La murena
Esiste il Paradiso? E se esiste com’è? Cosa e perché è, soprattutto? Belle domande!… Riempiono la mia vita di una piacevole incertezza sul futuro… Naturalmente, penso queste cose solo la domenica, per lo più dopo pranzo. In mezzo alla settimana, preso come sono dal provare ad alzare soldi, dalle bollette scadute e dall’osservazione della mia incapacità, tendo a semplificarmi al massimo il concetto di beatitudine e, visto che vivo a Roma, la Sardegna diventa il mio Eden più prossimo, il luogo che l’anima mia ha scelto come rifugio dei tempi migliori. La scorsa estate mi sembrò di essere morto, così ho preso per mano Maria e ci sono andato.
Ah!... Ce n’erano di beati, in quel luogo sacro! Alcuni, senz’altro i più santi, avevano la barca e ci salutavano agitando le aureole dorate, in mezzo ad angeli in bikini che però non ci vedevano, loro, troppo occupate a soddisfare i pii desideri dei loro patroni. Io e Maria stavamo sulle nuvolette magre della terraferma, insieme ad una selva di gente rosa dal sole. Avevamo a stento lo spazio per l’asciugamano, ma la Grazia ci impediva di provare la minima invidia per quelli in barca, così come per gli abitanti delle ville con caletta privata, per gli avventori dei ristoranti alla moda…
Contemplavamo. Era l’Estasi.
In fondo il Paradiso è il Paradiso, non era il caso di stare a questionare più di tanto, si vede che doveva essere così, mica ci potevano essere sbagli.
Comunque, già che ci stavamo, io e Maria decidemmo di girarcelo un po’ quel regalo di Dio. Un amico ci aveva parlato di una caletta su al nord, tra Stintino e Alghero, dove fino ad un secolo fa cavavano l’argento dalla montagna.
‐ Andate a vedere… ‐ ci aveva detto – Una vera miniera abbandonata, e poi una spiaggia da sogno, poca o pochissima gente… un paradiso… ‐
Siamo andati, allora. Una mattina abbiamo preso la motocicletta e ci siamo spostati di settanta chilometri. Per il Paradiso, questo e altro, ovvio! E poi, fotografare la miniera poteva essere un modo di rientrare dei soldi della vacanza, forse anche di pagare qualche debito che m’aspettava al varco sotto casa.
Quello che trovammo fu un grande ragno nero che sembrava ancora bere il mare. Una grande, inumana, struttura di legno bruno, con la schiena spezzata. Quello rimaneva dell’antica miniera. Dopo una mezza mattinata passata a tentare di fotografarla, di venire a capo delle sue prospettive contorte, abbiamo comunque dovuto lasciar perdere. Troppo complicato fare concorrenza al colpo dell’occhio. La spiaggia era là ad attenderci.
C’erano delle scale di pietra da scendere e, passato uno sperone di roccia, l’universo apriva il suo ventaglio di pietra, cielo, acqua e fuoco, ognuno cangiante ed eterno come un dio antico seduto sul suo trono. Non pensate però ad una cartolina. Nessuna amicizia legava quegli elementi e l’uomo, lo sentivo, e capivo il dolore che spinge l’umanità a sfidare il destino che l’incatena alla morte. Intuiamo maledettamente bene l’eternità quaggiù, e uno – per forza di cose! ‐ se ne risente.
Per il momento io e Maria risolvemmo sdraiandoci sugli asciugamani, la faccia al sole. Vicino a noi c’erano una coppia di lesbiche e poi, qua e là, una famigliola, dei ragazzi, un’altra famigliola…
La spiaggia era un cielo a buon mercato.
Dopo un po’, mi alzai per dare un’occhiata all’acqua.
Faceva male, a guardarla. Diventavi debole come per gli occhi di una figlia, davanti a quell’azzurro‐verde e ti dicevi che non poteva esserci nessuna cattiveria nella creazione se esisteva quell’acqua, quegli occhi….
Chiamai: ‐ Maria! …‐
Guardò anche lei e si mise a ridere. Disse una cosa buffa: ‐ Chi si tuffa per ultimo è mucillagine…‐
Già era dentro. Continuava a ridere, fra gli spruzzi che sembravano polvere di luce.
– Vieni, dai vieni… ‐ m’invitava con le braccia tese, sorridente, nell’acqua….
Mi tuffai anch’io. Come ci si tuffa in un’altra vita, senza memoria di quella precedente, dei creditori, giudici, avvocati, funzionari di banca, ex soci, ex donne, ex sogni… Non ne avevo più bisogno, non esistevano, soprattutto io non esistevo per loro. Ero morto, morto, morto… E potevo, finalmente, vivere.
Fui subito nell’abbraccio di Maria, poi tutti e due andammo sotto, ridendo coi denti chiusi. Bellissimo. Il dolore non c’era più, svanito come il peso al contatto del corpo con l’acqua. Ci togliemmo i costumi e li sventolammo per salutare un aeroplano che volava verso il sole. Mi veniva da ringraziare qualcuno e lo feci. Grazie! Grazie! Gorgogliavo sott’acqua. Dicevo all’amico, al Mediterraneo, a Maria che mi nuotava accanto…
Nuotammo un po’, dimenticandoci di tutto. Il fondale era frequentato da ricci e piccoli pesci che si muovevano in comitiva, lesti a scattare e cambiare direzione ad un misterioso segnale. Mi dispiaceva di non avere maschera e boccaglio. Maria, lei, si divertiva come una bambina. Ogni tanto qualche piccola onda la investiva, mandandola sotto, facendole il solletico, riportandola verso riva. Io restavo a guardarla. Poi, mi stancai di tutto quello ed uscii. Lei mi seguì dopo poco.
Io, al mare, sono piuttosto sul pigro. Mi misi a seguire le evoluzioni di un cane con un bandana azzurro legato al collo, alzando appena un po’ la testa, il gomito puntato nella sabbia calda. Mi veniva da divagare, nel vedere tutta quella villeggiatura. Lì, un secolo fa, l’uomo aveva sudato veleno.
Miniera d’argento, l’acqua necessaria rubata al mare d’estate e pure d’inverno, quando il mostro si vendicava scaricando onde d’ira sulle schiene degli uomini, spezzando e scompaginando il loro miserabile covo, come un bambino con un formicaio. Alle spalle, avevi una terra brulla, una madre avvizzita dai troppi allattamenti, disposta a lasciar morire qualcuno dei suoi figli pur di salvarne altri, forse i migliori, forse no, perché una madre non distingue. Poi, l’argento veniva caricato su piccole barche in grado di passare gli scogli, fino al largo, fino a navi più grandi con sopra altri uomini minuscoli e stranieri. Estate e inverno, sempre.
E sempre l’Uomo, sulle barche o nel termitaio, a pregare e bestemmiare Dio.
Noi lì c’eravamo venuti in vacanza. Bene!
‐ Che ti pare? ‐ mi chiese Maria.
‐ E’ bello. No, non solo bello… ‐
‐ Mi vado a fare un altro bagno. Vieni?
‐ Fra un po’… ‐ dissi lontano.
Sulla sabbia rovente, il cane con il bandana inseguiva da solo il mondo conosciuto. Apparteneva alla spiaggia, in un certo senso: tutti lo attizzavano su qualcosa. Di là volava un freesbe, di qua un bastone, carezze, richiami confusi... Il cane non sapeva più a chi dar retta, si fermava ogni tanto ansimante di gioia, col piccolo cuore che scoppiava sotto il pelo più chiaro, per poi ripartire a razzo, verso un riflesso condizionato, in mezzo alle risate dei suoi dei.
Ero anch’io così? Un bastardello pronto a correre dietro ad ogni scherzo del caso, senza altra difesa che l’inerzia? Era ragionevole pensarlo. Ero lì con Maria e… non mi sembrava significativo di qualcosa. Un caso, appunto.
‐ Che cos’hai?
‐ Niente. Stupidaggini. ‐ dissi.
Dovevo tornare a Roma, sistemare la mia vita, smetterla di perdere tempo, vivere…
‐ Perché non provi ad andare in analisi? Non è possibile che stai sempre così. C’è Giovanni che va da uno bravo. Se vuoi mi faccio dare il numero…
‐ Giovanni ci avrà i suoi motivi per andarci…
‐ E allora? La questione è accettarsi. Si sta facendo aiutare in questo senso. Se pure tu ti accettassi…
Grazie, Maria. Hai ragione tu, pensai. Non dissi niente, però.
Girai la faccia dall’altra parte, perché avrei voluto sotterrarla nella sabbia, sbucare dall’altra parte, in Cina, in Nuova Zelanda, su Marte…
Era quasi il tramonto. Il sole si piegava sul campo del mare come un gigantesco papavero. Lento e inerte, lasciava che spore di luce disegnassero una scia di stelle cadute sull’acqua.
– Andiamo via ‐ Maria mi si strinse addosso – sento freddo… ‐
Raccogliemmo i nostri stracci e ci avviammo. Un capannello di persone se ne stava fermo sull’arenile; avevano formato un cerchio e discutevano tra loro. Ci avvicinammo come tutti.
‐ Quant’è grossa!
‐ Saranno quattro chili, almeno…
‐ Morde?
Una signora, mamma di famiglia, la toccò con un bastone.
‐ Ehi, è ancora viva!
‐ Attenzione!
La murena era riversa su un fianco, mostrava le file di denti aguzzi, avvelenati, come un impiccato la sua ultima lingua. Stava morendo. Morendo su un altro pianeta, in una dimensione sconosciuta, tra creature che non capiva. L’occhio era sbarrato verso le piccole onde che accarezzavano la battigia. Erano lì, le onde, così vicine che quasi arrivavano a sfiorarne la pelle che s’andava accartocciando al sole.
Intorno, ormai, c’era tutta la spiaggia. Un tipo sui quaranta con una tuta da sub si comportava come ne fosse stato il padrone della murena. Evidentemente s’era avventurata fuori dalla tana e gli era bastato il retino per catturarla. Ora, il tipo la faceva lunga sulle murene in generale, costumi e abitudini. Smorzava, il campione, la pericolosità dell’animale. Le signore lo guardano…
‐ Ce ne sono parecchie da queste parti… ‐
‐ Oh, ma è pericoloso! ‐
‐ Solo se non si conoscono. Il pericolo è che se sono nella loro tana possono riuscire a trattenerti sotto… ‐
Un brivido percosse l’auditorio di bagnanti. La murena ancora non aveva perso i sensi, ma già non guardava più le onde, forse aveva capito che la marea sarebbe arrivata comunque tardi per lei. Si rivolgeva dall’altra parte, invece, verso le creature. Sembrava che, per quanto fosse ormai inutile, cercasse di comprendere che cosa le fosse capitato.
Un silenzio alieno era comparso, intanto, come un ladro, tra la gente della spiaggia, donne, uomini, bambini. Il padrone della murena, anche lui, stava con le braccia lungo i fianchi, senza parole. Solo il cane col bandana saltellava da una parte all’altra come intorno ad una tomba scoperta. Poi, all’improvviso, la murena fece un movimento brusco. Aveva raccolto tutte le forze che ancora le rimanevano e con un guizzo da serpente era riuscita a spostarsi di tre centimetri.
Puntò la terra, però, non il mare.
Qualcosa allora si agitò nel cerchio perfetto, qualcuno gridò e abbaiò alla vita che non finiva.
– S’è mossa!… s’è mossa!… ‐
– Attenti!… Attenti!… ‐
– Bau!… Bau!… ‐
Fu allora che un bambino, una faccia da Tiberio, scappò all’improvviso ai genitori, infilandosi tra la platea degli adulti, e s’avvicinò all’animale. Quando l’ebbe a mezzo metro, gli tirò contro un sasso che teneva nascosto nella mano. La colpì di striscio, con un movimento storto in bocca che faceva male, come ci avessi visto la paura che sta dentro ogni colpo di baionetta, ogni rogo, ogni sentenza capitale. La folla ebbe una sbandata, precipitò per un attimo in un gorgo di spavento e stranezza, ondeggiò e si riprese, mentre la murena iniziava a sanguinare ed aumentare la frequenza del respiro. Pareva che fuggisse e inseguisse qualcosa. L’ultimo fiato di quando la coscienza e l’anima sono già libere e lontane.
Istintivamente strinsi Maria tra le braccia.
‐ No! No! ‐ la sentii mormorare, la voce le tremava.
Provai a abbracciarla e coprirle gli occhi in qualche modo, ma non feci in tempo. Non si può mai. Sospinto dalle grida della madre del bambino, il padrone della murena si fece largo fra la schiera dei bikini e delle pance e risolse la situazione, come una Santa Vergine, schiacciando il serpente sotto una grossa pietra. Colpì una, due, tre volte… Facendo la volontà della maggioranza. Liberandoci dal male.
Lasciò lì, sulla pietra, del povero sangue.
‐ Maria… Maria… ‐ dicevo con la bocca fra i suoi capelli.
La baciavo perché piangeva.
Piangeva, ed io m’accorsi che non avevo neanche una parola vera per consolarla, che non sapevo far altro che stringerla fra le braccia finché non fosse passata, fino ad un giorno prossimo, qui sulla Terra.
Il sole si precipitava a portare il paradiso da un’altra parte.