La nomade

La prima casa da nomade della vita di Josephine non era propriamente una casa situata come tutte le altre in un paesino, né piccolo, né grande che si snodava sulle rive opposte di un fiumiciattolo che venendo giù a rivoli e torrenti s’ingrossava via via, inabissandosi alla fine in un alveo sempre più ampio e profondo per poi lambire con acque giallastre altri paesi. Un ponte di granito bianco collegava i due lati del paese, un ponte stretto e lungo sotto il quale il fiume quasi descriveva un’insenatura dove l’acqua, ritirandosi nell’alveo, lasciava scoperta una riva di sabbia finissima mista a ciottoli levigati dalla corrente impetuosa delle inondazioni invernali. Sul greto, a ridosso del massiccio muro che delimitava ad un livello più alto la strada, come barche capovolte in secca, erano poggiate tende di ogni genere e colore in cui erano accampate alcune famiglie di tzigani, da tutti denominati zingari, con un senso piuttosto dispregiativo da parte dei gagi a causa del loro vagabondare, senso che è poi è rimasto al termine come appellativo di biasimo in senso lato.Essi periodicamente tornavano al paese, in concomitanza con la festa patronale, dopo aver girovagato e sostato di tanto in tanto in diversi altri posti. Vivevano di un proprio lavoro, anche se era dura a morire la convinzione che di notte andassero rubando nelle case. Gli uomini battevano pentole e bacili di rame, le donne si recavano di casa in casa a proporre piccoli oggetti di artigianato, lunghi aghi per materassi o ferri affusolati da maglia in cambio di un bicchiere d’olio o un pezzo di pane, o leggevano la mano a qualche passante. Talvolta al mattino c’era chi si lamentava di non trovare più le sue masserizie e puntualmente, a ragione o a torto, s’incolpavano gli zingari. Essi erano per lo più omoni di grande statura, scuri di pelle, capelli lunghi neri. Vestivano con pantaloni di pelle nera e giubboni di cuoio borchiati. Le donne indossavano variopinte gonne lunghe fino alle caviglie snelle e sottili che sembravano nate apposta per danzare balli vertiginosi. I bambini per lo più scalzi come le loro mamme, capelli lunghi e lisci e sempre moccoli al naso. Ma nei loro occhi neri come carboni guizzavano pagliuzze dorate che sprigionavano una grande voglia di vivere che si beffava dei loro vestitini sdruciti e maleodoranti. I più grandi possedevano per natura una bellezza selvaggia, quasi tutta concentrata nei tratti nervosi e asciutti del corpo. Guadavano nudi le acque del fiume mille volte tuffandosi e altrettante volte emergendo come agili delfini e si rincorrevano sulla riva sollevando nugoli opalescenti di sabbia. Godevano di granelli di libertà, così scontata apparentemente a quell’età, in un mondo che comunque li emarginava, anche se non li perseguitava, sorte quest’ultima che era toccata per un motivo ai loro nonni e bisnonni, e sarebbe toccato per altri motivi in tempi successivi ai loro figli e nipoti. Infatti non erano essi ammessi a scuola, apprendevano direttamente dalla vita quello che bisognava sapere, niente amici, se non la loro stessa amicizia. Ma dopotutto erano fortunati. Senza chiesa avevano un credo, senza casa avevano un proprio centro d’affetti. Ed alcuni avevano di sé anche una memoria storica legata, come il più anziano raccontava, al fatto che erano tutti discendenti degli zingari che intorno all'anno 1000 erano stati inviati dal Re dell'India al Re di Persia, che soffriva di male oscuro, per farlo felice con la loro musica e le loro danze. Ma non sempre volentieri gli zingari parlavano delle loro origini, forse per crearsi un certo alone di mistero o semplicemente perché non ricordavano abbastanza.E si prendevano cura come potevano anche di un loro congiunto malato, Pellegrino, grosso ragazzone di quarant’anni, testa pelata, sempre la stessa giacca ormai troppo lisa, pantaloni larghi e corti in maniera sbilenca sulle caviglie. Era quasi sempre solo; già lo era di se stesso, senza alcuna voce che dall’animo gli tenesse compagnia e lo facesse piangere di dolore o di gioia. L’ anziana del gruppo lo accudiva come si può accudire un maiale o una pecora. La sua unica passione erano le biglie di ferro, con cui giocava tutto il giorno. Le lanciava in alto, lasciandosele poi cadere in mano, le faceva scivolare lungo le ginocchia congiunte, le spingeva l’una contro l’altra con la punta delle dita. Le raggruppava casualmente o chissà secondo quali suoi ignoti disegni. Ne aveva di grandi, piccole e qualcuna grandissima quanto una noce. Non era cattivo, era solo gelosissimo delle sue biglie. Talvolta, se ne perdeva una quando si recava nella piazza del paese, piangeva a dirotto singhiozzando fino a inveire contro questo o quello. Era allora che interveniva il maresciallo minacciandolo di “chiuderlo”, e allora Pellegrino se la dava a gambe, barcollando goffamente, fino a ritornare sul greto del fiume dando un gran balzo dal muro dalla parte più bassa. E riprendeva a piangere finché non le buscava con un nerbo di bue sulle spalle.L’ unica a mostrare un represso disagio in tale situazione era proprio Josephine. Il fatto che fosse di modi più educati e che la sua pelle fosse più chiara, i capelli nerissimi e alquanto crespi e inoltre il fatto che trasparisse una paurosa docilità dallo sguardo malinconico probabilmente stavano ad indicare un qualche segreto nella sua condizione di vita che se da una parte potevano suggerire il sospetto di percorsi inaspettati e fortuiti che l’avevano spinta, suo malgrado, in quella situazione, dall’altra esprimevano un rifiuto totale del suo genere di vita o la denuncia silenziosa di qualche tremendo aspetto della sua sorte. Oppure la sua era solo la denuncia contro una società sorda ai diritti di una popolazione nomade non solo per tradizione ma anche per il bisogno di procurarsi i mezzi per vivere.I suoi pensieri furono interrotti da urla provenienti dalla strada. Riconobbe le grida di Pellegrino. Poggiò su di una pietra levigata i panni che stava lavando nell’acqua del fiume con le ginocchia poggiate a terra e risalì la stradina che tra rovi e cespugli menava sul muretto. Di là scorse dei  ragazzacci che stavano tirando sassi contro il grande omone che urlava, disperato, volgendo lo sguardo intorno in cerca di aiuto. Appena la videro"Sei una zingara!" le urlaroro. E rivolgendosi a Pellegrino: "Sei matto..".."Mattooooooo! " lo canzonarono.Josephine, mezza impaurita anche lei, finse di non averli visti e corse verso Pellegrino che, steso a terra, si nascondeva la testa tra le braccia, mugolando come una bestia ferita con gli occhi serrati. Lo tirò a sé nel vano tentativo di trascinarselo  dietro."Vieni... vieni..." disse, tendendogli la mano con tutte le forze per aiutarlo ad alzarsi. Ma il ragazzo era diventato immobile e pesante come una statua di marmo. Si vide disperata, anche perché uno di quei ragazzi brandendo un bastone di legno tratto da un ramo rinsecchito stava per scavalcare minacciosamente il muretto. Con tutta l’aria che aveva nei polmoni allora emise un fischio conficcando i due indici tra le labbra. Rispose un sibilo acuto come uno schiocco di frusta attraverso l’aria infuocata dal sole. I ragazzi scapparono e lei, ormai tranquilla, con una dolcezza materna sussurrò a Pellegrino:“Vuoi vedere che bella biglia ho? Tutta colorata,... l'ho trovata lungo il fiume, ieri... Vieni e te la darò...".Lui alzò gli occhi, buoni e mansueti,  la guardò e le sorrise. Si alzò e la seguì. Entrarono nella capanna. Furono avvolti dal buio in cui l’ambiente era immerso, non avendo fessure per il passaggio della luce.Pellegrino, lo sguardo inebetito, si guardò intorno, fermandosi dopo aver mosso un paio di passi con i suoi piedi scalzi, sporchi di polvere, gonfi di dolore non già per l'abitudine di non calzare scarpe, quanto per quello della sua solitudine, per il dolore dell'incomprensione da parte degli altri, per il suo essere zingaro. Ma non ne era cosciente, soffriva e basta. Il suo scarno mondo interiore era il suo unico punto di riferimento. Di altro non capiva niente.Josephine lo prese per mano: "Vieni... entra... non aver paura... qui sei al sicuro... Vuoi un po’ di acqua?"Non rispose e Josephine si chiese se mai avesse compreso. Gli lasciò la mano, prese la sedia, con un gesto lo invitò a sedersi. Gli deterse il sudore che grondava dalle gote lanuginose con una pezzuola inumidita, gli spolverò i poveri abiti mentre lui fissava l’uscio nel timore di veder arrivare i furfanti di prima. Poi, afferrò i capelli della ragazza, e reclinando la testa da un lato, senza parlare le ricordò della biglia. Allora ella prese la sfera di vetro colorato che aveva trovato il giorno prima, gliela mostrò e notò un ghigno sulla bocca dell'omone. Ma non era un ghigno cattivo. Era il suo modo di esprimere la gioia per aver soddisfatto quella che era ormai la sua ossessione, ma anche il motivo della sua greve felicità in una vita priva di senso."Prendila... è tua..." gli disse senza avvicinarsi, sperando che lo facesse lui. Pellegrino guardò la biglia, tornò a riguardare l’uscio, alla fine sorrise. Josephine sentì il cuore gonfio di gioia, gli occhi inumiditi e capì di averlo rassicurato.Gli diede la biglia e, come un giocattolo prezioso o solo desiderato, l'uomo la strinse, poi allargò le dita, la guardò e incominciò a ridere di un riso che somigliava più al verso di un animale che a quello di un uomo. Josephine lo guardò, incuriosita dal suo atteggiamento, cercando di capire che cosa potesse pensare. Sedette sullo sgabello, i gomiti poggiati sulle cosce, le mani a sorreggere e ad incorniciare il volto diafano. Le vennero in mente i versi che aveva scritto una volta sulla sabbia umida quando sognava  una bellissima storia d’amore con il fratello di Luana.“Desiderio di voli infiniti mi prende per afferrare nel cielo le ali della tua anima”.Si chiedeva se il velo sottile e pesante della solitudine un giorno o l’altro le sarebbe scivolato di dosso o era destinata a rimanerne avvolta per sempre per sostenere anche quella degli altri.Nel frattempo Pellegrino continuava a girare e rigirare tra le mani grandi e scure la sua nuova biglia, a rimirarla con occhi incantati ma assenti, astratti dalla realtà, finché, piegando in avanti  il capo, il mento quasi a toccare il petto, si addormentò. La biglia gli cadde, rotolando a terra.Quel giorno Pellegrino era più inquieto del solito. Sarà stata quell' aria tiepida di una primavera che conservava ancora i tratti di un inverno non particolarmente gelido; saranno stati gli anni accumulati sulle spalle o le occasioni perdute ancora prima di vederle, sarà stato il presentimento dell'arrivo di qualcosa di inatteso oppure quel malessere che cova senza motivo quando ci si sveglia con un senso di nulla intorno, o forse tutto questo, ma lui sentiva che qualcosa stava per succedere; e infatti qualcosa di molto strano in effetti accadde: mentre era intento a lanciare una biglia in cielo, si accorse che quella non tornava più giù."La aspetterò sino a quando si deciderà a scendere", sospirò con un fatalismo che solo uno come lui poteva capire mentre con lo sguardo smarrito, a rischio di perdere la vista, guardava in alto verso il sole, oltre le nuvole, cercando di capire dove diavolo si fosse cacciata la sua biglia.L'orchestrina dei gitani, perennemente ubriachi, intonava intanto vecchie canzoni stonando con fisarmoniche sgangherate, altri emettevano col fiato avvinazzato note gracchianti come quelle di un vecchio grammofono e Josephine saltellava a quello strano ritmo che tanti anni fa aveva cantato una sua lontana parente, sfregando i passi sulla terra.Gira e rigira, Josephine si avvicinò, danzando i suoi passi, a Pellegrino che, intento com'era a scrutare il cielo in attesa del ritorno della biglia, non si curò minimamente di lei. La giovane non gli badò, ed anticipò il suo mutismo con queste parole:“Perché continui a guardare il cielo? ma dovresti riflettere di più sul nome che porti”,e se ne andò. Pellegrino, intanto, al suono di parole di cui, data la concentrazione ad altri affari, non percepiva se non i significanti, si scosse e si mise a piangere.In alto improvvisamente le nuvole si accavallarono gonfie di pioggia,  un tuono lontano fece scappare via tutti.Non c'era più il cielo, non c'era più Josephine,e soprattutto non c'era più la biglia, cosa che lo turbava oltremodo. E soprattutto non c'era nemmeno più lui: lui non riusciva a vedere alcunché, come era avvenuto un attimo prima mentre guardava verso il sole.“Se uno non riesce a vedere una cosa” ‐pensò‐ allora vuol dire che non esiste, e se non esiste è bene che la vada a cercare da un’altra parte: magari in  qualche posto dovrà pur essere”.Così rifletteva Pellegrino, dopo essersi svegliato, reduce da un sogno così vero che ora non credeva più alla realtà che lo circondava.Decise così di mettersi in viaggio. Senza dire nulla a nessuno se ne andò.Pellegrino era sparito. Josephine era turbata, temeva per la sorte del povero ragazzotto, che sentiva fratello di sventura. Sapeva però che ciò non avrebbe comportato all'intera comunità alcun problema poiché il distacco di chicchessia, in qualunque modo avvenisse, non comportava nessun tipo di emozione. Del resto era loro tradizione che, se un figlio era intenzionato a sposarsi e quindi a costruire un nucleo familiare, per lui, con la sua nuova famiglia, non ci fosse posto e quindi dovesse andar via. Perciò Pellegrino per questo ed altri motivi non aveva lasciato nessuna scia di rimpianto e sembrava davvero inghiottito dal nulla. Ma lei no, era turbata e dispiaciuta.Si mise a camminare verso la sera che avanzava immersa nelle riflessioni silenziose di una mente intenta a pensare, riflettere, meditare, con un vento impetuoso che soffiava da nord e le trafiggeva il volto con pungenti sferzate. Ma l’aria  sottile e delicata che portava le purificava l'anima......e la faceva sentire in volo.....E così ci provava a volare con la mente in quel cielo che si tingeva sempre più di lingue violacee e nuvole gravide di pioggia.Trafelata correva sui prati aridi punteggiati di crochi, timido segnale di primavera, e pur nel silenzio si sentiva gli orecchi rimbombare di quel nulla in cui non scorgeva la sagoma della persona così pietosamente amata.Quella notte Josephine non riuscì a chiudere occhio, anche per lo strepito degli uomini che, come ogni notte,  tra bevute e suoni di fisarmoniche e violini spandevano nell’aria parole gracchianti e risate scomposte.Voltandosi e rivoltandosi sulla scalcagnata brandina pensava a Pellegrino, al suo dannato fratello e a Luana, andata sposa adolescente a un circense.Quanto diversi eppure come simili erano i loro destini. Vite minori, senza libertà, senza possibilità di progettare il futuro, ma sempre in balia del caso o dell’altrui volontà. Appunto come la sua.Un padre incline al bere, che comunicava solo a suon di percosse, una madre assente per tre quarti del giorno per lavori che non aveva mai capito bene e un fratello sbandato forse, bisognoso di affetto certamente, che aveva concluso la sua breve esistenza annegando tra i gorghi del fiume in una afosa giornata estiva.Ricordava ancora con stupore sofferto quando al mattino la madre rincasava e se ne andava a letto a dormire senza darle neppure un bacio e lei, piccola e sola, doveva sbrigare ogni cosa in casa, compreso preparare qualcosa da mangiare.Non era zingara di nascita, ma abbandonata a se stessa e, pur con una gran voglia di imparare, non frequentava una scuola e se ne stava per tutto il tempo in istrada e spesso percorreva lunghi tratti alla ricerca di grandi manifesti davanti a cui si fermava estasiata seguendo sulle immagini chissà quali voli di fantasia.Trovava un po’ più di calore nei periodi in cui, nelle vicinanze della sua casa, si accampava una strana famiglia di giostrai che era solita tornare ogni anno all’inizio dell’estate.“Siete di passaggio o rimarrete per sempre qui” chiese a Luana con manifesta speranza.“Non possiamo sostare qui per sempre, dobbiamo seguire il calendario delle feste e recarci lì dove ci chiamano o siamo accolti. Viviamo di questo, del divertimento della gente”.“Posso stare un po’ con te”, chiese timorosa. “Certo, aiutami, devo ripulire le giostre. Questa sera è festa. Ci sarà folla, incominceremo a lavorare presto. Tutto deve essere messo a posto a puntino.”Felicissima Josephine si diede a dar di gomito e quando le pulizie furono terminate se ne tornò a casa saltellando di gioia: aveva ricevuto come ricompensa da Luana la foto del fratello.Un ragazzo bello come il sole, snello, di colorito olivastro, occhi neri e fulgidi. La foto lo ritraeva insieme al nonno, che era stato anche lui giostraio, e a cui rassomigliava molto: stesso sguardo volitivo, stessi occhi penetranti. Se ne innamorò subito. Incominciò a frequentarlo e ben presto si trovò a trascorrere le sere estive con un gruppo di ragazzi più o meno della sua stessa età che vivevano in dimore provvisorie, molto al di là della sua casa. Non sapeva bene chi fossero, poco importava, erano simpatici e soprattutto allegri. Non s’avvide che tra essi c’erano anche giovani zingari, Non sapeva che stessero lì, nel paese, né da quanto tempo, né per quanto ancora. Le piaceva quella compagnia, si divertiva e rideva come non le era capitato mai durante la sua vita.“Quanto vorrei essere come loro, quanto vorrei andarmene a vivere con loro” si ripeteva spesso. Alcune volte s’inoltrò fino ai loro accampamenti e rimase a dir poco sbalordita dall’allegria che vi regnava, dal fatto che vivessero tutti insieme, che i bambini per addormentarsi passavano da queste a quelle braccia facilmente, senza pianti o strepiti. Mangiavano insieme, bivaccavano insieme la sera intorno a grandi falò cantando incomprensibili canzoni e danzando freneticamente.Sempre più spesso insieme a Luana incominciò a frequentare quei luoghi e andava concretizzandosi in lei la volontà di scappare dalla sua casa. Fu proprio dopo le ennesime percosse ricevute dal padre che rincasando, ubriaco come al solito, a sera tarda non l’aveva trovata in casa, che si decise a chiedere per così dire asilo presso una famiglia di zingari che tanto l’aveva affascinata. Sfuggire ad un padre violento era il massimo della buona sorte per lei né provava  nostalgia della madre. L’indomani mattina all’alba ci fu la festa di accoglienza con danze delle donne al suono dei violini degli uomini.Le note si diffondevano ancora nell’aria brumosa mentre poco a poco la luce diafana s’addensava nei caldi toni del rosso aurorale per poi esplodere in raggi dorati.Lei al centro, Josephine, che fin ad allora aveva avuto per nome Marta, ricevette insieme alle vesti lunghe a fiorame anche il nuovo nome, Josephine appunto, il nome che era appartenuto a una delle anziane morta in Francia, da cui gli zingari erano dovuti scappare a causa delle superstizioni che circolavano nei loro confronti, preferendo percorrere nel loro girovagare i paesi costieri del Mediterraneo. Con un groppo alla gola la giovane in veloce carrellata di memoria ripensò ai volti dei suoi familiari, non tanto a quelli dei suoi genitori, quanto a quello del vecchio nonno, e si rivide bambina condotta per mano al bar del porticciolo fluviale dove erano all’ancora le modeste imbarcazioni dei pescatori.Ma soprattutto ricordava gli occhi del nonno riempirsi di luce quando trotterellava sulle sue ginocchia, accarezzandogli la lunga barba brizzolata.Ma ormai era lì, pronta per una nuova vita. Quella stessa notte infatti fu deciso anche lo sposo per lei.Non ne fu entusiasta avendo ancora negli occhi la bella figura del fratello di Luana. Ma il timore di dover affrontare nozze frettolose nonché non desiderate fu fugato immediatamente dalla notizia che il promesso sposo sarebbe arrivato dalla Francia non prima di un anno. In realtà non si fece vedere per nulla neanche dopo.Sicché i giorni passarono tranquillamente, e l’entusiasmo non venne mai meno. Fino a tal punto era felice di quella nuova vita. Soprattutto aveva vissuto con piacere i mesi trascorsi in Spagna e spesso con i piedi nell’acqua, in riva al mare, si lasciava cullare dai ricordi del nonno, ancora una volta mentre l’accompagnava al bar del porto. E intanto il celeste del cielo le illuminava l’anima prima che attingesse il riverbero azzurro profondo delle ampie onde marine.Col tempo le malattie degli anziani, la lontananza di quelli che andavano via per spostarsi con le loro nuove famiglie in altri posti, finirono col gettarla in preda a un nuovo tipo di solitudine.Ma sapeva che Pellegrino se l’era passata peggio di lei, non era mai stato di grande aiuto per la comunità, a stento aveva ricevuto il minimo di considerazione e di affetto.Forse per questo era andato via e chissà dove.E nella sua mente la consumava come un tarlo il pensiero di lui mentre prendeva sempre più forma il timore misto a speranza che prima o poi sarebbe toccato anche a lei fuggire di lì. Ma presto, prima che arrivasse lo sposo ormai da lungo tempo promesso.L’aria fresca del mattino già spariva sotto l’avanzare della giornata ormai estiva. Un continuo sciabordare dell’acqua del fiume a ondate spezzava il fragile sonno. Decise di alzarsi e di recarsi in giro per racimolare qualcosa da mangiare in cambio di aghi affusolati già richiesti dalle donne del paese per traforare i materassi di lana.Mentre se ne andava ogni tanto le sovveniva di Pellegrino, sebbene non avesse troppe speranze di rivederlo, essendo passato ormai troppo tempo dalla sua scomparsa. Confidava solo che qualche anima buona da qualche parte lo sostenesse con un po’di cibo e un giaciglio.Bussò alla porta di un casa che dava sulla strada, appollaiata su tre gradini, dove ricordava che a Pellegrino piaceva sostare mentre lei faceva il suo solito giro. La padrona di casa aprendo l’uscio gli dava spesso del pane e qualche frutto per tenerlo buono cosicché non spaventasse i suoi bambini.La donna seppe solo allora della scomparsa dell’uomo. Al racconto non poté trattenere delle emozioni repentine.Afferrandola per un braccio espresse a Josephine il sospetto di aver avvistato Pellegrino!“Ho incontrato Peter....(così pensava si chiamasse) il lunedì di Pasqua, chiedeva l'elemosina davanti all'ingresso delle Grazie....”“Peter, mah! Forse, chissà...‐pensò dentro di sé la ragazza‐. Forse era solo un ennesimo uomo senza nome. Incontri avvenuti sempre nel silenzioso ed egoistico andare, andare verso…”Ma, tornando a Peter,“Posso dire che la cosa che mi ha colpito di più”, farfugliava agitata la donna “sono stati i suoi occhi azzurri e poi il suo sorriso..., luce di un volto che sembrava appartenere ad un passato lontano,.....poi la coperta sua compagna di viaggio, e soprattutto i suoi piedi nudi e gonfi, piedi da pellegrino....e ancora tante, tante biglie contenute in una scatolina”.“Mi ha guardato e mi ha teso la mano chiedendomi un'offerta.....mi ha parlato...mi parlava in una lingua che dapprima non capivo”. Poi ho capito, sebbene mi sembrasse uno straniero.“Continuava a ripetermi sorridendo..... dolcemente: la biglia…la grande biglia è scomparsa nel sole……ma un giorno la troverò, sì, proprio nel sole …e mai più la perderò…”.La buona donna ricordava di averlo rivisto all’uscita dalla Chiesa, sembrava stesse dormendo, il mento poggiato sul petto...“Così ho deciso di non svegliarlo...”Inutile dire che per Josephine questa notizia fu una cannonata al cuore. Chi era quell’uomo?“Venne l’autunno e con l'autunno Peter aveva cambiato il colore dei suoi occhi...... ora erano marrone....””Con l'autunno non mi ha chiesto più la carità ma lui era sempre lì sorridente, e dopo l'autunno ..... l'inverno....il freddo, i suoi piedi nudi.....”.”Lui era sempre lì alla Madonna delle Grazie che mi aspettava....sebbene non volesse più nulla da me....”Eppure era sicura che dagli altri accettasse la carità. Perfino a Natale aveva rifiutato la sua offerta, ma, alzatosi alla meglio, dopo averle regalato uno sguardo silenzioso si era incamminato oltre il sagrato.“Mi ha guardato con uno sguardo diverso dal solito, una sorta di inchino interiore.Ho percepito in lui una specie di gratitudine nei miei confronti,mi sono molto stupita di ciò....e ho provato un po' d'imbarazzo.....”Josephine ascoltava allibita: si trattava davvero di Pellegrino? Possibile che fosse stato in giro tutto quel tempo, senza che nessuno se ne fosse accorto? e poi dove trascorreva le sue notti? nessuno lo aveva riconosciuto? si era forse trasformato nel fisico da quando aveva preso ad andare ramingo?  Allora era lui quello che tutti dicevano pazzo?“Da quel giorno Peter non c'è più, è sparito.Mi ha lasciato però un grande dono: la dolcezza dell’incontro”.”Andrò a cercarlo, e insieme cercherò anche io la grande biglia ‐sospirò Josephine‐ per conoscere le risposte che da tempo aspetto. Incomincerò a percorrere la mia strada, a guardare verso il sole…..Se non troverò Pellegrino, troverò me stessa perché è lì che sta scritto con inchiostro indelebile la storia del mio cammino”.