La panchina di Ionesco
La leggenda nacque in un pomeriggio d’estate del 1966, quando qualcuno, vedendo un uomo seduto su una panchina del parco comunale intento a correggere un manoscritto, aveva detto ad alta voce a un amico: “Guarda, quello è Eugène Ionesco!”.
La frase fu udita da un guardiano che la riferì al suo capo che la disse alla sua amante che la raccontò a un assessore che la riportò al sindaco il quale, con delibera urgente, fece mettere una bella targa sulla incolpevole panchina per rendere noto un evento che, si scoprì più tardi, non era mai avvenuto. Successive indagini, infatti, chiarirono che si era trattato di un equivoco nato da una banale somiglianza e che il grande commediografo non solo non si era mai seduto su quella panchina ma non si era mai sognato di visitare la città e tanto meno quel parco. Tuttavia, per evitare brutte figure, la giunta comunale decise di non dare alcuna notizia dell’esito delle indagini e di lasciare ai cittadini la convinzione che quella fosse proprio la panchina dove Ionesco si era seduto per correggere o completare chissà quale delle sue surreali commedie.
E’ dunque a causa di questa leggenda che, ancora oggi, chi ha la ventura di sedersi su quella panchina lo fa sempre con molta delicatezza convinto di posare il culo nello stesso posto dove lo posò l’artista per lavorare tranquillamente ad una sua commedia. Per lo stesso motivo, tutti quelli che vi si siedono per scelta, lo fanno sempre portandosi dietro un libro, una rivista o un giornale di cultura per sentirsi all’altezza. Maestri di questo spontaneo cerimoniale sono alcuni appassionati habitué che trascorrono sulla panchina ore e ore forse alla ricerca di qualche indiretta ispirazione. Tra questi, il signor Simone Fabius, ragioniere in pensione, che dalle quattro alle cinque di ogni giorno (tranne quando c’è cattivo tempo e, chissà perché, i lunedì) viene a sedersi sulla panchina portando sempre con sé un libro e il quotidiano del giorno.
Lo ha fatto anche oggi.
Sono le quattro del pomeriggio di un bel giorno di primavera. Il signor Fabius si è appena accomodato sul lato sinistro della panchina (quello dove – si dice ‐ era seduto Ionesco) e sta iniziando a leggere per la seconda volta il dramma di Samuel Beckett “Aspettando Godot”. Un signore di mezza età e di media altezza, capelli grigi e abito blu abbinati a un paio di occhiali dello stesso colore, appare sul vialetto che immette nel piccolo spiazzo e si dirige deciso verso la famigerata panchina su cui, appena giunto, si lascia cadere posando tra lui e il signor Fabius un volume malamente rilegato che aveva sottobraccio.
“Salve, signor Fabius, come sta?” dice l’uomo all’improvviso girandosi verso l’impreparato vicino.
Colto di sorpresa il signor Fabius si scuote dalla lettura e scruta l’uomo con aria interrogativa:
“Mi scusi, ci conosciamo?”
“Diciamo che io la conosco e che lei mi aspettava. Mi chiamo Marcuse, Leo Marcuse e il mio nome dovrebbe dirle qualcosa.”
“A meno che lei non sia un parente del famoso filosofo, il suo nome non mi dice assolutamente niente. Piuttosto mi dica lei come fa a sapere il mio e perché dice che la stavo aspettando.”
“Perché qualcuno mi ha parlato di lei e mi ha assicurato che oggi, a quest’ora, su questa panchina, lei mi aspettava per incontrarmi.”
“No guardi, qui si sbaglia. Io non aspettavo nessuno e tanto meno qualcuno mi ha detto che dovevo incontrarla.”
“Eppure le garantisco che non c’è alcun errore perché tutte le risposte che mi ha dato finora sono esattamente quelle previste.”
“Prevedibili, vorrà dire.” corregge il signor Fabius.
“No, no, previste… previste dal copione” precisa con un sorriso di complicità il signor Marcuse.
“Copione? Di che copione sta parlando?” ribatte sorpreso il signor Fabius.
“Del copione che stiamo recitando. Insomma questo, questo qui!” esclama il signor Marcuse prendendo in mano il volume posato sulla panchina e sventolandolo quasi davanti al viso del ragioniere.
Il signor Fabius è visibilmente combattuto tra due tentazioni: quella di allontanarsi al più presto da ‘quel matto’ e quella di saperne di più su una faccenda che non sa se considerare uno scherzo degli uomini o della sua fantasia.
Alla fine prevale la curiosità.
“Mi scusi, potrebbe spiegarsi meglio? Lei dice che lei ed io stiamo recitando un copione di qualcuno e che io ne sarei informato. E’ così?”
“Sì, – conferma il signor Marcuse – e lo dimostra il fatto che le parole che lei ha appena pronunciato coincidono perfettamente con la battuta che, secondo copione, doveva dire adesso. Così come, peraltro, coincidono quelle mie di questa risposta.”
“Vuole dire che ciò che ho detto, anzi… ciò che io e lei stiamo dicendo è scritto tutto lì… su quel volume che ha in mano?” chiede il signor Fabius con voce che comincia a tradire una certa emozione.
“Esattamente. Ne vuole la prova?”
“Certo che la voglio; anzi, la pretendo!”
Senza altri commenti il signor Marcuse prende il volume, lo sfoglia con lenta perizia fino a fermarsi su una pagina e, indicando con un dito un paio di righe, dice con tono ironico:
“Ecco, legga qua!”
Con aria scettica, il signor Fabius abbassa lo sguardo sul libro fino a leggere nitidamente queste parole scritte a macchina: “Fabius: “Vuole dire che ciò che ho detto, anzi… ciò che sto dicendo è scritto tutto lì… su quel volume che ha in mano?”. “Marcuse: Sì, e lo dimostra il fatto che…” non fa in tempo a leggere oltre che il signor Marcuse richiude con un gesto veloce il volume:
“Basta così. E’ convinto ora?”
“Ma… ma sono esattamente le parole che ho detto e quelle che lei … ma come è possibile? E’ un trucco?” esclama esterrefatto il signor Fabius.
Il signor Marcuse fa una smorfia di impazienza: “Avanti, signor Fabius, sa benissimo che qui non c’è alcun trucco e che lei e io siamo soltanto degli attori che si scambiano battute secondo un copione imparato a memoria.”
“Ma non è vero! Se così fosse, lo saprei, no? Almeno dentro di me saprei che sto recitando e avrei in testa anche le battute che dovrò dire dopo questa, e quella dopo, e le altre successive mentre, glielo assicuro, non ho la più pallida idea di quello che dirò d’ora in poi. Mi creda: io sono un ragioniere in pensione, non sono e non sono mai stato un attore nemmeno nelle recite scolastiche. Quindi come è possibile che sia come dice lei?” esclama con voce alterata il signor Fabius.
“Che vuole che le dica? Io posso solo dire quello che c’è scritto sul copione e cioè che lei potrebbe essere vittima della sindrome di Stanislavskij ed essersi calato e immedesimato a tal punto nel personaggio del ragioniere in pensione da convincersi di esserlo davvero.”
Il signor Fabius guarda esterrefatto il signor Marcuse: “Senta, mi crede se le dico che non ho capito una parola di ciò che ha detto?”
“Certo che ci credo. Come potrei non crederci se è tutto scritto qui.”
“Ah sì? – lo interrompe il signor Fabius come folgorato da un’improvvisa illuminazione ‐ vediamo allora se c’è scritto anche questa mia invenzione verbale: supercazzoladunraccontatordiballe!”
“Perfetto: è proprio quello che doveva dire a questo punto. Guardi lei stesso.” risponde con un sorriso il signor Marcuse mostrandogli una riga del copione su cui c’è scritto proprio l’inventata (si fa per dire) parola: “...supercazzoladunraccontatordiballe!”
Il signor Fabius fa una smorfia di sconforto, si alza di scatto dalla panchina e, allargando le braccia, esclama ad alta voce:
“Va bene, mi arrendo. Forse sto sognando, forse le suggestioni di questa panchina mi hanno trascinato in qualche delirante allucinazione, forse lei stesso, signor Marcuse, è un’allucinazione. Insomma non capisco ma mi adeguo e faccio finta che tutto sia reale per cui le chiedo: per che cosa, o meglio, per chi e perché stiamo recitando? Chi sta ascoltando quello che diciamo e che senso ha questo copione se tutto si riduce ad una serie di domande, di dubbi e di stupori da parte mia?”
Proprio in quel momento, una voce proveniente da un megafono dietro una siepe urla:
“Stop!…Buona la prima! Pausa di mezz’ora.”
Mentre il signor Fabius, sorpreso, gira la testa qua e là cercando di capire da quale direzione provenga la voce, il signor Marcuse tira un sospiro di sollievo e, alzandosi anche lui dalla panchina, si rivolge con un sorriso al signor Fabius: “Bèh, caro sedicente ragioniere, queste spiegazioni gliele darà direttamente il regista che sta arrivando. Io grazie al cielo, ho finito la mia parte e vorrei sgranchirmi un po’ le gambe.”
“Ehi, aspetti un momento, regista di che?” chiede turbato il signor Fabius.
“Glielo dirà lui stesso….eccolo lì.” Risponde il signor Marcuse indicando un uomo sui trent’anni vestito con una camicetta a fiori gialli e rossi, un paio di pantaloni chiari e una specie di nastro con visiera sulla fronte che sta uscendo da dietro una siepe sorridendo e, manco a dirlo, con in mano un volume appena un po’ più grande di quello del signor Marcuse.
“Salve, signor Fabius, devo farle i complimenti: una recitazione ottima e convincente ….” esordisce il giovane indicato come regista.
“Una recitaz … ehi, non scherziamo – reagisce il signor Fabius ‐ ci si mette pure lei adesso? Volete mettervi in testa una volta per tutte che non sono un attore, che non vi conosco e che non recito nessun copione malgrado che voi cerchiate di convincermi del contrario? E poi, per amor del cielo, mi vuol dire chi è lei e cosa state girando a mia insaputa là dietro visto che ha detto ‘stop, buona la prima’?”
“Bravo, molto bene… continui così, sta andando fortissimo.” si complimenta il regista.
“Come sarebbe a dire ‘sta andando fortissimo’; vuol dire che questa assurda situazione continua?” chiede preoccupato il signor Fabius.
“Certo che continua, anzi non si è mai interrotta.” precisa sornione il regista.
“Un momento ‐ interviene inaspettatamente il signor Marcuse – non vorrei contraddirla signor regista, ma per quanto riguarda me, io avrei finito. Anzi, col suo permesso, vorrei passare dal cassiere e tornarmene a casa.”
“Fermo là – lo interrompe il regista – lei non va da nessuna parte perché deve continuare il suo lavoro.”
“Guardi che lei sbaglia. Io ho finito la mia parte nel momento stesso in cui lei è apparso da dietro la siepe.”
“Ma neanche per sogno. Lei deve restare qui e continuare a recitare come sta facendo.”
Il signor Marcuse sembra spazientirsi: “Con tutto il rispetto, signor regista, io non sto recitando. Le ripeto: ho finito la mia parte con l’ultima battuta rivolta al signor Fabius, come previsto dal copione.”
“Forse dal suo, ma non dal mio al quale, peraltro, lei si sta egregiamente attenendo. Guardi qua...” ribatte il regista aprendo il volume che ha con sé e indicando con decisione alcune righe di una pagina.
Il signor Marcuse, e con lui il signor Fabius, si chinano sul libro dove leggono, quasi all’unisono: “Con tutto il rispetto, signor regista, io non sto recitando. Le ripeto: ho finito la mia parte con l’ultima battuta rivolta al signor Fabius, come previsto dal copione.”
Il signor Marcuse non riesce a trattenere un moto di stupore mentre il signor Fabius, con un ghigno di soddisfazione, gli sussurra all’orecchio: “Benvenuto nel club dei frastornati!”
“Ma non è possibile! ‐ riesce finalmente a dire il signor Marcuse – io so bene di aver finito. Sul copione si legge chiaramente che esco di scena subito dopo la sua apparizione.”
“E invece – ribatte il regista ‐ sul mio copione c’è scritto che lei è ancora qui e continua a recitare dicendo esattamente le cose che sta dicendo proprio come io dico queste per risponderle.”
Il signor Marcuse guarda smarrito il signor Fabius: “Eppure…..glielo giuro, mi creda…è terribile pensare che ciò che sto dicendo è tutto scritto lì, sul copione del regista, parola per parola, senza che io ne sappia niente…”
“E lo dice a me? – risponde con un tono che sa di rivincita il signor Fabius ‐ Adesso capisce cosa provavo io quando lei mi mostrava quel benedetto copione e cosa continuo a provare ora?”
“Basta così! ‐ interviene il regista con tono deciso – lo sapete benissimo che state recitando le parti di due che credono di non sapere nulla della situazione in cui si trovano. E’ questo che richiede lo show.”
“Lo show? Quale show?” chiede il signor Fabius.
“Il ‘surreality show’ che stiamo girando per la televisione.” risponde il regista.
“Surreality? Non credo che esista questa parola in inglese.” obbietta il signor Fabius malgrado che questa sia l’ultima delle sue preoccupazioni.
“E’ vero, – risponde il regista ‐ ma rende l’idea. E poi, cosa c’è di meglio di una parola non reale per definire uno show surreale?”
“Ecco, appunto, surreale! – esclama il signor Fabius – proprio come la situazione nella quale mi trovo e che è quella di uno che non sa e non capisce, non di uno che finge di non sapere e di non capire. E questo per me è vero al 100% e per il signor Marcuse al 50%. Insomma, signor regista, è ora di smetterla e di spiegarci finalmente il mistero di questa storia.”
Il regista sorride: “Ma è semplice, signori miei, ve l’ho già detto: si tratta di uno show, un nuovo show che registra le reazioni delle persone di fronte a situazioni del tutto surreali come quella in cui vi trovate. Solo che invece di puntare sulla spontaneità, abbiamo preferito prendere degli attori (in questo caso voi due) e puntare sulla recitazione nella recitazione. Le vostre interpretazioni hanno dimostrato, peraltro, che questa scelta è stata assolutamente azzeccata e foriera di un grosso successo dello show.”
Il signor Fabius sta per rispondere quando una voce, forte e cavernosa proveniente da una collinetta che si erge altre le siepi, urla da un megafono: “Stop! Tutto da rifare. Pausa di 10 minuti!”
“Chi ha parlato?” chiede il regista
“E lo chiede a me?” risponde il signor Marcuse
“E non certo a me.” aggiunge il signor Fabius
“Ma qualcuno ha detto: Stop, tutto da…”
“Abbiamo sentito,….tutti l’abbiamo sentito, signor regista, – lo interrompe il signor Fabius – e naturalmente questa interruzione era prevista dal copione, no?”
“Ma nemmeno per sogno. Il copione fa finire la scena proprio alla fine della mia esauriente spiegazione. Quindi questo intervento è molto strano e del tutto inatteso.”
“Vuol dire che c’è un altro copione oltre al mio e al suo?” chiede con voce affannosa il signor Marcuse.
“Se c’è – aggiunge con sarcasmo il signor Fabius – è di certo molto più voluminoso del vostro.”
“Non scherziamo, – ribatte il regista – qui c’è un mistero da chiarire.”
“Dio mio, _ esclama il signor Marcuse – e se tutti noi fossimo dentro ad un altro show? Se, senza saperlo, il surreality facesse parte di un format molto più complesso e misterioso denominato, ad esempio, irreality show di cui nessuno di noi sa niente?”
“Ah, no! – replica deciso il signor Fabius ‐ adesso ne ho abbastanza. Qui l’aggettivo surreale comincia a diventare assolutamente inadeguato, perciò rinuncio. Rinuncio al vostro surreality show e all’ipotetico irreality show; rinuncio a capire chi di voi dice il vero e chi il falso; rinuncio a conoscere il titolare della voce oltre la siepe; rinuncio alla diaria, qualora fosse prevista per la mia inconsapevole parte; rinuncio infine a questa panchina e a questo parco dove spero di non mettere più piede per tutta la mia vita. Salutatemi, se ne avrete la possibilità, il probabile grande regista dalla voce cavernosa. D’ora in poi me ne andrò al bar della piazza, seduto in mezzo a gente normale dove, in caso di necessità, potrò almeno ordinarmi un caffé. Addio!”
Ciò detto, il signor Fabius si avvia a passo lesto, senza voltarsi e a tratti quasi correndo, verso l’uscita del parco. Proprio nel momento di varcare la soglia del grande cancello sente una voce chiamarlo:
“Signor Fabius, … signor Fabius, si fermi… ci aspetti!”
Il signor Fabius si ferma, si gira e vede il signor Marcuse correre dietro di lui insieme ad una decina di persone ansanti (probabilmente le maestranze addette alle riprese dello show) guidati dal giovane regista e da un signore alto, barbuto e corpulento.
Proprio costui, appena raggiunto il signor Fabius, gli si rivolge con un sorriso: “Senta, abbiamo deciso di venire tutti via e di accompagnarla al bar della piazza a prendere un caffè. Spero che non le dispiaccia.”
“Per carità, venite pure: le piazze sono di tutti e anche i bar, se sono aperti. ‐ risponde con tono conciliante il signor Fabius – Immagino, comunque, che la vostra decisione sia dovuta soprattutto all’inquietante voce proveniente da dietro la collina…”
“Oh, no! signor Fabius, – replica con aria sornione l’omone – la voce era la mia e la ragione per cui veniamo con lei è perché, come sa, lo prevede il copione. Quello mio naturalmente”
Il signor Fabius impallidisce, pensa dapprima di urlare, poi di tacere, poi di fuggire. Comincia a correre, si blocca, poi di nuovo riparte di corsa come a cancellare un incubo o comunque a sfuggirlo con delle finte ma non così velocemente da non sentire la voce dell’uomo barbuto urlargli dietro: “Vada ...vada, signor Fabius tanto, ovunque andrà e qualunque cosa farà, sarà perché è scritto qui, tutto quiii…..sul copioneeee!”.