La nostra scienziata dimenticata

È una storia che ho scoperto da poco. Che mi ha colpito il cuore.
Non ho predisposizione alla scienza, se non attraverso lo studio, alle magistrali, di chimica, fisica e quant’altro. Ovviamente, essendo nata innamorata della poesia, quelle formule composte da lettere e numeri, quei calcoli astrusi, quegli elementi schematici che formano il mondo minerale, vivente e non vivente, non rientravano nei miei orizzonti di passione. Ovviamente. Però ero affascinata dal mistero delle cellule, dalla forza delle ere geologiche, dalla potenza degli elementi della natura. E studiavo diligentemente formule e sequenze, facevo puntuali analisi al microscopio dei processi di mitosi, compilavo con solerzia disegni e relazioni ottenendo decorosi risultati nella mia carriera scolastica.
Una parola. DNA.
Vengono in mente subito misteri e thriller in stile CSI, con i cattivi inesorabilmente smascherati.
DNA.
Nel nostro fraseggio quotidiano ci piace molto assurgere al DNA come a qualcosa di potente, di magico. È sdoganata l’espressione “È nel nostro DNA” quando vogliamo dimostrare di saper fare questo e quello. Decantare il nostro talento, la nostra passione.
E ora tocca a me. Nel mio DNA scorre il sangue di 5 fratelli sacrificati per la Patria nella Grande Guerra, oltre a un altro prozio caduto al fronte. Nel mio DNA scorre la forza dei giovani garibaldini. Nel mio DNA scorre l'eroismo di un piccolo frate cappuccino questuante morto in odore di santità. Discendo da alpini, contadini, emigranti, minatori, muratori, montanari.
Che bello avere tanto DNA eroico e fiero. Tramandare. Trasmettere. Ereditare. Ho il DNA di mia madre nelle gambe tornite, negli occhi scuri e nei capelli bruni, nella tenacia verso la vita. Ho il DNA di mio padre e dei suoi avi nel naso aquilino, che emerge. O nella passione per i libri, che mio padre, seppur semplice minatore emigrante in Svizzera, già coltivava con parsimoniosa cura, risparmiando sui primi guadagni per comprarsi i primi libri.
DNA.
Quasi un nome da dea. Dico dea, perché chi l’ha scoperto, o meglio, chi ha scoperto la sua struttura, è stata una donna. Una scienziata. Di quelle incredibili. Toste. Appassionate. Una donna innamorata della scienza.
Si chiamava Rosalind Franklin. Un nome sconosciuto alla quasi totalità dell’umanità. Anche se ha scoperto la forma a elica del DNA. La sua scoperta cambiò per sempre la scienza. Eppure furono tre uomini a passare alla storia al suo posto. Vinsero il Premio Nobel per la medicina nel 1962 per gli studi e le dichiarazioni basate sulle ricerche della scienziata inglese. Vinsero grazie alle ricerche sulla struttura del DNA basate sulle immagini ottenute da Rosalind Franklin dieci anni prima. Quando Rosalind, la dottoressa Rosalind, era già morta da 4 anni. Dimenticata. Osteggiata e denigrata.
Ho scoperto la sua storia da poco, dicevo. Mi sono infiammata. Arrabbiata. Come faccio sempre davanti alla prevaricazione verso una donna quando, per passione, talento, predisposizione, in una parola “DNA”, si fa largo in un mondo di uomini. Scava la sua strada invadendo uno spazio secolarmente maschile.
Rosalind Franklin se ne andò a 38 anni, il 16 aprile 1958, vittima di un cancro alle ovaie. Probabilmente contratto per l'eccessiva esposizione alle radiazioni. Era un genio. Chissà cosa avrebbe scoperto, quali traguardi avrebbe raggiunto, se la vita le avesse concesso più opportunità.
Eppure mi dà profondo dispiacere non tanto il fatto che i suoi tre colleghi le abbiano rubato la documentazione e la ricerca quasi ultimata, tra cui la famosa fotografia denominata FOTO 51, (perchè era la cinquantunesima scattata da Rosalind e dal suo assistente) che per la prima volta mostra come è fatto il DNA.
E neppure che la chiamassero “Rosy” con accondiscendenza, come una ancella, una servetta che andava bene per lavare e sterilizzare gli strumenti.
E nemmeno che quegli stessi scienziati esternassero senza remore in pubblico le loro opinioni dicendo che il posto di una donna vera era la casa, non un freddo laboratorio. Era una zitella che non metteva in risalto le sue doti femminili. Una zitella che aveva rifiutato di considerarsi l’assistente di uno scienziato maschio.
No, non è solo per quello.
Mi fa arrabbiare, mi fa dolorosamente arrabbiare, il fatto che nessuno l’abbia difesa.
Che nessun eminente letterato o scienziato o magnate abbia preso le sue difese.
Non solo.
Perché, perché, nei decenni successivi nessun comitato scientifico internazionale, pur dopo che erano emerse lampanti le appropriazioni indebite dei suoi lavori da parte dei tre colleghi, prese la decisione di assegnarle un Premio Nobel postumo?
Perché anche oggi, nel 2024, tutti pensano a tutto, a non lasciare indietro nessuno, a non offendere alcuna o alcuno, a mettere in pratica il politicamente corretto, a non invadere la privacy, a non generalizzare con superficialità, ma NESSUNO pensa che sarebbe ora di dare alla giovane scienziata Rosalind Franklin la collocazione che merita nella Storia?
Più di mezzo secolo dopo fare mea culpa e porgere una lettera di scuse agli eredi.
Poca cosa? Sì, ma deve costare tantissimo se ancora nessuno ci ha pensato.