La sorellanza
Stavano sedute sulla riva senza parlare, Mirta guardava lontano verso un orizzonte vuoto, Lucia si guardava i piedi, muovendoli nell’acqua bassa come a scalciare i piccoli sassi grigi.
C’era silenzio, solo il vento muoveva le onde scaldate dal sole.
Intorno a loro la spiaggia era deserta, a ottobre in quell’angolo di Sardegna il vociare dei turisti si era spento. Finalmente era tornata la quiete tra le dune spinose. L’acqua del mare aveva ritrovato il suo naturale movimento, senza più nessuno ad agitarle i fondali.
Mirta pensava che quella giornata avrebbe risolto ogni dilemma. Lucia godeva dei caldi raggi del sole sulle sue gambe nude.
Un gabbiano passò sulle loro teste immobili, scompigliando i capelli ed i pensieri. Quasi in contemporanea guardarono in su, poi si voltarono l’una verso l’altra. Nei loro sguardi, zeppi di parole, il silenzio dava il tempo, metteva la punteggiatura di quelle frasi inespresse.
Mirta, lucida e razionale giudicava Lucia da una vita, Lucia troppo libera ed eccessiva. Mirta pretendeva che Lucia fosse la metà della sua vita, la metà dei suoi doveri. Lucia invece sognava di passeggiare lontano da quella terra, lontano da sua sorella.
Si passavano solo due anni, ma Mirta era sempre stata severa con Lucia, il suo atteggiamento era sempre austero, Lucia non ricordava un solo momento di spensierata allegria insieme a sua sorella.
La loro casa era buia come il viso di Mirta, buia come la sorte che le aveva condannate: figlie femmine di una madre assente per disinteresse verso di loro, le aveva affidate al padre e si era trasferita a vivere con dei giramondo disgraziati.
Il padre, un uomo all’antica, dopo aver perso l’amore della sua vita, il colore della sua vita, si era chiuso in una forma di muto rancore nei confronti delle figlie che riteneva colpevoli della fuga della madre. Le ragazze erano state cresciute con durezza nella più totale anaffettività.
Mirta, forse più simile al padre aveva impostato la sua vita sull’ordine e la diligenza, sempre in ombra, muovendosi come un fantasma. Lucia invece, più simile alla madre, aveva reagito a quell’infanzia vestendosi di colore e luce. Ma quella luce, quel sole che portava dentro e sulla pelle, feriva Mirta che si sentiva accecare e bruciare. Così di contro infliggeva continui castighi e dispetti alla sorellina.
Ma Lucia era la luce e la luce può anche essere nascosta da un telo nero ma i suoi raggi prima o poi scappano dalle fessure e conquistano il buio.
Mirta è molto bella, ha capelli castani che porta cortissimi, forse per mortificare il suo viso bellissimo, ha un fisico asciutto, mascolino, la natura anche in questo l’aveva assimilata più al padre. Veste abiti maschili e non cerca e attenzioni degli uomini, anzi le disdegna.
Lucia, forse meno bella, è morbida come la madre, i suoi seni scoppiano dentro i vestiti, i suoi fianchi riempiono la seta delle gonne, le sue cosce vibrano dentro minuscoli shorts. Lucia aveva per il suo corpo una venerazione, lo amava ed esibiva di continuo e se anche non proprio perfetto, il suo modo di viverlo lo rendeva tale ad uno sguardo esterno.
Mirta denigrava questo suo modo di mettersi in mostra, sempre frivola, da sgualdrina e non perdeva occasione per dirle quanto fosse grassa e sgradevole. Ma Lucia ad ogni insulto aggiungeva colori e luce alla sua immagine.
Il padre, Martino, possedeva un negozio di ferramenta, ogni giorno indossava il camice grigio sopra ad una camicia bianca e cravatta regimental, sempre inappuntabile, ben rasato e pettinato, sembrava più un farmacista che un venditore di chiodi e bulloni. Il suo negozio era ordinato e pulito, Martino teneva molto a dare un’immagine sempre perfetta di se e del suo mondo.
Mirta dopo il liceo iniziò subito a lavorare con il padre, aveva dimestichezza con tutta quella minuteria e sapeva smontare e rimontare qualsiasi oggetto. I clienti del negozio avevano provato a prendersi delle libertà con lei, ma li aveva rimessi subito al loro posto definendo molto bene i ruoli.
Nel frattempo, Lucia continuava il liceo, divertendosi con gli amici e ignorando le continue lamentele di Mirta per il suo disinteresse nei confronti della ferramenta. Mirta si arrabbiava perché il padre autoritario ed esigente con lei, si disinteressava completamente di Lucia lasciandola libera di fare ciò che voleva.
Le due sorelle avevano modi diversi di leggere e reagire al comportamento del padre.
Mirta si incupiva perché il padre non prendeva provvedimenti con Lucia, però non aveva il coraggio di affrontare Martino e quindi riversava la sua rabbia sulla sorella, maltrattandola di continuo. Lucia invece soffriva dell’indifferenza del padre verso di lei, della mancanza di dialogo, di contatto, e reagiva tirando fuori un’esuberanza eccessiva, che la sua famiglia, suo padre considerava oltraggiosa, il risultato era un allontanamento ancora maggiore tra padre e figlia.
Ma se Mirta sembrava poter vivere in assenza d’amore, Lucia andava a cercare l’amore ovunque, tra le braccia di chi glielo donava e se non era proprio amore lei trasformava ogni contatto fisico in quel sentimento.
Ovviamente questo modo di condurre le loro vite metteva distanza tra le sorelle, oltre che insofferenza e risentimento. L’atmosfera nella casa poteva essere o lugubre avvolta nel silenzio o infuocata da urla furibonde. Non c’erano pranzi felici né feste benedette, ogni giorno era più grigio del precedente.
Nessuno nominava mai la madre, MariaLuce, era come si dice il convitato di pietra, seppur assente era ben presente nella rabbia di ognuno, nell’astenia emotiva di tutti.
Martino l’aveva cancellata dalla sua vita, ma non dalla sua testa e dal suo cuore. Un giorno la moglie se ne era andata, dopo l’ennesima lite riguardante l’incapacità di MariaLuce di essere una buona madre, la donna prese poche cose e andò via. Martino, non disse una parola, la guardò fermo sulla porta con accanto le figlie, allontanarsi. Le piccoline piangevano piano sembravano gattini che miagolavano. La madre non si voltò mai a guardarli e sparì dopo la curva.
Qualche tempo dopo in paese si diceva che si fosse unita ad un gruppo hippie che stava in un casolare lì vicino ma che poi fosse andata in Olanda.
In ogni caso nessuno dei tre cercò mai la madre, né MariaLuce cercò il marito o le figlie.
Scomparve dalla loro vita come un temporale che passa ma lascia l’aria carica di elettricità.
Quando Lucia finì il liceo disse chiaramente che non avrebbe mai lavorato nel negozio del padre, Martino si disinteressò come sempre alla questione e continuò ad ignorare Lucia senza mai darle un aiuto economico.
Lucia che non si aspettava niente di diverso da questo si fece assumere in un bar sul mare come cameriera. Ogni giorno faceva l’autostop per andare al lavoro e spesso la sera dormiva nel retro. Oppure tornava a casa se trovava qualche cliente particolarmente gentile.
In paese tutti sparlavano di lei, di questo suo modo troppo libero di vivere, questi pettegolezzi non scalfivano l’indifferenza di Martino verso sua figlia, per lui Lucia era solo un animaletto selvatico a cui dare una ciotola di latte ogni tanto senza preoccuparsi se ha un riparo per la notte.
Chi invece soffriva per le maldicenze era Mirta, ma non perché fosse dispiaciuta per Lucia, ma perché in qualche modo sporcavano anche la sua immagine, la sua reputazione. Così quando la sorella rientrava la sera tardi, accompagnata da un uomo sempre diverso, con i vestiti stropicciati, i lunghi capelli ossigenati in disordine, la aspettava sulla porta di casa e la accompagnava fino alla sua camera riempiendola di disprezzo e disgusto. Lucia non diceva una parola, guardava Mirta e le sorrideva prima di chiudere la porta. Quel sorriso, quegli occhi verdi stanchi ma pieni di desiderio soddisfatto facevano contorcere lo stomaco a Mirta, avrebbe voluto che Lucia reagisse ai suoi insulti invece di buttarle in faccia quel sorriso, di vomitarle addosso la sua felicità.
Lucia nel suo letto da bambina si addormentava ancora con il ricordo di calde labbra sulla sua pelle.
Quelle sere che Lucia non rientrava a casa erano ore di angoscia per Mirta, che non dormiva, girava al buio senza trovare pace, guardando in continuazione l’orologio.
Cosa provava Mirta in quei momenti?
Aveva paura che a sua sorella fosse successo qualcosa?
Che potesse avere bisogno di lei?
Che qualcuno le stesse facendo del male?
No, Mirta aveva solo paura che Lucia sparisse, come sua madre. Che la lasciasse lì sola, incatenata ad una vita al buio, senza poter mai più vedere la luce, i colori, Senza poter riversare l’odio che provava su qualcuno, senza potersi specchiare anche solo per un minuto nella felicità.
Era puro egoismo, il sentimento che la tormentava quelle notti, perché Mirta aveva uno struggente bisogno di sua sorella.
Lucia quando restava a dormire sul retro perché troppo stanca o perché nessun cliente aveva attirato la sua attenzione, si stendeva esausta sulla brandina sfondata, in quelle notti si sentiva libera, senza una casa da raggiungere, senza Mirta, senza il dolore che provava nel pensare a suo padre, lì con lei in quella casa, ma lontano da lei da una vita.
Finalmente dormiva serena tra il profumo del caffè e del mare, senza nessuno da deludere o compiacere.
Così in questo modo passarono tre anni. Mirta ormai gestiva il negozio da sola, suo padre era una presenza di contorno. Le sue giornate spese dento il negozio si concludevano in cene silenziose a cui Lucia ormai non partecipava più.
Lucia con i soldi del bar si era comprata un motorino, non aveva più bisogno di passaggi o uomini per tornare a casa, eppure era sempre sulla bocca della gente per le sue frequentazioni.
Ogni notte rientrava a casa con addosso un profumo diverso, ogni notte Mirta scaricava su di lei la sua frustrazione.
Martino intanto invecchiava, andava sempre più di rado in ferramenta, aveva preso un pezzetto di terra e si era messo a coltivare un piccolo orto.
Mirta era da sola in negozio tutto il giorno, non usciva mai la sera, mai una pizza, non aveva amici, non andava al mare, la sua vita scorreva tra scaffali di metallo anche il suo cuore era diventato di metallo: una cassaforte senza la chiave. Dopo il lavoro tornava a casa ad accudire il padre e sopraffatta dalla stanchezza spesso non aspettava più Lucia sveglia.
Intanto Lucia non badava a tutto quello che avveniva in casa, era come un ospite: dormiva fino a tardi e poi via lontano da lì. Aveva tanti amici, tutti maschi, le donne erano sempre severe con lei, non le perdonavano il suo modo di vivere o forse le invidiavano quel modo di vivere. Invidiavano che pur non essendo perfetta, gli uomini non le staccassero gli occhi di dosso e spesso nemmeno le mani. Non le perdonavano che lei non si curasse del loro giudizio e che vivesse alla giornata senza fare progetti.
Anche Mirta era spesso sulla bocca delle donne del paese, ovviamente per motivi diversi. La compativano, poveretta, per la vita che era costretta a fare, così bellina, segregata dentro il negozio o a fare da badante al padre burbero e scostante, mentre la sorella se la godeva tutto il giorno.
Mirta sapeva che c’erano quelle voci e saperlo accresceva ancora di più la rabbia verso Lucia.
Invece Lucia non si preoccupava, gli uomini erano più indulgenti delle loro donne e più attenti alle sue esigenze, colmavano il vuoto che aveva dentro. Perché nonostante i sorrisi, aveva davvero un buco profondo nel cuore, un abisso buio e silenzioso che talvolta l’annegava. Sapeva che laggiù, sul fondo, viveva un’altra Lucia e un’altra Mirta che si amavano e i loro cuori battevano insieme. Laggiù c’era un padre che la portava in bicicletta e le metteva fiori tra i capelli. Laggiù c’era MariaLuce, sua madre, che quei capelli accarezzava prima di dormire.
Il dolore della mancanza d’amore che aveva tatuato sulla pelle era indelebile, non c’era uomo che potesse cancellarlo.
Tornare ogni sera a casa, sentire Mirta insultarla, era l’unico modo per mettere in pausa quel dolore, sostituirlo con la consolazione che non era solo lei a provarlo. Nelle parole di disprezzo di sua sorella lei poteva sentire la sua sofferenza, la sua stessa paura.
Un giorno Martino morì.
Morì così in silenzio e solo come aveva vissuto, morì senza la presenza ingombrante delle sue figlie, senza mostrare paura, senza vedere il dolore, o con la paura di non vedere dolore.
Mirta si occupò di tutto come sempre, in modo impeccabile e ordinato come erano abituati lei e suo padre.
Il giorno del funerale, Lucia indossò un abito rosso che lasciava poco all’immaginazione, portava una rosa bianca tra i seni.
In chiesa c’era poca gente, qualche vecchio cliente del negozio, alcune donne anziane che ormai presenziavano tutti i funerali del paese.
Quando Lucia entrò in chiesa, ovviamente a cerimonia iniziata, molte teste si girarono a guardarla, a giudicarla anche lì mentre sotterrava suo padre.
In prima fila Mirta vestita di nero, sola, non si girò. Lucia la raggiunse e si mise al suo fianco. Mirta sentì il profumo dolcissimo della sorella prima ancor di vedere svolazzare il suo abito accanto a lei. Non si voltò a guardare Lucia, rimase immobile come una statua, con le mani aggrappate alla panca davanti.
Lucia la sfiorò, come un alito di vento tiepido nelle sere estive e appoggiò la sua mano da bambina su quella di Mirta.
Mirta a quel contatto rabbrividì, sentì il cuore tremare tra le ossa del suo torace. Abbassò lo sguardo su quella mano piccola, con le unghie rosse smangiate e un anello troppo grosso. Guardò il polso di sua sorella e vide i mille braccialetti di corda colorati, poi guardò le sue mani, mani curate ma prive di vita. Spostò la sua mano prendendo quella di Lucia, come se tutta la sua vita le fosse crollata addosso, e quella piccola mano fosse la sola ancora di salvezza.
Mirta cadde sfinita sulla panca e iniziò a piangere, un pianto disperato, incontrollabile, un pianto che era come un fiume che trascina tutto con sé e lascia solo distruzione. Piangeva e tremava senza alcuna possibilità e volontà di controllarsi.
Lucia si era seduta anche lei, le aveva messo un braccio attorno alle spalle, Mirta aveva appoggiato il capo addosso alla sorella, era come se in quel momento tutta la loro esistenza si sgretolasse, era come se i ruoli finalmente si fossero invertiti.
Mirta non piangeva la perdita del padre, piangeva per se stessa, per la povera Mirta che era stata sola tutta la vita, piangeva per quello che il mondo le aveva tolto, piangeva per non avere mai sognato una vita diversa. Era la prima volta che sentiva l’amore, che si sentiva amata, che qualcuno la toccava, la accarezzava.
Lucia, sua sorella, probabilmente la persona che aveva più odiato era anche quella di cui ne aveva desiderato l’amore. In tutta la vita non aveva mai conosciuto le parole per aprire le porte dell’amore, concentrata a soffocare il dolore.
Mirta alzò la testa e guardò Lucia, le sorrideva, ma era un sorriso che non aveva mai visto, sorrideva a lei, le diceva che il dolore che provava era uguale al suo e che potevano condividerlo. Con quel sorriso le diceva che anche lei era stata sempre sola in mezzo alla gente e che nessun uomo aveva attenuato il dolore.
Quanto era bella Lucia, pensava Mirta, era sempre stata bella e lei voleva gridarlo lì in mezzo a quella gente che spiava il loro dolore.
Lucia si tolse la rosa dai seni e la mise nel taschino della giacca di Mirta, insieme si alzarono e uscirono tenendosi per mano come una famiglia dietro la bara del padre.
Sotterrato Martino, Mirta e Lucia presero il motorino e andarono al mare. Si sedettero sulla riva e rimasero lì senza parlare, Mirta guardava lontano verso un orizzonte vuoto, Lucia si guardava i piedi, muovendoli nell’acqua bassa come a scalciare i piccoli sassi grigi, poi Mirta si alzò ed entrò nell’acqua completamente vestita, guardava Lucia, rideva e la schizzava. Lucia le corse incontro con l’abito rosso che le aderiva alla pelle. Come due bambine giocavano, si buttavano l’una sull’altra, si abbracciavano e ridevano, ridevano forte, nella spiaggia deserta di ottobre si sentivano solo le loro risate.
Poi esauste ed infreddolite uscirono dall’acqua, la rosa bianca danzava verso il sole.
Sulla sabbia umida, le due sorelle, si stesero vicine avvolte da un tramonto indimenticabile e per la prima volta Mirta e Lucia incontrarono la felicità.