La pagina bianca

Nell’esperienza della scrittura letteraria, non è rara quella situazione che viene detta della pagina bianca; l’assenza, cioè, di ispirazione, di idee, di parole. È un’esperienza variabile nel tempo e, in certi momenti, angosciosa. Ettore Pergolesi, intorno alle dieci di sera, seduto dietro la scrivania della sua cameretta, stava vivendo uno di questi momenti. Gli sembrava che avesse in fondo alla mente qualcosa che premeva, che volesse prendere sostanza, uscire all’aperto, ma questo qualcosa gli appariva, ed era in realtà, informale, non identificabile e qualificabile, forse di natura erotica, senza piacere e gioia però, tendenzialmente violenta, con confusi risvolti di struggimento e di patos, in pratica, un magma senza nome, che non poteva gestire, che non poteva avviare verso una trama narrativa, una storia. Mancavano, naturalmente, i personaggi e i relativi comportamenti e, soprattutto, mancava la matrice di un qualche sentimento. Dell’intuizione lirica, che il suo vecchio professore crociano, come tutti i professori della sua giovinezza, diceva essere alla radice dell’arte, non se ne parlava proprio. Anzi, se vogliamo essere precisi, c’era, e ne avvertiva la presenza quasi fisica, un sentimento inverso, un risentimento nei confronti dell’universo mondo, ma che, negli ultimi tempi, si era incanalato e aveva preso corpo nell’avversione profonda e irreversibile per la padrona di casa, la vecchia strega, alla quale, onde procrastinare il giorno dello sfratto, aveva dato per intero l’anticipo, ricevuto per il racconto che non riusciva a scrivere. Intanto si avvicinava, senza scampo, il giorno della consegna all’editore, cioè a quella rivista letteraria, che gli permetteva la sopravvivenza, ora che aveva lasciato le Assicurazioni, perché voleva fare lo scrittore a tempo pieno.

Insomma, Ettore, intorno alle dieci di sera, si trovava in questo stato e i suoi pensieri non erano molto distanti da quelli di Raskolnikov (lo studente dostoevskiano che aveva progettato di uccidere la vecchia strozzina), quando gli sembrò che avessero bussato alla porta.

Si alzò e andò ad aprire. Niente, non c’era nessuno. “Eppure – pensò – io il campanello l’ho sentito bene.” Mentre stava per sedersi, il campanello squillò in maniera inequivocabile. “Cristo, allora non m’ero sbagliato!” Aprì di nuovo la porta e con somma meraviglia dovette costatare che non c’era anima viva. La porta di ingresso affacciava tramite una scaletta di ferro all’aperto, direttamente sulla strada e se uno avesse bussato e, poi, subito si fosse allontanato, sarebbe stato visto, non c’erano dubbi, a meno che Ettore avesse aperto la porta dopo un bel po’ di tempo, cosa che non era avvenuta, aveva aperto immediatamente dopo il trillo del campanello.

Non sapeva cosa pensare. Si mise accanto alla porta con la mano sulla maniglia, se bussavano, avrebbe aperto all’istante. Sudava freddo, ma non metteva in discussione la sua lucidità. Poteva essersi sbagliato la prima volta, ma, perdio, la seconda…


Ora il silenzio durava da una quindicina di minuti. In piedi, vicino alla porta, pronto a qualsiasi accadimento, sentiva solo i battiti accelerati del suo cuore e i rumori notturni della strada, tuttavia, lentamente, a poco a poco, si faceva strada l’idea che forse era stato vittima di una sorta di allucinazione dell’udito, un fenomeno che, certamente, andava messo in relazione al suo stato d’animo, alle sue preoccupazioni di finire sul lastrico, all’ipotesi, non peregrina, di un completo fallimento come scrittore.

Mentre questa idea, col suo piccolo bagaglio di razionalità, avanzava nella sua coscienza, parallelamente diminuiva la tensione ed era sul punto di lasciare la postazione e prepararsi una tisana che gli avrebbe favorito un bel sonno ristoratore.

“Il sonno innocente che ravviva le scomposte trame degli affanni”- Gli vennero in mente le parole di Shakespeare. Ma mentre pensava in tal guisa, il campanello squillò con un suono così netto e provocatorio, da sembrare una sfida alla quale non poteva sottrarsi. Aprì la porta e ancora una volta non c’era nessuno, né uomo, né bestia. Non si trattava di tenere a bada un affanno, come nella locuzione shakespeariana, ma bisognava trovare il modo di ridurre la paura dell’ignoto, il terrore, il rischio di infarto. Uscire di casa! Uscire da quella casa maledetta! Gli sembrò un rimedio. Prese il soprabito, quasi di corsa scese la scaletta di ferro e si trovò in istrada all’aperto. La strada era deserta. Un vento freddo di tramontana alzava le foglie morte e produceva piccoli vortici, che, stranamente, ad Ettore ricordarono certe scene di vecchi, inquietanti, film francesi. Forse proprio per delle libere associazioni in quell’ambito, gli vennero in mente i gendarmi. “E se andassi alla caserma dei Carabinieri? In fondo, sono un cittadino, pago le tasse, ho i miei diritti, loro hanno il dovere di aiutarmi!” Evidentemente era ancora sotto shock, non ragionava, non si chiedeva, per esempio, in che modo i carabinieri avrebbero potuto aiutarlo e, soprattutto, non si poneva il problema che lo avrebbero potuto prendere per pazzo. No! Andare dai carabinieri gli sembrò la cosa più giusta.

Erano passate le 11. “Ci sarà qualcuno preposto ad ascoltare la gente, a risolvere i problemi della gente!”

Si avviò a passo svelto verso il corso Tanucci, dove c’era il presidio dei Carabinieri più vicino. Il vento gli gelava il viso, lui non ci faceva caso e pensava a come avrebbe esposto quello che era accaduto. Lo avrebbe fatto con parole semplici, senza fronzoli, mirando alla chiarezza e alla necessità di un pronto intervento della Benemerita.

Non fu una cosa semplice. Dovette spiegare a un piantone per sommi capi quello che era successo, ma il piantone aveva capito che lui volesse sporgere una denuncia contro ignoti. “Io non sono venuto qui per fare una denuncia contro ignoti, ve lo ripeto, si tratta di ben altro. Non sono venuto per quello”.

“Allora perché siete venuto?”

“Io ho necessità di parlare col maresciallo, che, peraltro, è un caro amico di mio fratello”. Ettore si inventò questa amicizia di suo fratello, che, in realtà, era una semplice conoscenza di condominio, perché il carabiniere insisteva con la denuncia, se no – diceva – “se ne doveva andare a dormire”. Il cambiamento di clima, infatti, fu immediato.

“Il maresciallo non c’è. Aspettate qua, vi faccio parlare col brigadiere, che, però, adesso è fuori per servizio esterno, ma a mezzanotte arriva. Intanto accomodatevi e se volete fumare, potete fumare!”

Effettivamente il brigadiere Lo Cicero arrivò a mezzanotte, a mezzanotte e dieci, per la precisione. Il brigadiere Carmelo Lo Cicero era un bel tipo, tarchiato, coi baffoni, trasmetteva simpatia. Il piantone disse: “Il dottore qua è un intimo amico del maresciallo”

“No, non io, non ho l’onore, è mio fratello, che…” “Accomodatevi! – disse il brigadiere – In che vi posso servire?”

Ettore era un po’ imbarazzato, ma era pur sempre uno scrittore ed era in grado di fare un’esposizione precisa e chiara di quello che gli era successo. Il brigadiere lo lasciava parlare, senza interrompere, solo alla fine chiese dove si trovasse la cassetta dell’impianto elettrico. “Non so – disse Ettore – forse sotto, in cantina, è una vecchia casa…”

“Dotto’, vi siete spaventato?” “Sì, per la verità, sì!” “E avete ragione. Uno non si capacita… Tranquillizzatevi! Quello che è successo a voi è capitato anche, un mese fa, a una signora anziana, che, anche dopo che le abbiamo spiegato il fatto, non è stata bene e non dormiva la notte”. “E quale sarebbe il fatto?” “Il fatto, dotto’, è che si sono incontrati la tecnologia moderna e la testa di cazzo, scusate l’espressione, di certi ragazzacci che si vogliono divertire a spese dei cittadini per bene. Vedete, applicando un piccolo ricettore elettromagnetico sul filo del campanello, è stato possibile azionarne il funzionamento da lontano, col cellulare. La vostra abitazione è come un palcoscenico, si presta particolarmente a ricavare il divertimento. Dico questo, perché è presumibile che questi fetenti, da lontano, potevano vedervi quando aprivate la porta e vi giravate a destra e a sinistra e non vi facevate capace. Dotto’ è una ragazzata, che però va punita e, o prima o poi, li becchiamo e dovranno fare i conti con me.”

Ettore, accolse queste parole come un ristoro di cui tutto il suo organismo aveva bisogno. Dopo quello che aveva sofferto, sentiva l’impulso di baciare i baffi di Lo Cicero e abbracciarlo. “Brigadie’ – disse – voi siete un angelo. Mi avete salvato dalla paranoia, sono stato veramente male. Non so come ringraziarvi.”

“E di che mi volete ringraziare? Facciamo solo il nostro dovere. Appena li becchiamo, ve lo faremo sapere”.

Ettore, tornando a casa, si sentiva più leggero, quasi allegro. Non sempre i mali vengono per nuocere, specialmente per gli scrittori. Tutto quello che gli era capitato, dalle 10, dalle 22 in poi, conteneva il focus di un bel racconto. Non c’era eros, non c’erano elementi sociali rilevanti, non c’era necessità di parolacce in prospettiva neo-neorealista per insaporire la scrittura, ma c’era il plot. E questo era quello che gli editori massimamente raccomandavano.

Ettore Pergolesi, quella sera, praticamente, aveva risolto il problema della pagina bianca.