La scatola magica
Chissà da quanto era lì, seminascosta tra mille altre cose. Antonio sapeva esserci ma francamente ne ricordava a malapena l’esistenza, men che mai il contenuto. La aveva messa nella cantina una sera di tanti anni prima quando si era finalmente deciso a razionalizzare le vecchie cose che la zia Marta gli diceva di tanto in tanto di venirsi a prendere perché erano appartenute a questo o a quel prozio, trisavolo e via dicendo. “Prendila la scatola colorata, Antonio” ‐ gli ripeteva – “ il tuo povero papà ci riponeva le sue cose e a sua volta il nonno ci teneva tanto; non gettarla può sempre essere utile” – aggiungeva con quel suo fare di donna semplice, abituata a conservare sempre perché non si sa mai… perla rara adagiata sul fondale di un mare consumistico, usa e getta, dove ormai tutto era effimero, destinato a durare per il tempo strettamente necessario. La zia Marta non apparteneva a quel mondo ma alla generazione povera precedente ad Antonio. Poi un bel giorno morì senza figli, sola come aveva sempre vissuto: il marito, lo zio Michele, era stato dato per disperso in Russia durante la guerra, e lei giovane vedova bianca aveva tirato avanti col ricamo e con il sussidio che lo Stato gli versava, fino all’ultimo ostinata a recarsi all’Ufficio Postale per riscuotere i contanti, nemica giurata di conti correnti, bancomat, assegni, bonifici e tutto quel che non era carta filigranata; come quando arrivò l’euro che non accettò mai e che per sua “fortuna” gli sopravvisse poco; fino all’ultimo le care vecchie lire, solo quelle contavano per lei, non perché fosse avara, ma perché aveva il rispetto dei soldi, il rispetto tipico di chi li guadagna, pochi ed onestamente. Aveva anche lasciato la cara vecchia zia Marta qualcosa oltre il solito ciarpame: biancheria mai usata di gran valore ricamata finemente e chissà lasciata lì perché non si sa mai, povera zia, si era goduta poco della vita ma in fondo era stata felice; vissuta prima con l’uomo che da giovanissima la aveva condotta all’altare e poi col suo ricordo, tremula fiammella che non si spegneva mai. Antonio, unico parente prossimo della zia, dopo la sua morte aveva fatto prendere le cose che davvero non meritavamo la discarica e messe lì, in cantina, anche lui dicendo ma sì, non si sa mai... La scatola apparteneva a questa ristretta cerchia: un parallelepipedo finemente scolpito, di legno buono, cerniere e chiusura in bronzo, ricca di fregi ma non esageratamente barocca, non ingombrante ma abbastanza comoda per tenerci documenti o valori od altro. Ad Antonio era tornata in mente prepotentemente, una sorta di deja‐vu mistico in cui si mescolavano antichi ricordi e piacevoli rimembranze. Anche l’odore era buono, sapeva di antico ma non di vecchio, di fresco e non di stantio: insomma un bell’oggetto che a qualche antiquario avrebbe fatto gola e ci si potevano fare dei bei soldini, niente a che vedere con le cose “ made in China” di adesso; ma ad Antonio non interessava venderla, ché non ne aveva bisogno, né volontà; voleva semplicemente toccarla, rivederla, guardarci dentro, respirare quell’odore particolare che solo le cose di un tempo sanno trasfondere. Solo ora si rendeva conto che la vecchia scatola non la aveva mai aperta. “Incredibile” pensò “tanti anni che è qui e non mi è mai venuto lo schiribizzo di scoprirne il contenuto”, forse era intimamente convinto che non contenesse niente, vuota, semplicemente vuota o forse lo aveva fatto, aprirla e poi richiuderla e non se ne ricordava assolutamente più. Chissà. Quella sera però complice il fatto che una banale influenza lo teneva a casa aveva deciso di curiosare tra le vecchie cose della cantina e la scatola era di sicuro il “leader” di quella squadra sgangherata malamente disposta sugli scaffali polverosi. Era lì; maestosa come non mai, anche di più di come la ricordava Antonio, accuratamente incartata nella carta spessa dei pacchi, questa sì impolverata ed ingiallita: la prese con rispetto e circospezione, consapevole di stare per fare qualcosa allo stesso tempo di importante ed irriverente, quasi a turbare il sonno della zia Marta che gli aveva sempre detto di prenderla, ma in fondo non lo desiderava davvero… chissà quali ricordi ed emozioni aveva suscitato in lei quella vecchia scatola, forse le stesse che ora, magicamente suscitavano anche in lui. Si sarebbe quasi potuto dire che la scatola lo stesse chiamando… ecco, sì una specie di richiamo atavico, un qualcosa che dalla notte dei tempi saliva e saliva e saliva fino ad arrivare alla sua cervice, là dove una certa scuola filosofale e di pensiero sosteneva albergasse l’Anima. Salite le 4 rampe di scale che dal seminterrato della cantina portavano al terzo piano di casa sua, aprì la porta col suo prezioso cimelio serrato sotto il braccio sinistro avendo la massima cura di non staccarlo e con la mano destra frenetica a girare la chiave nella toppa. Scartarla e guardarla fu tutt’uno, rimanendo poi ammirato ed estasiato nello scoprire i finissimi intarsi che il bulino di qualche antico maestro aveva saputo così bene manovrare. Contemporaneamente si sforzò di immaginare se potesse contenere qualcosa di prezioso e quasi per gioco si materializzò nella sua mente una perla bellissima opalescente bianca grande e preziosa che stava lì adagiata su un cuscinetto rosso pronta per essere presa e magari portata al collo di una bella signora: fu la prima cosa che gli venne in mente ma che istantaneamente scacciò. “E sì figurati, una perla! E lì da quando poi? E come sarebbe stato possibile che nessuno la avesse mai scorta?”‐ pensava questo tra se e se mentre delicatamente faceva alzare verso l’alto la fine chiusura bronzea, certissimo anzi ben consapevole che il vuoto sarebbe stata l’unica cosa che poteva vedere, ammesso poi si potesse dire che il vuoto poteva vedersi. Ci fu un cigolio della cerniera o forse fu solo nella sua fantasia, ma la scatola si aprì in un baleno. La parte razionale di sé negava mentre quella emotiva non sapeva più a quale divinità inchinarsi per ringraziare: la perla era lì, più o meno come la aveva per gioco immaginata. Il cuscinetto era nero e non rosso ma ciò ne metteva ancora più in risalto le stupende fattezze. Una perla! Di chi mai può essere? Chi può avercela lasciata? Certo non la zia Marta vissuta povera e morta tale. Doveva valere una bella cifretta, davvero milioni, anzi ora migliaia di euro, povera zia pensava, avevi di che vivere dignitosamente per anni ed invece hai dovuto sguerciarti con ago e filo! Ma come era possibile? La gioia però prese presto il posto dello sgomento e della sorpresa. La scatola ed il suo prezioso contenuto erano sue, non vi erano altri eredi e soprattutto nessun torto era stato fatto alla zia Marta, né da viva, né tanto meno ora che era morta. “Le farò dire una messa” concluse Antonio. Grazie zia, grazie davvero. Per il momento nell’attesa di decidere il da farsi, sbigottito, tolse perla e cuscino e li ripose nella sua piccola cassaforte occultata dietro il grande quadro che aveva da sempre sopra il letto: una bella riproduzione della “Riconciliazione di Oberon e Titania” un’opera di Johann Heinrich Füssli, pittore svizzero del 18° secolo. Soddisfatto ed ancora incredulo se ne andò a letto assaporando in anticipo ciò che avrebbe ricavato dalla vendita della bella perla e soprattutto pregustando quello che avrebbe realizzato con i denari piovuti letteralmente dal cielo. La notte passò rapida e lasciò il posto al primo sole del mattino successivo. Antonio ancora in pigiama decise che doveva valutare per bene con la luce del giorno le qualità della perla: “Magari è falsa!” lo angosciò un tarlo improvviso, “oppure uno scherzo, uno stupido scherzo postumo di qualche avo buontempone che aveva riso decenni prima della sua faccia di quella mattina... Era ancora lì, nella sua cassaforte, così come la aveva adagiata si trovava... In un certo senso soddisfatto, anche se non voleva ammetterlo di non aver sognato tutto, la prese in mano: era bella davvero, fredda e pesante, non sembrava davvero falsa; la avvicinava ed allontanava dagli occhi cercando qualche piccolo indizio che ne tradisse la fattezza umana, ma… nulla di nulla! La perla era sicuramente appartenuta a qualche riccone di cui si erano perse le tracce. Nella sua mente le ipotesi si accalcavano confuse, anche le più disparate, del tipo che fosse stata un pegno d’amore di uno zio “casanova”, oppure rappresentasse il pagamento di un debito di gioco di un ricco califfo con qualche avo avventuriero e giocatore. “Non importa”‐ concluse‐ “E’ qui. Ed è mia .Ora scendo dall’orafo qui sotto e gliene parlo”. E mentre lo pensava ripose la perla sul comodino, si lavò, si vestì e fu pronto e scese quasi subito, ansioso e speranzoso, non prima di aver richiuso la cassaforte e abbassato il coperchio della sua bella scatola che aveva trascorso la notte a “bocca spalancata” in un lungo sbadiglio di ore, buona e tranquilla come sempre e calda anche; sì quella scatola dava calore, piacere, trasudava benessere, si poteva dire. L’orafo se la trastullava tra le dita, compiaciuto e stupito: erano vecchi conoscenti e non ebbe problemi nel chiedere ad Antonio da dove mai avesse tirato fuori una simile beltà, ma si capiva subito che era interessato… oh se era interessato, anche lui attratto magneticamente dalla perla bianca, occhio unico e senza pupilla che a sua volta sembrava guardarlo. “Cinquemila euro” ‐sentenziò ‐ “posso darti cinquemila euro sull’unghia. Io conto di montarla su un bel girocollo importante e di creare un pezzo unico da rivendere a qualche ricca e asfittica contessa per il doppio: tieni presente che ho le mie spese, l’oro, il lavoro, le tasse su quel che mi entra e… insomma ci guadagno sì, ma meno di te”. Ad Antonio sembrò un discorso sensato: in fondo cinquemila euro per non aver fatto nulla andavano bene e poi si fidava del suo amico orefice al quale certo non mancavano i soldi. Uscì dalla bottega col suo bell’assegno accuratamente riposto nel portafoglio, con l’intenzione di versarlo al più presto sul suo conto, felice come un bel pupone che ha appena trangugiato la sua pappa. Il giorno dopo davanti allo specchio del bagno ascoltava come di consueto le notizie del suo radiogiornale preferito: dopo le varie considerazioni sull’economia mondiale, Bin Laden che non si trovava ancora e la sua squadra del cuore che sembrava avesse concluso l’acquisto dell’asso brasiliano di grido, sentì, tra le notizie del mondo, quella data in chiusura di notiziario che lo colpì particolarmente: nelle Filippine, in un isola sperduta, un pescatore era stato aggredito e derubato di un bottino tanto prezioso quanto inusuale: una perla di particolare caratura che aveva poco prima trovato in un’ostrica a svariati metri di profondità. I pirati che infestavano quelle acque, saliti a bordo della sua imbarcazione gliela avevano trovata addosso per caso e non avevano esitato a sparargli gettandolo in mare: un altro pescatore a qualche decina di metri su un'altra barca aveva assistito impotente al crimine ed aveva denunciato l’accaduto con la radio di bordo. Il governo filippino aveva addirittura chiesto l’intervento internazionale delle navi da guerra USA che incrociavano in zona per cercare di fronteggiare il fenomeno, particolarmente odioso ed in costante escalation; le indagini in corso, ecc. ecc. Ad Antonio era rimasto il rasoio a metà strada tra il fianco e la guancia destra, un po’ per la singolare coincidenza che aveva fatto rinvenire a lui una perla ed un po’ per l’amara constatazione di quali diversi effetti il destino aveva voluto predisporre per lui e per l’uomo agli antipodi del mondo: tutti e due avevano trovato una perla, ma con che opposto destino! Accuratamente rasato, il suo primo pensiero fu di nuovo alla scatola: non poteva fare a meno di considerare che aveva pensato ad un qualcosa di veramente poco comune e prontamente la aveva trovata e che, quasi nello stesso istante, un’altra incredibile coincidenza aveva fatto sì che un’altra perla era stata rinvenuta in circostanze drammatiche. “Si direbbe ci sia un disegno perverso” ‐ si diceva ‐ “ma no, sono solo fantasie, a volte cose strane avvengono… e poi che nesso può mai esservi? Se per assurdo avessi pensato di trovare del denaro, e lo avessi effettivamente trovato, non starei qui a pensarci tanto sopra”. Detto fatto gettò ancora uno sguardo verso la scatola e questa volta il pensiero dei soldi occultati in un doppio fondo gli esplose nitido; sapeva che non era assolutamente possibile che vi fosse dell’altro nella vecchia scatola e che solo l’idea di aprirla nuovamente, come in effetti si accingeva a fare, era l’assurdo degli assurdi. Eppure lo fece: la aprì di nuovo e stavolta dovette tenersi ad una sedia quando le mazzette di euro con ancora la fascetta gli apparvero dal dentro della scatola: dovette toccarle, farle scorrere diverse volte tra le dita prima di convincersi che erano effettivamente banconote, valide, autentiche e soprattutto lì per lui. Di tutte le ipotesi che la sua mente scandagliò nei minuti successivi non ve ne era una sola plausibile, una sciocchezza dietro l’altra faceva capolino nella sua testa per essere sostituita dalla successiva, ancora maggiore. Decise di smettere di pensare e passare al più concreto conteggio: non era difficile, banconote da 100 euro in mazzette da 100 per 10 mazzette, in totale 100.000 euro. Ne sfilò una meccanicamente avendo cura di tenere da parte la mazzetta che ora ne conteneva 99, quasi temendo che se avesse toccato quegli euro avrebbe compiuto un che di sacrilego: eppure doveva rendersi conto, doveva appurare se non fosse tutto una pazzia ovvero se si trovasse nel mondo della realtà. Decise che l’unico modo saggio era spenderne una. Il primo negoziante a portata fu il suo involontario complice di quella follia: non battè ciglio nel dargli il resto (circa 85 euro e spicci), non banconote così nuove come quella che aveva ricevuto ma stropicciate ed effettive e reali. Né aveva minimamente messo in discussione, anche dopo aver passato sotto la luce ultravioletta del rilevatore la banconota da 100 di Antonio, la sua validità. Era buona. Valida e spendibile, così come tutte le altre di sicuro che lo attendevano a casa. Antonio aveva avuto il suo battesimo. Mise senza contarlo il resto in una tasca mentre si dirigeva a passi veloci verso la sua abitazione, consapevole solo ora che aveva lasciato così, su un tavolo quasi 100.000 euro in balìa del primo malintenzionato che avesse forzato la sua porta o addirittura di una ventata:“ma no: le mazzette pesano, non possono prendere il volo” ‐ si diceva ‐ “non sto più ragionando, devo fare mente locale e riflettere su quel che mi sta accadendo, devo fermarmi se non voglio commettere idiozie” e mentre pensava alle idiozie già scacciava l’idea di quanto costasse la potente auto che aveva sempre sognato, quella col cavallino che sin da bambino lo aveva estasiato. Girò l’angolo e trovò tutta la strada chiusa: una confusione indescrivibile, 7 forse 8 auto di polizia e carabinieri in divisa ed in borghese con i giubbotti con la scritta del corpo di appartenenza. Un silenzio irreale aleggiava sulla scena, a terra il vigilante che aveva tentato di opporsi alla rapina che i balordi di turno avevano perpetrato proprio a due passi da casa sua; il lenzuolo steso sul suo corpo esanime rendeva vano l’arrivo dell’ambulanza che frattanto si era fatta largo anch’essa tra le auto delle forze dell’ordine. I rapinatori si diceva avessero portato via centomila euro… Si allontanò con il cervello in fiamme e con la voglia di non vedere più niente e nessuno, un’oscura vocina lo faceva in qualche modo ritenere responsabile: il solo fatto di avere pensato a dei soldi nella scatola aveva tramutato in realtà un incubo. Un poveraccio ci aveva lasciato le penne ed ancora una volta il conto tornava, centomila euro il bottino, centomila, anzi ora poco meno, gli euro che lo attendevano in casa. Si chiuse la porta dietro, spaventato e timoroso: la scatola era lì, così come i soldi; gli sembrò quasi che una luce sinistra però li rendesse particolarmente luccicanti; scacciò il pensiero e li mise dentro la cassaforte dietro il solito quadro in attesa di essere in grado di decidere qualsiasi cosa. Doveva sapere, se non avesse avuto la conferma che tutta la diavoleria che gli stava capitando era reale e non frutto di un incubo, doveva provare ancora, stavolta con ancora qualcosa di più eclatante, era consapevole che ciò poteva causare ancora qualche accadimento poco piacevole ma si risolse a ritenere che non fosse colpa sua, le cose nel mondo accadono a prescindere ed a lui erano solo capitate coincidenze grottesche, magari le stesse cose sarebbero successe ugualmente oppure lui non ne sarebbe venuto a conoscenza e tutto questo non avrebbe avuto modo di dargli da pensare. Si addormentò fantasticando su quello che avrebbe potuto chiedere stavolta, novello Aladino con la sua lampada magica che altro non chiedeva che di essere strofinata. Sognava e pensava, vedeva materializzarsi cose incredibili, si poneva domande e si dava risposte ancor più inverosimili, del tipo se potesse esprimere desideri anche non di beni materiali, quali l’immortalità, una salute di ferro, la felicità eterna. Sudava e si sentiva nel contempo potente ed invincibile ma atterrito e spaventato per un qualcosa che sentiva sfuggirgli di mano ma del quale era attratto come la falena dall’ abat‐jour; il fascino dell’ignoto lo chiamava, la paura dell’incerto lo frenava. Si risvegliò più stanco che mai ma deciso ad avere delle risposte alle sue domande: sarebbe venuto a capo di ciò che gli stava capitando. Ad ogni costo. La Ferrari doveva ordinarla e ci sarebbe voluto del tempo e poi aveva la necessità di un garage adeguato ove riporla e se avesse avuto un garage ci voleva una casa, anzi una villa di dimensioni idonee; una villa aveva bisogno di chi avesse potuto mandarla avanti: servitù, giardinieri, custodi. Lì per lì non immaginava quante persone avrebbe dovuto stipendiare e soprattutto quanto gli sarebbe servito: provò a fare una stima, ma man mano che pensava ai particolari nella sua mente ormai ebbra si andavano accumulando cose futili che via via gli sembravano indispensabili: la scuderia, il campo da golf, l’elicottero, lo yacht, la pinacoteca e poi abiti, gioielli. Il lusso prendeva corpo e forma, si materializzava lugubre e ingombrante. Ancora non se ne rendeva conto ma aveva perso la ragione, il delirio d’onnipotenza si era impadronito di lui. Alla fine si decise con occhi arrossati e mani adunche protese verso la scatola maledetta: aveva bisogno di tutto il denaro necessario ad ottenere tutto quello che aveva fantasticato; non riusciva nemmeno a pensarla la cifra, perché ogni volta si diceva che in fondo poteva decuplicarla, chiedere di più, di più, sempre e ancora di più. Era passato chissà quanto da che aveva iniziato a “lavorare” con la scatola magica: 100 miliardi di euro aveva stabilito e gli servivano tutti, doveva acquistare tutto, tutto, e di tutto avrebbe avuto bisogno. La febbre della voluttà si era impadronita di lui; non si sarebbe più fermato e forse ne era ormai consapevole. La scatola avrebbe evidentemente avuto bisogno di tempo: una cifra simile per materializzarsi ci avrebbe impiegato ore, giorni forse. Tuttavia iniziò, obbediente come un cagnolino a sfornare mazzette di denaro, più ne sfornava e più si andavano cumulando e depositando tutt’attorno e la casa andava riempiendosi. Antonio era in tranche, ormai non le contava più le mazzette da diecimila e loro, indisturbate, si andavano ad arenare l’una sull’altra, cataste verdi di bigliettoni nuovi e fruscianti. In un barlume di normalità (non aveva neanche più mangiato nulla, da ore) accese la TV alla ricerca di non sapeva bene cosa nemmeno lui. Sembravano tutti impazziti, su tutte le reti un susseguirsi di notiziari straordinari, TG concitati, inviati dalle borse mondiali con la faccia spaurita di chi non controlla più la situazione, il panico palpabile, il clima da ultima spiaggia, l’atmosfera irrazionale del “tutto è perduto”. Non si sapeva nemmeno come fosse cominciata dicevano i cronisti. All’inizio sembrava che in Giappone la Banca Centrale si fosse trovata di fronte ad una non meglio specificata emergenza, per far fronte alla quale aveva cominciato ad immettere milioni di yen sul mercato ma ottenendo l’effetto opposto di destabilizzarlo ancora di più. I paesi poveri si erano improvvisamente visti tagliare tutti i finanziamenti promessi ed in corso: era iniziata in ogni angolo del mondo una corsa a chi accaparrava di più. Non più denaro ma beni primari, cibarie, benzina, medicine. I governi cercavano di tranquillizzare e minimizzare ma ormai nessuno di fidava più. In Sudamerica erano scoppiati i primi tumulti con gente armata scesa in piazza per assaltare negozi e supermarket. Negli Stati Uniti si era avviata una svalutazione incontrollata che aveva portato il dollaro a valori nemmeno pensabili nei peggiori incubi; ce ne volevamo ormai decine e decine, ammesso si fosse trovato chi ancora li avesse accettati, per procacciarsi le cose più semplici ed inutili. Non si trovava più niente. Nelle grandi città si assisteva a veri e propri assalti dei quartieri ricchi da parte di centinaia, migliaia di disperati che ormai possedevano solo quel che avevano addosso. L’inflazione in un giorno aveva raggiunto picchi che nemmeno in anni avrebbe potuto mai in condizioni di normalità. In Europa, in tutta Europa, a parte piccole zone d’ombra ed isolate come l’Islanda che da sempre lo era per forza di cose, ma che comunque avrebbe presto capitolato anch’essa, era il caos totale. I Russi avevano deciso di passare alle maniere forti, sospettosi che ci fosse in atto un oscuro, ma dai ben evidenti effetti, disegno da parte dell’occidente: andavano ammassando truppe e mobilitando riservisti, tornavano in auge missili e testate. In medio oriente i fedeli inneggiavano alla fine del mondo imminente, ammassati nelle piazze e nelle moschee da dove gli imam ammonivano a prepararsi alla prossima fine. Antonio percepì appena tutto ciò: la minima parte lucida che ancora lo sorreggeva percepiva a stento che qualcosa non andava; la parte obnubilata della sua mente arrivava a pensare che gli servivano ancora denari per fronteggiare tutti i problemi che lui stesso aveva scatenato. Non c’era più denaro che servisse a qualcosa ormai, tutte le regole erano da riscrivere. Presto la legge della giungla sarebbe stata la sola imperante in quel caos totale. L’umanità stava sperimentando che cosa succede quando in un sistema basato sul consumismo, sul materialismo e sulla globalità totale vengono a crollare le colonne portanti. La scatola ormai si era placata. Non vomitava più inutili soldi. In un angolo, semisommerso, Antonio, ormai impazzito, si ostinava a contare banconote perdendo ogni volta il conto e ricominciando daccapo, gli occhi fuori dalle orbite scrutavano attorno cercando impossibili fantasmi che gli sottraevano una banconota…