La morte delle margherite
Nascono nei bambini veri e propri drammi, il più delle volte ignorati dai grandi. Drammi che lasciano, per una vita, tracce indelebili. E’ pur vero che non ci sia dolore più intenso della perdita del palloncino colorato, che s’involi nell’azzurro. Mi ha seguito, negli anni, una sequenza di un pugno di minuti. Sono immagini di sessantacinque anni fa, affatto sbiadite dal tempo, di cui percepisco ancora i colori, gli odori, ma soprattutto la contrapposizione di due sentimenti contrastanti: una meraviglia creativa e la successiva delusione, per una distruzione inattesa, un venir meno da un fenomeno vitale. Sicuramente il primo incontro con qualcosa che, in seguito, avrei saputo identificare con il fenomeno della morte. Un pomeriggio a Villa Adela, a Serravalle Scrivia. Si era in guerra. Una di quelle giornate di primavera, dove il vento creava una neve rosa di petali dal ciliegio, grande e maestoso. Forse erano i freddi inverni, i cumuli di neve, il ghiaccio alle finestre, la proibizione di uscire per non ammalarsi, ma il sopraggiungere della primavera, lo ricordo in maniera improvvisa. E’ uno scenario di luce, di colori, di profumi, all’apertura del portone di casa. Il ciliegio, a pochi metri, creava una galleria di rami fioriti. Dalla corteccia colavano gocce color ambra, che nonno Angelo raccoglieva in una boccettina, su cui si evidenziava la scritta, in bella calligrafia, COLLA. Se unisco pollice e indice e ne struscio l’epidermide, avverto ancora la sensazione di cattura, d’ingombro che mi dava quella resina, quel panico infantile per non riuscir più a staccare le dita. Veniamo al pomeriggio della mia memoria. Avevo scorto, tra l’erba del prato, le margherite, miracolo di geometria, gentilezza di contrapposizione di colori, bianco e giallo, profumo intenso, che non ho più ritrovato da grande. Le prime nozioni innate di possesso e d’ordine, mi avevano spinto a coglierne una manciata. Creare un piccolo giardino, tutto mio. Non ricordo se mi fu dato quel consiglio, ma vedo la mia mano che spiana un piccolo quadrato di terra scura e v’infigge lo stelo di ogni margherita, secondo un disegno geometrico, semplice ma curato. Il giudizio estetico già s’intravede, se avverto un residuo di compiacenza su ciò che ho fatto, quasi un orgoglio adulto. –“Lucio..merenda!”‐ Un ordine, una tentazione obbligata di mamma, una pausa dovuta al gioco. Il sapore del burro a tocchi, dallo sbattere il latte, munto di fresco, nella bottiglia. Il pane, caldo di forno, vaporoso. Quel gesto lento e accurato di mamma nello spalmare e l’ultimo spruzzo di zucchero. In mano quella costruzione di piaceri gustativi, ritorno al dovere, al mio giardino. In pochi minuti è tutto mutato. Lo stelo delle margherite ha ceduto improvvisamente e tutte giacciono sdraiate nella terra scura. E’ come se la vita, in pochi attimi, fosse venuta a mancare. Hanno perso il colore, a corolle chiuse. Ed è per il dolore di questo quadro, che io ho conservato, per tutta la vita, l’intera sequenza. Mi ero imbattuto, per la prima volta, in un atto di pura morte.