La mosca
Disteso sul letto, sulla pelle la piacevole sensazione di freschezza della doccia appena fatta, si divertiva a far volare sull’intonaco bianco del soffitto la sua piccola mosca grigia.
Era facile farla muovere dolcemente qua e là o farla schizzare da una parete all’altra come un proiettile sparato all’improvviso da un fucile ad aria compressa.
Il fucile era nell’occhio sinistro, solo là; se lo chiudeva, la mosca spariva per un attimo e poi ricompariva più sfocata sul nero della palpebra chiusa. Se lo riapriva, eccola di nuovo volteggiare felice in uno zigzag senza fine: bastava metterla a fuoco su una qualunque superficie chiara, persino sulla sabbia dorata della spiaggia o sulla distesa immensa del cielo azzurro.
‐ È il segno di una cataratta incipiente ‐ gli aveva detto il suo oculista (un amico d’infanzia che aveva saputo fare le scelte giuste) al termine della visita di controllo annuale – Per ora è solo un preavviso, come i colori sfocati o quel leggero offuscamento della vista di cui mi parlavi lo scorso anno. Attento alla luce del sole nelle ore più calde della giornata, quando partirai per la villeggiatura! Potresti avvertire un maggiore abbagliamento e quella fastidiosa sensazione di avere nell’occhio una mosca. Comunque, per un eventuale intervento…c’è ancora tempo. Divertiti‐.
E nell’attesa lui si divertiva a riempire con la sua mosca grigia il tempo morto, quello di ritorno dalla spiaggia, dopo la doccia, mentre aspettava, disteso sul letto, che sua moglie, accaldata e rossa come un gambero per l’eritema solare, preparasse gli spaghetti con un sughetto veloce profumato di basilico.
“Le ferie dell’impiegatuccio di provincia con la moglie casalinga!”, ripeteva con disprezzo suo figlio ogni volta che partivano a bordo della vecchia Fiat dell’Ottantasei, carichi di scatoloni con le provviste portate da casa, tanto per risparmiare qualcosa. E da vari anni non li seguiva più: preferiva andarsene all’avventura con un gruppo di amici sfaccendati come lui, verso destinazioni sempre diverse, con l’atteggiamento del figlio di papà che “se le vacanze non sono all’estero è meglio restarsene a casa”.
Ma in fondo non era diverso da tanti suoi colleghi, morti di fame come lui, che però non rinunciavano a scegliere le mete più esotiche per poter dire al ritorno: ‐ Che meraviglia Sharm El Sheik! E che emozione viaggiare a dorso di cammello fino alla tomba di Tutankamon, con quella sabbia rossa che più rossa di così non se ne trova! ‐
A lui, invece, piaceva starsene tranquillo, nel piccolo appartamento preso in affitto per due settimane, a prezzo modico, con la sua fedele e paziente compagna, che sfidava ogni anno coraggiosamente l’eritema pur di portarsi a casa l’abbronzatura dorata che piaceva tanto a lui.
‐ Spiagge esotiche! ‐ pensava tra un volo e l’altro della mosca sul soffitto – Sfido chiunque a trovarne una più esotica e più multi etnica della mia. ‐ Piena zeppa di Raphael, Amir, Emal, Amed, Aasim, Aarif, Mahamati, Apolonius, Gustaw e chi più ne ha più ne metta. Per non parlare del colore della pelle! Ebano, cioccolato chiaro e scuro, olivastro, bianco latte, bianco tendente al giallo e chi più ne ha più ne metta.
Ne aveva conosciuti tanti in quei primi sei giorni di vacanza, mentre se ne stava seduto sulla spiaggina, sotto l’ombrellone, magari leggiucchiando qualche pagina del quotidiano del giorno prima rimasto nella sacca da mare. Bastava chiudere un attimo gli occhi, tanto per far rallentare un po’ le evoluzioni della mosca, e prima ancora che quella ricomparisse, leggermente offuscata, sullo sfondo nero della palpebra chiusa, ecco la voce di Raphael passargli accanto “ Tovaglie, asciugamani, coprilenzuola, tutto a cinque euro” e poi allontanarsi lasciandosi dietro una scia di sudore.
Allora riapriva gli occhi e la mosca impazzita saltava dalla sabbia infuocata al cielo azzurro, e nel suo volo si scontrava, senza causare danni, con la pila di cappelli di paglia impilati sulla testa di Amir o sul suo braccio pieno zeppo di collane Svarovski (!), di bracciali di giada (!), di cavigliere d’argento (!), tutto a quindici euro.
Emal era quello degli ombrelli variopinti, coperti di splendide riproduzioni di artisti famosi: La colazione sull’erba di Manet, La libecciata di Giovanni Fattori, La danza di Matisse, Le tre danzatrici di Picasso, Il bacio di Klimt. Bellissimi! Ne aveva acquistato uno per sua moglie, quello dove la sua mosca si era posata non appena Emal li aveva allineati aperti uno dopo l’altro sulla sabbia tra gli ombrelloni. Si era posata proprio sul braccio di una delle danzatrici di Picasso e lui aveva colto al volo – si fa per dire ‐ il consiglio, pagando sette euro senza chiedere sconti. A sua moglie era piaciuto infinitamente e l’aveva abbracciato stretto, trasferendogli sul petto sudato un bel po’ di olio abbronzante Nivea Sun.
Emel era africano, Gustaw e Apolonius, invece, venivano dalla Polonia, da Cracovia, la città di Papa Woitjla: il primo trascinava il carretto del cocco su e giù per la spiaggia al grido di “Cocco bello, cocco fresco” e quella volta che si era deciso a comprarne due pezzetti, Gustaw glieli aveva rinfrescati ben bene nell’acqua del catino, condita col sudore delle sue povere mani incallite.
L’altro si era trasferito da poco nel Meridione, sulle spiagge dell’Adriatico, per vendere sottopentole, ventagli e chincaglierie del genere ai turisti; ma fino a pochi mesi prima aveva lavorato in nero al Nord, nel Veneto, vicino a Ponte di Legno, al confine fra Lombardia e Trentino. Nel suo italiano maccheronico, con una voce piagnucolosa, un po’ accentuando il tono da vittima (anche lui aveva i suoi trucchetti per convincere il cliente), gli aveva raccontato di essere stato malmenato una sera davanti ad un bar della periferia da un gruppo di giovinastri, violenti e razzisti, che gli avevano intimato di tornarsene in Polonia al grido di “ la Padania alla Lega”! All’amico che era con lui, un nero della Nigeria, oltre alle botte avevano propinato insulti e minacce ben più gravi.
Erano scappati via da lì il giorno dopo. Ed eccoli a scavare solchi nella sabbia, coi loro borsoni carichi di scarpe di marca fallate, borse Prima classe e occhiali Carrera ben allineati sulla tavola di compensato con manico.
La mosca si posava fraternamente ora sull’uno ora sull’altro, quasi accarezzando quelle povere spalle, quei colli incordati dallo sforzo, quei piedi infuocati nei sandali che affondavano nella sabbia di mezzogiorno, sulle spalle della piccola Anisha, l’indiana, piagate dal sole e incavate dalla cinghia del sacco colmo di animaletti calamitati, quelli che nessuna madre sensata comprerebbe per suo figlio; passava due volte al giorno, ripetendo come un disco incantato “Giocattoli, calamite, girandole colorate…Solo tre euro”.
A tutto questo pensava mentre se ne stava disteso sul letto, al fresco, in attesa degli spaghetti; e mentre la sua mosca saltellava qua e là, rischiando di annegare nelle lacrime di compassione che gli avevano riempito gli occhi, si sentì fortunato, immensamente fortunato: anche se non aveva visto la tomba di Tutankamon, era stato baciato dalla buona sorte insieme alla sua fedele compagna, che intanto scolava gli spaghetti al dente condendoli nel buon sughetto veloce al profumo di basilico fresco, e con la sua mosca grigia, che ora pareva saltellare più allegramente del solito sull’intonaco bianco del soffitto.