli sciatori sulle piste più difficili, cercavo di capire come si posizionavano con il corpo per virare a sci uniti e, soprattutto, ma mi batteva più forte il cuore al solo pensiero di farlo anch'io, come si chiudevano a "uovo" e via, frecce felici di esserlo.
Una volta sola avevo provato a scendere a "uovo", mi sarei quasi ammazzata se non fossi riuscita a evitare il pilone dello skilift contro cui stavo per schiantarmi. All'ultimo momento le gambe, senza che io sapessi come avessero fatto, si erano disposte quasi perpendicolari al corpo, rallentando bruscamente la corsa e incredibilmente non ero caduta. Questa era una cosa di cui andavo fiera: non ero mai caduta. Il primo giorno del corso, però, mi era piombato addosso un ragazzino del gruppo, tutto sbilanciato in avanti, completamente senza controllo. Una caduta molto ridicola, non per colpa mia; allora avevo pensato che è brutto trovarsi con il sedere sulla neve e braccia e gambe incastrate tra sci e racchette, del tutto dipendente da qualcuno che venisse a sciogliere quel groviglio umano. C'era andata bene, qualcun altro nella stessa situazione s'era fatto seriamente male.
Accidenti a me e al mio cervello che non stacca mai!
Gli altri del gruppo avevano risalito già quasi tutto il lungo percorso dell’impianto della pista nera, i dischi dello skilift tra le gambe, gli occhi brillanti di eccitazione, il sorriso delle grandi occasioni, qualche ragazzo magari poco convinto per quello che stava facendo, ma fiducioso comunque che il maestro mai ci avrebbe proposto una situazione troppo rischiosa per dei principianti. La fiducia negli adulti è fondamentale quando si è molto giovani, se non altro almeno per il gusto di imitarli
Va bene, si va su tutti, non sarò io l'unica fifona del gruppo. Muro bianco aspettami!
Così mi trovai a salire per ultima, mi dovetti aggrappare al disco dello skilift per tirarlo giù, senza l'aiuto dell'addetto all'impianto che non vedevo da nessuna parte, forse se n’era già andato via, a bere qualcosa di caldo, dopo il freddo preso per tutto il giorno. Ci avevano detto di afferrare al volo il primo disco che ci passava vicino, con o senza aiuto dell’addetto, così fanno gli sciatori e così feci. Ormai era andata, stavo salendo, non potevo tirarmi più indietro. Capii subito che quell'impianto era molto più lungo degli altri già sperimentati e che la pista accanto aveva qualcosa di strano, quasi non si vedeva, ma ne misi di tempo per comprenderne il motivo: era completamente appesa giù. Il fruscio degli sci sulla neve mi arrivava amplificato alle orecchie, ero come ipnotizzata.
Quando giunsi in cima gli altri si erano già lanciati da un pezzo, il maestro in testa guidava il gruppo, molti ragazzi scendevano a sci uniti, senza perdere un colpo, pareva che l'avessero sempre fatto, altri alternavano con lo spazzaneve e rimanevano più indietro, qualcuno poi, aveva rinunciato all'impresa, s'era tolto gli sci e scendeva a piedi. Ma tutti velocemente scomparvero dalla mia vista. Avrei potuto provare a chiamarli, se non mi fossi vergognata di essere rimasta tanto indietro, e poi c’era il mio orgoglio ferito dal fatto che nessuno si era degnato di aspettarmi.
Che stupidaggine –pensai‐ salire fin qua su per scendere poi con gli sci in spalla! Ora qualcuno si accorgerà di me e si fermerà ad aspettarmi, mica mi lasciano quassù da sola!
Guardavo sotto, ma non riuscivo a vedere bene, il sole stava tramontando, in montagna fa notte in pochissimo tempo, mi sembrava che la pista fosse sparita, anche se in realtà era proprio lì, solo che vista dall'alto presentava tutto un altro aspetto a confronto della visuale che si aveva dagli impianti: era la regina delle piste e come tale si ergeva solitaria, un muro a dir poco quasi verticale. Pensai di aspettare qualcun altro che salisse, per iniziare la discesa con lui, fosse stato anche un estraneo. Guardai verso l'impianto, era fermo e senza ombra di dubbio ormai spento: per quel giorno non sarebbe salito più nessuno lassù.
Accidenti alla mia testa, sempre persa a pensare. Non c'era altro da fare, mi dovevo buttare giù da quel muro, a spazzaneve, con molta prudenza, tentare gli sci uniti sarebbe stato troppo per le mie capacità e per la paura che si stava impossessando di me. No, quassù non ci resto, tra poco è notte, vado.
Cominciai a scendere, non vedevo quasi nulla, intuivo che dovevo andare pianissimo, stare più incollata possibile alla parete nevosa e neanche mi dovevo far venire in mente di guardare giù, perciò forse era meglio che si vedesse male, già quel poco che scorgevo mi toglieva il fiato. Piano, una curva dopo l'altra, pensa, pensa, non avere fretta di arrivare giù, tanto ormai non c'è più nessuno, tanto ormai è notte, peggio di così c'è solo che cadi e ti spezzi un osso, poi chi lo sente papà che dice che sei una pazza scavezzacollo. Avevo paura, però, ad ogni curva, affiorava un po' di coraggio, era un altro pezzetto di pista in meno, mi ero avvicinata un po' alla base degli impianti e, arrivata lì, tornare in albergo sarebbe stato poco più che una passeggiata, dopo quel maledetto muro bianco. Che idiota il maestro, l'avevo detto che non mi piaceva. Pensai che avrei fatto bene a telefonare a mio padre perché protestasse e cercasse di farlo rimuovere dal suo incarico. Comunque prima dovevo arrivare giù tutta intera.
Ma c'era un problema che si stava prospettando inatteso, le gambe mi facevano male ed erano sempre più lente ad eseguire gli ordini. Dove mi trovavo? Sulla sinistra intravedevo la macchia scura del bosco, da cui volevo tenermi il più possibile lontana, anche se dopo certe curve in cui non riuscivo a controllare la traiettoria, mi sembrava che quelle gelide presenze, qualche ora prima belle chiome verdeggianti, si facessero sempre più vicine e che fossero abitate da oscure entità. Cosa aveva detto il maestro: qualsiasi cosa vi succeda non abbandonate la pista, all'esterno dei bordi c'è di tutto, dossi, massi, crepacci….e chissà cos’altro ancora di notte, pensai, mentre osavo appena sfiorare il bosco con lo sguardo.
Crepare in un crepaccio: al mo funerale qualcuno avrebbe fatto anche questa facile battuta, però a me veniva da piangere a pensare che non avrei scoperto chi mi avrebbe amato, che non avrei mai saputo chi si sarebbe affidato a me. Pensavo alla mia famiglia, ai volti dei miei genitori per la notizia della mia morte, ma anche alla famiglia che non avrei potuto più avere in futuro e provavo tenerezza……
Vagavo col pensiero per non fermarmi, per non permettere alla paura di paralizzarmi. Buio, solo buio, appena appena un riverbero della neve per gli ultimi spasimi del crepuscolo. A destra c'era l'impianto, ne ero sicura, perché anche se non era illuminato si vedevano ogni tanto i puntini rossi delle lucette di sicurezza, era l'unico riferimento. Avvertivo che la montagna dominava ovunque ogni sua più piccola componente, percepivo la potenza silenziosa che si sprigionava intorno a me da quelle rocce ultramillenarie, mi sentivo come un’intrusa che viola un santuario. S’impossessava d’ogni cosa il silenzio, quello che solo la montagna di notte può rilasciare, come se non fosse di questo mondo: se non lo si sente almeno una volta nella vita, non si può capire cosa sia veramente il silenzio. In quella condizione il fruscio degli sci sulla neve era rassicurante e spaventoso al tempo stesso, mi diceva che ero viva, ma anche che non vivevo un sogno.
Però a stare più attenta qualcosa lo sentivo, doveva essere il verso di un animale, ma non volli pensare ai lupi, era un'idea che decisi di non prendere in considerazione, sembrava piuttosto un suono flebile, come un lamento, e più scendevo con esasperante lentezza, io e gli sci e la neve ormai una sola cosa, e più quel suono aumentava, era un pianto, senza dubbio un pianto. C’era un altro relitto lassù?
Me lo trovai davanti all'improvviso, non potevo vederlo bene, capii però che c'era qualcuno poco più giù, sotto il muro bianco, perché ormai avvertivo forte quel verso in cui c’era incredulità, in cui c'era la mia stessa paura. Per un momento lo odiai.
Anche lui mi intravide, un attimo prima che gli arrivassi addosso si buttò di lato, lo evitai, doveva essere uno dei ragazzini del corso, rimasto indietro. Mi fermai, ci riconoscemmo e lui felice mi abbracciò, stava quasi per farmi cadere. Ci aggrappammo l'uno all'altra, poi mi raccontò che era scivolato malamente e che gli faceva male una caviglia, per cui aveva tolto gli sci e voleva scendere giù a piedi, ma aveva troppa paura del buio e di perdersi. Mi disse di togliermi anch'io gli sci e provare a scendere a piedi insieme. Quell'idea mi sfiorò per un istante: togliere gli sci e scendere a piedi sarebbe stato sicuramente meno faticoso di quell'ostinato spazzaneve con cui tagliavo la verticale della montagna, ma io, testarda come ero, avevo deciso che dovevo resistere, ormai era una sfida tra me e la mia paura, forse non solo della montagna, e, se l'avessi perduta, non avrei rimesso mai più un piede sugli sci e chissà cos’altro non avrei più fatto. Sapevo questo, sia pur in maniera indistinta, e non potevo ignorarlo.
“No"‐gli dissi ‐"io continuo, piano piano fin giù, ormai dobbiamo essere a metà percorso, il più è passato, vieni dietro di me, dai che ce la facciamo”.
Credo che mi guardò come se fossi pazza o stupida, provò a insistere, io intanto avevo ripreso a scendere, quella breve sosta aveva dato un po' di sollievo alle gambe, mi sentivo incoraggiata, io femminuccia coraggiosa, lui maschietto pauroso: vai Paola, vai che ce la fai, non ascoltare questo fifone, mi sente il maestro quando arrivo giù!!! Se si sono accorti che manchiamo dal gruppo forse ci vengono a cercare, ma visto che io ho provato in tutti i modi in questi giorni a non farmi notare, è probabile che adesso nessuno si accorga che non ci sono. Ne passerà di tempo e intanto che faccio? Muoio assiderata quassù, con un pianto nelle orecchie?
Continuavo a scendere e lui dietro di me a piangere, inesorabile, andavamo piano, così, due ombre che scivolano a rubare la notte della montagna.
L'ultima cosa che pensai prima di intravedere le luci della base dell'impianto fu che quell’avventura aveva dell’assurdo, pensai a quante volte mi ero lanciata tra le onde agitate della mia città di mare…. Ce l'avevo fatta, ero felice, arrabbiata, stremata, scoppiavo di orgoglio, volevo urlare al mondo la mia impresa, la mia paura dominata.
Arrivammo in albergo, mi reggevo a stento sulle gambe, gli altri si erano appena seduti ai tavoli per la cena. Improvvisamente l'esaltazione era sparita, provai un’acuta vergogna per essermi cacciata in quel guaio, solo io, perché l’altro in qualche modo era partito con il gruppo. Stavo spietatamente a pensare alle mie responsabilità, quando il ragazzino che era sceso a piedi si precipitò dal proprio insegnante a raccontargli tutto. Mi chiesero se era vero che il maestro ci aveva lasciati lassù, erano tutti intorno a noi, ma gli insegnanti più che spaventati mi sembrarono irritati, forse pensavano alle conseguenze per loro se le cose non si fossero risolte così bene, dai loro sguardi ebbi come la sensazione che non gliene importasse della disavventura che avevamo vissuto, erano solo molto contrariati. Mi chiesero cosa volessi fare, qualcuno disse di andare a chiamare il maestro.
Ero stanca, nessuno si era accorto di me, mi avevano lasciato lassù e poi solo a cena avrebbero notato il posto vuoto, neanche le mie compagne si erano chieste dove fossi e questo sì che faceva male. Ero stanca, non riuscivo a pensare ad altro che alla stanchezza e al fatto che tutto era successo anche perché c'era in me qualcosa che non andava. Però ce l'avevo fatta, ne ero fiera. Dissi che volevo andare a riposare, che non mi sentivo di cenare e comunque avevo con me un panino del pranzo a sacco, nel caso mi fosse venuta fame, avrei mangiato quello, dissi che stavo bene, che non dovevano preoccuparsi. La rabbia sparita, insieme al desiderio di accusare il maestro per la sua negligenza, aveva lasciato il posto a un dispiacere profondo, che non riuscivo a decodificare.. Avevo bisogno di stare da sola, volevo togliermi tutti d’intorno!
La mattina seguente gli insegnanti mi guardavano con circospezione, mi avvicinai alla mia e con un sorrisetto quasi di scusa chiesi solo se potevo essere esonerata dalle altre lezioni, per i rimanenti due giorni. “Che farai?” mi chiese. “Resterò in albergo, va bene così”.
I gruppi partirono, ognuno con il suo maestro, il mio non si avvicinò neppure per scusarsi, a stento si ricordava chi fossi, non so nemmeno se avesse capito bene cosa era successo. Aspettai che se ne andassero, in effetti in albergo c'erano altri ragazzi che avevano chiesto di riposare e un'insegnante con loro come responsabile. Mi avviai agli impianti a piedi, c'era la solita confusione, sciatori provenienti da tutti gli alberghi di San Zeno, che si riversavano sulle piste, sul volto l’inconfondibile, febbrile ansia di lanciarsi a tutta velocità. Nessuno avrebbe badato a me, già si erano dimenticati che sarei dovuta rimanere in albergo e comunque con il passamontagna che avevo indossato e gli occhiali a specchio era difficile che qualcuno riuscisse a riconoscermi, ma neanche me ne importava se fosse accaduto. Mi sentivo ostinatamente convinta a stare da sola. Oggi che sono un’insegnante tremo a ripensare a quanto fossi stata anche io irresponsabile in quella vicenda. Affrontai la pista bianca, la più semplice, la pista azzurra e poi la rossa, impegnativa, mi divertivo, guardavo i più bravi e ripetevo i loro gesti, di ora in ora diventavo sempre più sicura e disinvolta sugli sci. Lanciai solo un'occhiata alla pista nera, era lì, di giorno sembrava innocua, non la odiavo più, sapevo che ci sarei tornata.
Sentivo mia la montagna, le mie insicurezze non erano scomparse, il futuro mi faceva sempre paura, ma avevo la mia vittoria, era solo mia, mia e del giorno che avrei trovato il coraggio di affrontare le persone come avevo fatto con la montagna.