La rosa che non colsi
In una stanza immersa nell'oscurità, nubi plumbee pendevano dal soffitto come lumi spenti.
Non erano altro che un grumo di pensieri rifiutati da chi non riusciva a comprenderne l’essenza.
M’avventurai allora fuori di casa, iniziando a trascinarmi lungo il greto d’un fiume di cui ignoravo il nome. Le sue acque verdastre mi accompagnavano, producendo un tintinnio argentino carico di musicalità. Da lontano era possibile scorgere il campanile svettante d’una chiesetta, mentre si piantava nel cuore etereo del cielo invernale. La ferita iniziò a sanguinare d’un sangue candido, lieve, quasi fosse una pioggia d’ovatta in fiocchi cristallini. Il corso d’acqua risplendeva sotto i primi raggi solari, lambendo le mie scarpe, ansando tra pietre molate dalla perpetua carezza dei flutti. Mi vidi riflesso in quelle onde tumultuose e realizzai di vivere un sogno: avevo nuovamente smarrito il mio sole e rincorrevo chi me lo aveva sottratto...
Il suono delle campane mi ricordò che era domenica. Il messaggio proveniva dalle torri consacrate, squillante come un salvadanaio mezzo vuoto, quasi fosse una richiesta d’aiuto lanciata all’indirizzo del buonismo. Già... domenica, ma quale festività aveva il potere e il diritto di turbare la silenziosa atmosfera d’un mattino affrancato dalla logica dell’efficientismo?
Le imposizioni dei campanili scacciavano gli uccelli che avevano trovato rifugio sulle loro sommità. Una nube canora e palpitante si disperdeva all’orizzonte, alterando i richiami tonanti dell’ipocrisia.
Diamanti di pioggia ornavano le braccia nude degli alberi, brillando attraverso i primi avamposti dei monti, squarciando le nuvole nere che ne ornavano le cime innevate.
I volti di muti passanti sembrava attendessero un inverno spietato, trovando nell’acqua piovana preghiere non sempre esaudite.
Ripensai alla rosa che non fui capace di cogliere, sapendo di pungermi, temendo di macchiarne i candidi petali e tra le lacrime mi parve d’avvertirne il profumo.