La profezia di Einstein - Parte I

Giaffa, 15 aprile 1920

Poste, Telegrafi e Telefoni della Palestina

Avviso di chiamata

A: Yakov Chomsky, Derech Rabbi Bonfil 
N° 34, Giaffa

Da: Klara Klein, Gerusalemme

Per le ore: Subito

In altre circostanze, Yakov si sarebbe
forse chiesto se quella ragazza che spendeva allegramente i soldi del telefono
non fosse troppo invadente. Quella chiamata invece gli fece solo piacere. Si
precipitò fuori e, per far prima, si fece portare in canna sulla bicicletta del
fattorino. Davanti alla porta dell’ufficio postale balzò a terra e si presentò
al bancone, mostrando l’avviso.

“Alla
due” rispose l’impiegata accennando a una cabina libera e iniziando il
collegamento con la collega di Gerusalemme dove Klara era in attesa.

Non
era mai stata così nervosa. Tirò un sospiro di sollievo quando la telefonista
le indicò una delle cabine libere. A un suo cenno, portò il ricevitore
all’orecchio e sentì Yakov che le chiedeva del viaggio.

La
sua voce calda la fece subito stare meglio.  Glielo disse, avvicinandosi al microfono. Ma
quello che aggiunse non era ciò che Yakov si sarebbe aspettato. Si capiva che
era sconvolta, non si capiva perché.

“Non
posso parlarne al telefono. Ti prego. Dobbiamo incontrarci subito. O qui o lì.
Ti prego!”

La
perplessità all’altro capo del telefono era tangibile.

“Non
riesco a capire” rispose Yakov titubante. “Dimmi qualcosa di più. Non stai
bene?”

“Yakov,
è un fatto politico… è un fatto militare… è gravissimo! Dobbiamo fare
qualcosa.”

“Ma
tu sei coinvolta?”

“Per
ora no, ma non posso starne fuori.”

“Raddoppia?”
la voce della centralinista si inserì per annunciare che il tempo era scaduto e
la telefonata sarebbe costata di più.

“Si”
rispose Klara, mentre quell’intervento ricordò ad entrambi l’opportunità di non
dire nulla che non volessero fosse ascoltato da altri.

“Yakov,
ti prego, vieni qui subito” lo implorò.

L’angoscia
era reale e sincera. Non la supplica di una squilibrata. La sofferenza di Klara
gli era insopportabile, soprattutto se aveva il potere di alleviarla.

“Vengo.
Stai tranquilla. Prenderò il primo treno della mattina, quello delle cinque” la
rassicurò.

“Sarò
in stazione ad aspettarti” promise Klara

“Aspettami
sotto casa” suggerì Yakov, ripetendo per sicurezza l’indirizzo che lei gli
aveva dato.

“È
meglio di no. Qualcuno potrebbe vederci. Verrò in stazione” insistette Klara.

“Ti
amo” disse Yakov

“Anch’io”
rispose Klara augurandogli la buona notte.

Klara
rientrò a casa, stanca e senza appetito. I genitori erano a tavola e la
guardarono con aria di rimprovero. Klara li salutò freddamente e augurò la
buonanotte senza aggiungere altro. Andò a letto senza cenare.

Ormai
conosceva bene la strada per la stazione. Avrebbe dovuto alzarsi molto presto.
Sarebbe uscita ancora al buio, poco prima dell’alba, ma sapeva che le strade si
sarebbero presto riempite di gente.

Aveva
davanti a sé una notte breve e una giornata impegnativa. Dormì poco e male, un
sonno agitato e senza sogni, rivoltolandosi nel letto. Quando la sveglia suonò,
aveva la sensazione di non avere dormito affatto. Si vestì rapidamente senza
fare rumore e, altrettanto silenziosamente, uscì in strada e si incamminò lungo
il marciapiede alla debole luce dei lampioni della Via dei Profeti.

Con
il capo coperto da un ampio foulard, proseguì senza esitare fino alla stazione,
mentre il primo sole illuminava i tetti e poi le strade. C’erano solo arabi in
giro. Erano appena usciti dalle moschee e si accingevano ad iniziare la
giornata.

Nella
piccola sala d’attesa era sola. Si aggiustò il disegno delle labbra con l’aiuto
del piccolo specchietto che teneva sempre in borsa. Il treno non era ancora
stato annunciato. Quando arrivò, Yakov fu l’unico a scendere. Si fecero
incontro con passo veloce e si abbracciarono.

Yakov
si accorse che tra le sue braccia l’ansia di Klara si stava sciogliendo. “Vieni
che ti tolgo il rossetto” disse lei dopo aver estratto dalla borsa un piccolo
fazzoletto ricamato. Ora sorrideva. Yakov era preoccupato, ma non volle
incalzarla con le domande. La prese per mano e la condusse nuovamente verso la
sala d’attesa, il posto più confortevole che si potesse trovare nelle
vicinanze.

“Sono
felice che tu sia qui. Quello che ho sentito ieri mi sembra ancora incredibile”
esordì Klara mentre prendevano posto, iniziando a riferirgli quel colloquio
parola per parola.

Erano
seduti uno di fronte all’altra ed erano soli. Yakov ascoltò in silenzio. Alla
fine rimase ancora un po’ a riflettere, continuando a stringerle le mani,
finché Klara lo scosse dai suoi pensieri: “Non possiamo permetterlo!”

“Dobbiamo
impedirlo” affermò Yakov con decisione.

“E
come possiamo fare?”

“Non
lo so ancora, Klara.”

“Devi
dirmelo. Sei tu l’uomo” disse Klara toccandogli la fronte con un dito,
delicatamente.

“Non
è il momento di scherzare” la rimproverò Yakov.

“Possiamo
denunciarli agli inglesi” disse la ragazza, pur consapevole dell’ingenuità
della proposta.

“Gli
inglesi non farebbero niente. Proprio niente” affermò Yakov con sicurezza.

“Gli
inglesi non potranno accettare questa situazione” ribatté Klara, ma senza
convinzione.

“Ti
sbagli, Klara. Gli inglesi devono salvarsi la faccia. Si limitano a fornire
pistole e fucili. Ma saranno ben contenti di sapere che i loro amici hanno
anche l’esplosivo”

“Allora
cosa possiamo fare?”

“Avrei
un’idea, ma dobbiamo agire noi stessi, tu ed io. Non possiamo fidarci di
nessuno. Ed è molto molto pericoloso” continuò Yakov, scartando la proposta di
Klara.

“Io
sono pronta. Dimmi cosa stai pensando.”

Odessa,
1910

1° maggio del calendario
gregoriano

23 di Nissan del lunario
ebraico

18 aprile del calendario
giuliano, Pasqua Ortodossa

Come tutti gli anni a Pasqua Anton Korolenko,
manovratore, era in chiesa per la Messa del mattino. Accanto a lui la moglie, con
la spilla d’oro appuntata sull’abito. In braccio il piccolo Vitalij, incantato dalle
musiche, dalle luci, dallo splendore della festa.

Le Ferrovie del Sud avevano costruito a Odessa
due grandi officine di manutenzione. Quei ferrovieri godevano di molti
privilegi: meno di sessanta ore di lavoro alla settimana, cure mediche
gratuite, stabilimento balneare riservato. Potevano addirittura mettere da
parte qualche risparmio.

Questo relativo benessere si rifletteva nelle
opinioni politiche di Anton che odiava i monarchici ma diffidava dei
rivoluzionari. Se tutti si fossero impegnati onestamente nel loro lavoro, il “progresso”
avrebbe portato con sé una pacifica transizione alla repubblica, la
distribuzione delle terre ai contadini, la scuola obbligatoria per tutti, la
conquista delle libertà democratiche, il benessere a ciascuno secondo le
proprie capacità.

Per ora i Korolenko abitavano nelle case della
ferrovia. Pagavano un affitto poco più che simbolico. Quelle case però erano
miseramente strette tra le fabbriche e gli ultimi caseggiati di Perèsyp, il
nuovo distretto periferico affollato di ebrei. Il più grande desiderio di Anton
era una piccola casetta tutta per sé. L’esempio dei suoi compagni di lavoro più
anziani era lì a dimostrare che quel progetto poteva realizzarsi.

Dai suoi sogni lo scosse la moglie
scuotendogli il braccio. Fu lei la prima a notare il brusio tra la folla in
uscita dalla chiesa e a richiamarlo alla realtà con voce preoccupata.

Anton volse lo sguardo e si lasciò sfuggire
una esclamazione volgare: “Quello è un capo delle Centurie Nere” disse in tono
sprezzante, fissando un giovane dai capelli cortissimi, senza barba né baffi:
“Stanno preparando un pogrom.”

 “Avremmo
dovuto capirlo subito” sussurrò al compagno che gli si era avvicinato. Il Pope aveva
inveito contro il popolo deicida come non faceva da anni.

“Andiamo?” 
gli chiese il compagno.

“Andiamo” rispose Anton.

Anton non aveva nulla né contro né a favore
degli ebrei e non avrebbe voluto immischiarsi. Odiava però quelle bande
reazionarie e i pogrom ripugnavano
alla sua coscienza democratica. Senza partecipare allo scontro fisico avrebbe
fatto il possibile per ridurre i danni.

“Andate a casa” disse alla moglie, consegnandole
il bambino che aveva ancora in braccio “per voi non c’è pericolo, ma è meglio che
non stiate tanto in giro”. I Centurioni avrebbero prima portato le loro bande a
ubriacarsi. Lui e i suoi compagni sarebbero andati a prendere le proprie icone.

A casa di Anton, i pope non erano benvoluti, ma anche lì in un angolo del soggiorno
pendeva una icona. Le si accendeva un cero davanti alla vigilia delle feste
comandate. Oggi quell’oggetto avrebbe finalmente potuto rendersi utile.

Si schierarono così, Anton e i suoi compagni:
ciascuno reggendo una icona davanti a uno dei caseggiati ebraici di Perèsyp,
per segnalare che lì abitavano solo cristiani. Passasse oltre, quella feccia
umana, andassero a smaltire la sbornia altrove.

In un’epoca in cui la lotta politica reclamava
vite umane, Anton, modesto eroe democratico, non rischiava molto con questa
azione. Ma intanto aveva lasciato la moglie in trepida attesa e nulla ne
avrebbe ricavato, se non la soddisfazione di avere un po’ rovinato i piani di
quelle odiose bande reazionarie.

Gli ebrei di Odessa avevano subìto il grande pogrom del 1905 e quelli dei due anni
successivi. Fu allora che ebbe inizio il grande esodo verso l’America. Masse di
profughi miseri e malnutriti iniziarono a stabilirsi nelle città più
importanti, sempre tenuti a distanza dai loro correligionari mitteleuropei che,
partiti prima e benestanti all’origine, avevano già raggiunto posizioni di
prestigio, ed erano ormai bene inseriti nella società locale.

Questo processo aveva però solo sfiorato gli
abitanti della zona di Perèsyp. Da quei pogrom
infatti erano usciti quasi indenni e da allora avevano vissuto abbastanza
tranquillamente.

La settimana prima, le famiglie ebraiche si
erano riunite per il Seder. Ora, al
termine della settimana di Pesach, si stavano preparando a riprendere
pienamente l’attività.

Il caseggiato al numero undici di Via Odaria,
a Perèsyp, comprendeva tre piccole costruzioni. Lì vivevano sette famiglie,
poco più di trenta persone inclusi vecchi e bambini, che frequentavano la
sinagoga del quartiere. Il proprietario del caseggiato era uno shochèt, un macellaio rituale,  che
possedeva anche la propria bottega di carni e pollame. Tra gli affitti e la
rendita del commercio, poteva considerarsi più che benestante e infatti viveva in
centro e frequentava la lussuosa sinagoga che i macellai si erano costruiti in
Via Malaya Arnautskaya. In una di quelle case abitava sua figlia con il marito
e i bambini. 

Uno degli inquilini più rispettati era Hermann
Blumenfeld, un piccolo negoziante, la cui bottega era situata proprio
all’angolo. Poi c’era Joshua Rawnitzki, l’assistente di un merciaio, con la
moglie e quattro figli.

Mikhail Chomsky era un ragioniere. Teneva in
ordine la contabilità di alcuni commercianti. Per questo lavoro più prestigioso
veniva pagato a prestazione e così guadagnava quanto Joshua o poco più e non
mancava di scherzarci su amaramente. Sua moglie Sonia gli aveva dato un figlio,
Yakov, ma dopo questo primogenito nessuna delle gravidanze successive era
andata a buon fine.

Gli altri abitanti erano Solomon Ben Abraham
Beim, commesso in un negozio, con moglie e tre figli; Isaac Andreyevich
Chatzkin, che non era sposato e aveva una bottega di falegname dove impiegava
tre assistenti; e infine Sarah Godovich, una vedova che gestiva un banchetto di
frutta e verdura al mercato: non al mercato vecchio dalle parti della stazione,
ma al nuovo mercato, più vicino, in Via Torgovaya.

Nessuno di quegli ebrei era benestante,
nessuno eccessivamente povero. Gli ebrei poveri abitavano più in là. Il
proletariato ebraico abitava vicino alle fabbriche. Solo nella Manifattura
Tabacchi erano più di duecento gli operai ebrei: quasi la maggioranza.

Quegli ebrei invece che passavano il tempo
immersi nello studio del Talmud, lasciando che la moglie si occupasse di
allevare otto o dieci figli vestiti di stracci e affamati, quelli vivevano
nelle zone più vecchie di Odessa, non a Perèsyp: molti anche nella Moldavanka,
fianco a fianco con altri ebrei malavitosi, ladri e protettori.

Gli abitanti di Via Odaria vivevano tranquilli
tra ucraini, russi e greci e sicuramente bisticciavano di più tra di loro che
non con i loro vicini, ai quali vendevano merci e servizi conservando rapporti
di buon vicinato.

Fino alla domenica della Pasqua Ortodossa del
1910.

Verso le dieci di mattina era venuto un poliziotto
ad avvisarli. Era un poliziotto ben noto nel quartiere, che diceva di essere umanamente
preoccupato, e forse veramente lo era, per la sorte degli ebrei.

Questo Sergej consigliò loro di chiudersi in
casa e di non farsi vedere in strada. Gli dettero ascolto. Si barricarono
dietro a porte e cancelli. Chiusero finestre e persiane. La piazza antistante
fu presto avvolta nel silenzio, come trattenesse il respiro nell’attesa
angosciosa di un male terribile e ineluttabile.

Intanto erano arrivati Anton e i suoi
compagni, ma erano troppo pochi. Alcuni caseggiati furono protetti dalle icone.
Altri, tra cui Via Odaria 11, restarono sguarniti.

La folla arrivò protetta da due pattuglie di
soldati. I soldati erano ufficialmente in servizio di ordine pubblico, ma non
fecero nulla. Non potevano intervenire perché “non avevano ordini”.

Una trentina di persone si portò davanti alla
bottega dei vini. Alcuni entrarono, gli altri restarono fuori in attesa,
minacciosi. “Trenta rubli! Trenta rubli o sei morto!” urlarono al proprietario
ebreo che, dopo averli consegnati, si nascose comunque alla vista degli
aggressori abbassandosi dietro al banco, mentre le botti venivano rapidamente
scolate.

L’alcool eliminò le ultime barriere. Gli
organizzatori occulti ebbero buon gioco nell’evocare la bestialità che covava
sotto il sottile strato di apparente civilizzazione mostrato poco prima in
chiesa.

Giovani e meno giovani, uomini e qualche
donna, qualcuno con lo sguardo allucinato, la folla tutta era ormai posseduta
da istinti selvaggi e si abbandonò senza freni alla violenza più gratuita e
odiosa. Tra le urla di tutti, il grido di alcuni “A morte gli ebrei!” spiccava
chiaro e sonante ed evocava risposta “A morte! A morte!”

Il caseggiato di Via Odaria 11 divenne il
principale bersaglio. Cominciarono dalle cose e in pochi minuti la piazza fu
ricoperta di frammenti di vetro, pezzi di mobili, detriti di ogni genere, cuscini
e materassi in brandelli, piume. 

Mikhail, con la moglie Sonia e il figlio
Yakov, erano appena tornati e non avevano fatto in tempo a rifugiarsi in casa.
Si nascosero in un capanno nel cortile. La porta non si poteva chiudere
dall’interno e comunque tutta la costruzione era poco più resistente di una
scatola di cartone. L’unica speranza era che non li scoprissero.

La folla era sempre più eccitata. Ormai per
scaldare gli animi non c’era più bisogno di quegli agitatori di professione che
vi si erano mescolati all’inizio. Le due pattuglie di soldati stazionavano
passivamente a nord e a sud della piazza, sempre “in attesa di ordini”. Le
finestre erano tutte distrutte. Le stufe venivano portate in piazza. Le pagine
dei libri sparse ovunque.

E in mezzo alle grida di terrore si risvegliò
improvvisa la sete di sangue.

Gli ebrei cercarono scampo, correndo avanti e
indietro come topi in trappola, inseguiti dalle grida degli aggressori. Un
gruppo di assalitori consentì a qualcuno una via di scampo: partecipavano al
pogrom per il piacere di esserci, di distruggere, di saccheggiare, non di
uccidere. Ma i fortunati furono pochi. Eliezer il vetraio cercò di fuggire
fuori dal caseggiato e fu accoltellato sul portone. Un russo dette un calcio al
gabbiotto nel cortile, scoprì gli ebrei nascosti, afferrò Mikhail e lo trascinò
fuori. Sonia e Yakov lo trattennero finché poterono, poi Sonia lo lasciò
andare. I suoi occhi incrociarono gli occhi neri del russo che fiammeggiavano,
iniettati di sangue, sopra la barba ispida.

E il russo cedette a quello sguardo
supplichevole.

Forse nei giorni successivi si pentì della
violenza commessa. O forse si pentì di questo momento di debolezza. Ma fu
inutile. In due presero il suo posto e percossero Mikhail sotto gli occhi affranti
della moglie e nonostante la coraggiosa, disperata e inutile difesa tentata dal
figlio, bloccato da altri due energumeni e costretto a terra, impotente di
fronte al martirio del padre.

A questo punto si sparse la voce che “gli
ordini” attesi erano arrivati e i soldati sarebbero intervenuti per ristabilire
la quiete. I soldati non dovettero far altro che annunciare l’ordine di
ritirarsi. Non fu necessario neanche sparare un colpo in aria. Mazze e bastoni
sparirono rapidamente, raccolte dagli stessi agitatori che le avevano
distribuite al termine della messa.

Anton e i suoi amici lasciarono le loro
postazioni all’ingresso dei caseggiati che avevano protetto e si unirono agli ebrei
giunti dalle strade vicine per prestare soccorso. Eliezer fu portato all’ospedale
ebraico in Via Myasoedovskaya e medicato. La sua ferita non era grave. Mikhail
era ancora vivo. Si risvegliò e chiese acqua. Gli dettero da bere e cercarono
di trasferirlo su una lettiga per il trasporto all’ospedale. Spirò tra le
braccia dei soccorritori.

Furono tanto efficienti i soldati “in servizio
di ordine pubblico” che la sera stessa notificarono agli ebrei l’ordine della
municipalità di sgombrare la piazza dalle macerie e di riparare immediatamente
le loro case, a pena di una multa di tre rubli per finestra.

Il funerale di Mikhail fu celebrato il giorno
dopo. Non c’era più posto nel vecchio cimitero ebraico, in centro. Lo
seppellirono nel cimitero nuovo, nel distretto di Lustdorf, vicino alle
trecento vittime del pogrom del 1905.

“Come faremo adesso?” chiese Yakov alla madre
uscendo dal cimitero. Gli ebrei di Odessa parlavano generalmente in russo con
gli ucraini, e in yiddish tra di loro. Da un paio d’anni però, Yakov aveva
preso il vezzo di chiamare la madre ima,
in ebraico.

“Non parliamone ora, Yakov. Lasciamo passare
questi giorni” rispose Sonia, dispiaciuta anche perché non riusciva ad essere
rassicurante come avrebbe voluto.

Quando rientrarono in casa, erano accompagnati
da una folla di  parenti e amici. Nei giorni
successivi i vicini aiutarono a rimettere in ordine la casa dei Chomsky e se ne
fecero carico. Recuperarono mobili usati e biancheria. Trovarono anche un
grande specchio che fu subito coperto con un lenzuolo bianco per i primi sette
giorni di lutto stretto.

Al ritorno dal cimitero, si lavarono le mani,
accesero il lume che avrebbe brillato per sette giorni e si sedettero su due
bassi sgabelli. Il profumo dei cibi freschi e dei dolci portati dagli amici li
rincuorò, non perché avessero appetito, ma per l’affetto da cui si sentirono
circondati. 

Ogni tanto di notte si sentiva il debole
pianto di Sonia. Yakov invece non aveva pianto e non piangeva. Dolente
nell’anima e nel corpo per i colpi ricevuti, si agitava scosso da scatti
involontari delle braccia e delle gambe. Ma non piangeva. Solo al momento della
sepoltura, quando per primo tra i presenti aveva gettato le tre rituali
manciate di terra sulla tomba del padre, si era sentito sopraffare dalla
commozione e non era riuscito a controllare le lacrime.

Suo padre aveva accettato di iscriverlo a una
scuola moderna e se ne mostrava orgoglioso (anche se non perdeva occasione per
lamentarsi degli insegnanti come Chaìm Biàlik[1],  che facevano parlare i loro allievi
in ebraico invece che in yiddish). Tra un anno, finita la scuola, gli avrebbe quasi
sicuramente consentito di andare all’Università. Ora invece il progetto doveva
essere cancellato e a questo rimpianto, alla preoccupazione e all’angoscia del
sentirsi senza protezione, si aggiungeva il senso di responsabilità verso la
mamma, ormai sola.

Voleva vendetta. Ma contro chi? Il
governatore? Il ministro? Il famigerato Viacheslav Plehve, il ministro dello
zar che aveva organizzato il terribile pogrom
di Kishinev, era stato ucciso da una bomba un paio di anni dopo. Ecco. Lui
avrebbe fatto lo stesso. Non solo: avrebbe anche ucciso lo zar. Accarezzando
questa idea assurda si addormentava pensando a come avrebbe sparato allo zar,
alla zarina, a Rasputin. Si, anche questo verme era responsabile della morte di
suo padre e ne avrebbe subito le conseguenze. Così si addormentava, inseguendo
fantasie infantili e trovandovi consolazione.

Poi, al termine della prima settimana, giunse
il momento di riprendere in parte la vita normale, osservando solo il mezzo lutto
per il resto del mese.

“Come faremo adesso?”

“Sarah ha bisogno di aiuto al mercato. Non
guadagnerò molto, ma almeno avremo da mangiare. Tu piuttosto dovrai farti
forza. Ormai sei  capofamiglia.”

Yakov finora frequentava il Primo Collegio
Ebraico, all’angolo tra via Richelevskaya e via Tritskaya. La maggior parte
delle scuole ebraiche di Odessa erano scuole religiose e non vi si insegnavano
materie secolari. In questo collegio invece i programmi comprendevano anche lo
studio di russo e tedesco, matematica e biologia, storia e geografia,
computisteria e diritto.

“Cercherò un lavoro”

“Ti dispiace molto?”

A Yakov non dispiaceva cominciare a lavorare.
Lo addolorava separarsi dai compagni di scuola. A Sonia si strinsero gli occhi.
Yakov rifletté un momento, poi continuò: “In due o tre anni prenderò il diploma
come privatista”

“È un peccato che tu non sia già diplomato.
Avresti potuto continuare a lavorare con i clienti di papà.” Il suo grande
desiderio sarebbe stato che Yakov potesse continuare gli studi all’Università a
Kiev e magari diventare medico, ma se questo era quasi impensabile prima, ora
era del tutto impossibile.

“Andrò a cercare un lavoro al porto. Lì c’è
sempre bisogno di braccia.”

Cercò di dissuaderlo. Ne apprezzava la buona
volontà, ma se avesse cominciato a fare il facchino avrebbe fatto il facchino
per tutta la vita. Non era questa la strada da intraprendere.

“Non voglio perdere giorni andando in giro a
cercar lavoro. Al porto c’è sempre da fare.”

“Ma non occorre che tu cominci a lavorare
subito. Tuo papà ci ha lasciato qualche risparmio. Con un po’ di apprendistato,
ci sono tanti lavori che potresti fare qui vicino a casa.”

“Ho quasi diciassette anni. Voglio lavorare
con le mie braccia subito. E poi voglio allontanarmi da qui, almeno durante il
giorno, almeno in questi giorni.”

Davanti all’insistenza del figlio Sonia
acconsentì: “Per me è una stupidaggine – ribadì – ma non ti può far male. Ti
preparerò il mangiare cashèr da
portarti dietro ogni mattina.”

Poi, per la prima volta, affrontarono insieme
l’argomento del pogrom: perché era
successo, come era possibile che esistesse tanta crudeltà?

“Certi ucraini sono delle bestie. Papà mi
aveva parlato tante volte del grande pogrom
di cinque anni fa e poi me lo ricordo anch’io. Perèsyp era stata risparmiata solo
per caso, diceva papà. Lui comunque dava la colpa del pogrom al governo, che aveva perso la guerra con il Giappone e
aveva bisogno di un capro espiatorio per far sfogare la gente.”

“Papà era sempre così. Invece che dare la colpa
alle persone dava la colpa al governo. Adesso non c’entra il Giappone, eppure
lo hanno ucciso. Perché odiano gli ebrei. Perché sono cristiani. Gli ebrei
hanno sempre sofferto da quando sono stati cacciati dalla terra d’Israele”.

In parte pensava così anche Yakov, ma gli
sembrava di dover cercare anche un’altra spiegazione. Un gruppo di ebrei di Perèsyp
si era recato in delegazione a portare i ringraziamenti della comunità ad Anton
e ai suoi compagni che si erano esposti al pericolo per proteggerli. Yakov
voleva capire, voleva risposta a una domanda che lo tormentava: perché di quei
cristiani qualcuno li aveva attaccati con i bastoni e qualcuno invece li aveva
difesi con le icone?

“La gente soffre. Lavorano come dei dannati e
non guadagnano abbastanza per vivere. Quelli che erano servi della gleba fino a
pochi anni fa, il governo li tiene ignoranti, li usa come carne da macello e
usa noi ebrei come bersaglio della loro rabbia.”

...Continua