La Prediletta

In un tempo non sospetto, nella città di An Najaf, un rispettabile fornaio e la sua sposa diedero alla luce una figlia. Felici, i due sposi donarono a quella perla un nome che col tempo si rivelò un inganno.
Al sesto mese la piccola aprì gli occhi al mondo. Nessuno spettacolo come quello deluse e terrificò mai due anime semplici come le loro; la bambina non aveva iridi. Il suoi occhi erano nudi… vuoti. Il padre, anima pia e devota ‐ e quindi resa debole dall’amore ‐, nonostante fosse invaso dal dolore non si fece abbattere da quello spettacolo. Strinse tra le mani candide di farina quel fiore sterile e, asciugandosi le lacrime, poggiò sorridendo la sua fronte su quello della bambina. La madre, donna fiera, forte e senza debolezze, mai accettò quell’albero senza frutti che aveva avuto il disonore di far germogliare nelle sue viscere. Dimenticò quell’essere senza un volto come ci si dimentica di una malattia ormai guarita; ma quella cicatrice abominevole era lì, nonostante tutto, a ricordarle tutta la sua vergogna. Da allora il ventre della donna si prosciugò. Quell’anima intransigente decise irrevocabilmente per il suo corpo ancora carico di fertilità. 
Nessuno dei due genitori però, certi della cecità della figlia, si adoperarono ad educare quegli occhi spaventosi alla vista. Ma la piccola vedeva. Miracolosamente quelle due stelle glauche e vuote avevano uno sguardo.
Uno zio, ancora celibe ‐ un mercante che aveva visto sia l’oriente che l’occidente, e che conosceva tutte le avversità con le quali Allah arricchisce il mondo – attraversò da sinistra a destra la sua mano sulla culla di quel viso che non lasciava intravedere un’anima e si accorse che quello sguardo nudo seguiva il suo palmo. Lo stupore regnò in quella casa abbandonata da Dio. Si gridò al miracolo e quel giubilo si effondeva nonostante il terribile silenzio di una madre disinteressata.
An Najaf divenne la città del miracolo, la notizia corse lungo tutte le rive dell’Eufrate. Il padre e lo zio educarono da soli quella figlia, le insegnarono a leggere e ad imparare a memoria i versetti del Corano, ed una pia vedova le insegnò a lavorar da sarta… . Intanto la fanciulla cresceva, i suoi capelli neri facevano da contrasto ad una pelle bianca e benedetta. E ogni venerdì, da buona fedele, copriva la dolcezza del suo volto con un velo di seta di Damasco; un velo azzurro che faceva sembrare quei terribili occhi due nuvole. Quella bambina divenne una giovane donna, bella… tanto bella da esser chiamata la Diletta del Profeta, sua sposa. Tutti in città onoravano quel prodigio che univa insieme abominio e bellezza. Tutti cantavano e celebravano le grazie di quella ragazza toccata miracolosamente da Allah nella sua sventura. Ma nessuno poteva reggere il suo sguardo, era impossibile… quelle pupille bianche sconcertavano tutti, tranne il padre e lo zio. La Diletta del Profeta imparò così a chiudere gli occhi e a sorridere ogniqualvolta le si rivolgeva la parola e, scusandosi per il gesto, diceva: “io rinuncio al mio sguardo affinché il vostro possa vedermi.” La giovane sarta cresceva saggia e onorata, ma sola, costretta a chiudere gli occhi al mondo per esser vista senza orrore; ma nulla trapelava dal suo volto, pieno di sorrisi e carico di una bellezza senza paragoni.
Una calda mattina d’estate i quattro figli del governatore scesero lungo le rive del fiume a giocare… da lontano videro un corpo disteso, ne riconobbero il candore e la bellezza delle forme, era la Diletta che riposava su un cuscino di petali rose carminio, quegli innocenti spettatori subito pensarono che il Profeta l’avesse trasportata lì per non farle patire il caldo. I quattro bambini corsero in città… e gridando al miracolo chiamarono a raccolta tutta la popolazione. Si bruciò incenso nella Moschea, si spanderono oli profumati davanti all’uscio della dimora della “benedetta sposa del Profeta”.  Tutta la città raggiunse la riva dell’Eufrate per celebrarne il miracoloso risveglio. Ma avvicinandosi alla donna si resero conto che ella non riposava su un cuscino di petali, ma che il suo capo era avvolto in una pozza di sangue. La girarono e scoprirono che non aveva più gli occhi. Al posto di quelle nuvole ora c’erano due abissi oscuri, atroci e vuoti, scavati con una ferocia inaudita. La donna, forte di una disperazione efferata e silenziosa, si era strappata gli occhi durante la notte e li aveva gettati nel fiume. Tutta la città si allontanò dal quel corpo… maledicendo la giovane per la grazia che non era riuscita a sopportare.
Questa storia mi è stata raccontata in una povera casa di Bassora, la figura che me la narrò mi accolse recitando questi versi della Sura An‐Nazi’at: “Quel giorno tremeranno i cuori e saranno abbassati gli sguardi”. Quella sagoma, – antica e sottile come la sabbia del deserto ‐ sempre rivolta al muro, contava i giorni raccogliendo grani di pepe in due ciotole di coccio, poste una alla sua destra e una alla sua sinistra, ed ogni volta che narra questa storia affonda le sue mani in quei due vasi stringendo e sbriciolando quei grani di pepe.
Il suo nome è Munira – colei che sparge luce – ed ha per marito un fornaio, come suo padre, e la sua splendida figlia è un’abile sarta, come lo era stata lei.