La rosa e le spine
A partire dal 1772 il Beneamato, che aveva più di sessant’anni ed era per l’epoca un signore davvero anziano, abbandonò i pranzi in pubblico, relegandoli a rare cerimonie ufficiali, e si ritirò in pace nei suoi “piccoli appartamenti” al Petit Trianon, in mezzo al verde con l’entrata principale sul giardino, costruito dall’architetto Gabriel per la precedente favorita, la marchesa di Pompadour. Ora, lontano da occhi indiscreti, da una servitù troppo numerosa e pettegola, dalle fatiche mattutine e serali del “lever” e del “coucher”, il re si apprestava, in questa dimora perfettamente regale ma raccolta, a trascorrere l’autunno della vita sotto le carezze di Madame du Barry, la quale lo venerava come un santo protettore. Luigi XV aveva nel suo studio il primo secretaire a cilindro mai realizzato, iniziatore di una moda e di uno stile nel suo nome, ma accadeva sempre più raramente che ricevesse i ministri e firmasse missive e documenti e quando avveniva non ci metteva granché impegno.
Ritta di fronte a lui, accanto al camino in marmo violaceo, ben assortita tra mobili e suppellettili rococò, quel giorno madame du Barry lo apostrofò amabilmente:
‐ Le pratiche per il mio divorzio a che punto sono cheri?
‐ Non c’è da preoccuparsi se ritardano un po’… farò il possibile per il matrimonio che io desidero quanto voi… ‐ rispose guardandola rapito, con occhio che faceva pensare a una demenza appena accennata tra le pieghe di un sorriso sempre più esangue.
Madame du Barry gli andò vicino, si inginocchiò, posò il capo sulle sue gambe baciando quel ginocchio ossuto: “Tra poco sarò regina di Francia”, pensò sentendo che a Luigi doveva tutto, più che alla stessa madre. Il quel momento il suo potere era infatti all’apice e sul viso dei sudditi leggeva lo stupore e la paura di trovarsi all’improvviso di fronte a una sovrana. A riprova, il padiglione che il Beneamato, dopo averle regalato il castello di Louvaciennes, stava allestendo per lei era di un lusso impensabile e mai eguagliato dalle altre favorite. In quel momento la cagnetta di madame, una graziosa blenheim spaniel bianca e bionda, venne ad accucciarsi accanto.
‐ Dorina… ‐ la du Barry la sollevò – vieni da maman su…
Le accarezzò la punta umida del naso controllando che il collare d’oro tempestato di pietre preziose, dono del re Gustavo di Svezia, fosse sempre al posto suo.
‐ Il mio boudoir è magnifico… ‐ disse la giovane – è quasi ultimato sapete? C’è una tappezzeria bianca, tutta di broccato… dovete venire a vederla.
‐ Lo farò… ‐ rispose il sovrano che in realtà preferiva la vita sedentaria e gli bastava l’estasi dell’amante di fronte ai regali.
‐ Quando il padiglione sarà finito daremo una festa, voglio che tutti ammirino quello che voi avete fatto… sarà grandiosa e degna del re Sole!
‐ Lo ritenete proprio necessario?
‐ Certo, perché no?
‐ Non sarebbe meglio aspettare il vostro divorzio?
‐ Cosa c’entrano le due cose?
‐ Pensavo…
‐ Vi prego Maestà, permettetemi di dare una festa e poi… poi ci ritireremo nel nostro matissimo Lucien… ‐ con tale vezzeggiativo lei definiva la residenza principesca di Louvaciennes.
‐ Non me la sento di spostarmi da Versailles…
‐ Vi prego Maestà… ‐ insisté dolcemente ‐ diamo una festa grandiosa e fuggiamo a Lucien…
‐ Lucien Lucien… ‐ il vecchio re le fece una carezza con un sorriso così stanco da sembrare ebete.
Accanto alla finestra che illuminava le pagine e lasciava entrare la primavera nel candido e sontuoso boudoir della du Barry, quel pomeriggio una lettrice recitava alla contessa la “Relazione della festa di Versailles del 18 luglio 1668” scritta da André Felibien, accademico del re Sole. ‐ … sulla scena del teatro – interpretava con enfasi – fu allestito un magnifico spuntino, con arance del Portogallo e ogni sorta di frutti sistemati a piramide e pressati all’interno di trentasei cesti, che furono serviti a tutta la corte… Nel frattempo, il signor Launay, intendente dei Minuti Piaceri e degli Affari della Camera, distribuiva a tutti dei libretti stampa che descrivevano il soggetto della commedia e del balletto… Madame du Barry alzandosi di scatto e schioccando le dita la interruppe: – Voglio qualcosa di più, voglio centinaia di ballerini, di cantanti, i trucchi migliori dei teatri di Parigi! L’inaugurazione del mio padiglione dev’essere qualcosa di memorabile… ‐ col pensiero al divorzio aggiunse piano ‐ di più adatto a una regina di Francia… Solo quando il gran cerimoniere le illustrò lo spettacolo finale, dove troneggiava una sorta di enorme uovo pasquale che si schiudeva lasciando fuoriuscire un cupido munito di arco e frecce, si calmò e si ritenne soddisfatta. La festa rappresentava la consacrazione di ciò per cui aveva lottato, significava per lei il trionfo della sensualità, della bellezza, del piacere, delle qualità individuali sul lignaggio e dell’amore sul potere: l’apice del suo riscatto sociale. Al ricevimento erano attesi gli esponenti più eminenti della corte e con essi anche le dame che solo fino a qualche mese prima la denigravano. Madame du Barry seguì i preparativi da vicino, volle che le riferissero su tutto, nell’attesa, come aspettasse l’ incoronazione, le parve che i giorni fossero lentissimi. Ma la vita ha i suoi cicli e i fasti effimeri non resistono a lungo: in quel mese di marzo del 1772, quando tutto fu pronto, all’ora fissata, malgrado il cielo limpido, l’aria non fredda e la giornata senza imprevisti, delle centinaia e centinaia di invitati ce ne erano solo una trentina tra i più intimi e meno importanti. “Che stranezza!” penso la du Barry, aggirandosi nervosamente per le splendide sale appena inaugurate, dando ordine comunque ai musicisti di iniziare nella speranza che movimento e allegria facessero da richiamo per i ritardatari, ma non fu così. Ora vedendo che anche Luigi XV non compariva cominciò ad allarmarsi. Chiamò le dame fidate, i dignitari favorevoli alla sua ascesa. Nessuno. Decise di mandare al sovrano un messaggio per riferirgli quanto stava accadendo ma un’idea la bloccò: e se fosse stato il segnale di una caduta non considerata? Un complotto contro di lei? E di colpo, cosa mai presa in considerazione, l’idea che il re, suo unico scudo, fosse mortale come ogni uomo, gelò le sue vene.
La festa non riuscita recava la premonizione che Jeanne Beςu, in arte contessa du Barry, passata dalle braccia di un seducente “maquereau” a quelle del re, con l’avanzare della vecchiaia e della malattia di Luigi XV avrebbe perso i sostenitori: il suo smacco fu presto sulla bocca di tutti e influì sugli equilibri politici. Percorsi dal vento del “si salvi chi può” i cortigiani, come i moderni parlamentari, cambiarono bandiera indirizzandosi al più forte: in quel momento i giovani delfini. Si rafforzarono così le loro fazioni e Maria Antonietta, che aveva dovuto umiliarsi a superare antipatie personali, non poté che rallegrarsene. “La du Barry è agli sgoccioli!” pensò. Costatando per di più come il conte di Provenza, malgrado le ripetute vanterie sessuali, non avesse messo al mondo eredi, cominciò a prendere la sua condizione di illibata con più fatalismo e a sperare in segreto che anche il matrimonio dell’ultimogenito, il bel conte di Artois, si rivelasse sterile.
Il grasso e spocchioso Luigi Stanislao Saverio conte di Provenza, trascorreva molto tempo con il fratello e la moglie, spesso giocando a carte con Maria Antonietta. Un pomeriggio, durante una partita a “piquet” se ne uscì trionfante:
‐ Sapete cosa scrivono i libellisti della du Barry?
‐ Cosa? – chiese ansiosa la delfina.
‐ Parlano dei suoi più grandi piaceri…
‐ Quali?
‐ Il non far proprio niente o l’essere impegnata a imbellettarsi!
Scoppiarono in una risata divertita.
‐ L’avete letto sulla Gazzetta? – domandò Maria Antonietta
‐ Ma no… si dice in giro…
‐ Il re che ne pensa ?
‐ Il re – sbuffò il conte di Provenza – ormai non c’è più col cervello…
‐ Già… proprio negli appartamenti che ha donato alla du Barry è stata sbandierata una lettera del principe Rohan al duca d’Aiguillon, nella quale si parlava malissimo di mia madre e della spartizione della Polonia!
‐ Comunque il divorzio non le è stato concesso – s’intromise il futuro Luigi XVI che fino a quel momento aveva seguito in disparte la conversazione.
‐ Per fortuna… ‐ sospirò Maria Antonietta senza staccare gli occhi dalle mani del cognato, come colta da un pensiero ‐ vedo che non avete più segni sulle dita… state guarendo?
‐ Sto bene… ‐ si ritrasse imbarazzato Luigi Stanislao, che in realtà da mesi soffriva di sfoghi misteriosi sulla pelle e “umori al sangue”.
‐ Fate vedere…
Prese tra le sue quelle tozze falangi, contenta di saperlo impotente e malato, finse grande tenerezza e gliele accarezzò.
‐ Siete in ottima forma! Vostra moglie ne godrà… ‐ fece civettuola.
Il conte di Provenza diventò di brace. Luigi Augusto sentendosi escluso da quelle confidenze complici, sempre più geloso e irritato verso colui che non perdeva occasione di rimarcare la sua mancata virilità, colpì il fratello sulla spalla con il frustino.
‐ Ahia! ‐ esclamò Provenza ma, accorgendosi di aver fatto una buona mossa, raccolse le carte rivolto alla cognata ‐ Sto vincendo, graziosissima madame…
Di nuovo un colpetto sull’ omero.
‐ Che vi prende? – sbottò Provenza fissando adirato il delfino.
‐ Smettetela… ‐ si intromise Maria Antonietta.
‐ State irritando vostra moglie – si accodò l’altro.
Improvvisa una terza frustata. A questo punto Luigi Stanislao si avventò sul maggiore: entrambi ruzzolarono avvinghiati sul pavimento mentre la delfina gridava. Provenza sferrò un pugno micidiale: il futuro re si toccò il naso accorgendosi che sanguinava e inferocito glielo restituì.
‐ Basta! Basta! ‐ frapponendosi tra i litiganti con il frustino in mano, Maria Antonietta lo torse e lo spezzò. Si fermarono ‐ Vergognatevi! ‐ prima di andarsene strillò al marito ‐ Con voi i conti li faremo dopo!
Alla morte del duca di La Vauguyon, Luigi Augusto si era preso la libertà di far installare nei suoi appartamenti una vasca da bagno: il suo tutore, così come l’aveva messo in guardia dall’abbandonarsi al sesso gli aveva istillato la paura e la vergogna della propria nudità e detestava l’igiene, anche la più elementare. Se La Vauguyon fosse stato vivo Luigi non avrebbe indugiato, come in quel momento, nella grande tinozza foderata d’argento piena di acqua calda, schiumosa di sapone di Marsiglia e di Savona, non avrebbe chiuso gli occhi con il capo sul bordo, rilassato, col camicione incollato alla pelle. Faceva il bagno solo prima di coricarsi con Maria Antonietta: il suo corpo bianco, con le natiche pesanti e il ventre sporgente, non gli piaceva, si sentiva brutto e profumandosi trovava sicurezza. Quella notte la Delfina sarebbe venuta in camera sua: incombenza angosciante perché la corte, ormai da quasi tre anni, era in trepidazione per un erede. Quando ai medici aveva detto che i tentativi di “consumare il matrimonio” fallivano a causa di sensazioni dolorose al pene, la diagnosi fu “fimosi” e gli si prospettò la circoncisione. Rabbrividì pensando ai decessi per interventi non riusciti, al dolore fisico di un taglio nella carne viva. Provò rifiuto della moglie ed evitò di incontrarla. Quel giorno però aveva deciso di convocarla nel suo letto perché c’erano novità importanti. Dopo aver preso la limatura di ferro, prescritta dal medico per diventare focoso, dopo quel bagno piacevole come liquido amniotico, Luigi Augusto sprofondato tra cuscini, avrebbe dormito volentieri ma si rizzò a sedere all’apparire della consorte.
‐ Buonasera madame…
Allontanata la cameriera, lei salì sull’alto talamo e si distese accanto al marito. Rimasero alla luce fioca di una candela galleggiante sull’acqua di un recipiente chiamato “mortaio” per la forma.
‐ Spegniamo? ‐ chiese la giovinetta
‐ Sì.
La delfina si alzò, soffiò sulla fiamma, tornò a letto. Erano stati giorni faticosi tra lei, il delfino e Provenza, al quale il primo aveva anche rotto un vaso di porcellana.
‐ Farete pace con vostro fratello?
‐ Non perde occasione di ferirmi.
‐ Migliorerete la situazione con la frusta?
‐ Ce l’avete ancora con me?
La Delfina non rispose: era solo un modo di predisporsi a una conversazione più importante, che temeva. Ultimamente avrebbe fatto a meno di dormire con Luigi: così stanca, umiliata dal suo rifiuto, timorosa del futuro e nello stesso tempo terrorizzata dall’idea che lui subisse un’operazione. Sapeva che il marito, proprio quella mattina, era stato visitato da Lassonne , il suo primo medico, il quale doveva confermare o smentire i dettami del collega La Martinière, che riguardo all’intervento si era già dichiarato assolutamente contrario.
‐ Allora? Cosa ha detto Lassonne? ‐ chiese Maria Antonietta in un soffio
‐ Non c’è bisogno di operazione, non c’è ostacolo fisico al mio problema.
‐ Davvero?
‐ Davvero.
Si abbracciarono: che sollievo! Se lo avessero obbligato a un intervento, la ferita psichica sarebbe stata più grave di quella fisica: tutti e due si erano ricordati di Borgogna, il delfino morto in seguito ad infezione dopo un taglio chirurgico. Rimasero in silenzio, l’uno nelle braccia dell’altro: desideravano solo riposare ora e scivolarono senza accorgersene nel sonno.
L’abate di Vermond fu raccomandato a Maria Teresa e inviato in Austria quale istitutore di Maria Antonietta attraverso il ministro degli esteri decaduto Choiseaul. Divenuto suo precettore, Vermond aveva seguito la delfina alla corte di Luigi XV dove continuava a non occuparsi della sua istruzione perché il suo massimo interesse, che a Vienna era la partecipazione serale alle riunioni della famiglia reale, gli sottraeva tutte le energie anche in Francia. Figlio del chirurgo di un villaggio, fratello di un ostetrico, si era fatto valere trattando tutti come pari e spesso e volentieri adottando il metodo, incivile ma apprezzato, di relegarli a inferiori. Pian piano era divenuto confidente e consigliere della futura regina e aveva stretto con il conte Mercy, ambasciatore degli Asburgo a Versailles, un’alleanza nota e temuta. In biblioteca, dove si erano trovati quel pomeriggio, il brutto abate Vermond e l’elegante Mercy‐Argenteau parlavano della loro protetta. Il profilo del religioso risaltava sgradevolmente contro luce mentre accanto alla finestra diceva a Mercy:
‐ L’imperatrice Maria Teresa mi ha chiesto di farle avere tutti i mesi una lista di quello che la figlia legge… ma lei non ama applicarsi, vale poco che la si sproni…
‐ Sapeste quante volte le ha raccomandato di non montare a cavallo e lei continua a farlo…
La luce pomeridiana calava e i fregi dorati sulle pareti bianche, i libri allineati dietro le vetrine, i lampadari come colliers, dissolvevano.
‐ Sua maestà ‐ spiegò Mercy prendendosi il mento tra le mani – teme che la figlia cavalcando possa compromettere una gravidanza.
‐ Eventualità che vedo lontana…
‐ Purtroppo ‐ annuì l’ambasciatore
‐ Eppure lei sta cercando di avvicinarsi al marito ‐ si scaldò il prelato ‐ pensate che si applica al suo libro preferito “Storia d’Inghilterra” di Hume…
‐ Mah… ‐ Mercy‐Argenteau si fece silenzioso. Florimond Claude conte di Mercy d’Argenteau, dopo aver provato la dolce vita di Torino, San Pietroburgo e Varsavia, aveva scelto Parigi come città ideale. Scapolo impenitente, disdegnava gli sforzi delle suore per combinargli un matrimonio consacrato perché amava la cantante lirica Rosalie Levasseur: alla vista melodiosa del suo seno andava in estasi e si chiedeva come potesse quel tonto di Luigi non cogliere il bocciolo avuto in sorte. Era preoccupato: adorava il lusso e non voleva rinunciarvi solo per colpa di un delfino che non metteva incinta la moglie!
Si volse verso l’abate sospirando:
‐ Maria Antonietta è così graziosa… non capisco come non colga questo fiore…
‐ So che Luigi si sforza, soprattutto da quando non teme di essere operato… ‐ Vermond alzò gli occhi al cielo ‐ preghiamo perché colga la rosa anche se per il momento non ci sono che spine…
La sera avvolgeva il castello che si svegliava con il canto del gallo e si ritirava con la luce. Le candele venivano accese in continuazione solo negli appartamenti reali e il buio incuteva paura.
‐ Meglio tornare nelle nostre stanze… ‐ disse Mercy Argenteau. Prese l’abate sottobraccio e si incamminarono conversando mentre a Versailles un altro giorno finiva.