La strega e l'ingenuo
Nel buio sconosciuto d’una città sconosciuta voci stridenti raccontano la stessa leggenda: tu, la strega cattiva, io, l‘ingenuo di turno. I silenzi mi assordano, infastidendomi e rendendomi insofferente ai pettegolezzi. Ti trovo qui, inerme, alla gogna dei benpensanti, indifesa, vittima e carnefice allo stesso tempo. La luce dell’intelletto, allora, mi apre gli occhi spenti, narrando il male oscuro che ti governa, l’ingenuità che lo genera, l’incoscienza che lo esalta. Ascolto la tua voce, la tua indecisione.
“Non ti conosco ancora! Temo di sbagliare… di far parlare nuovamente di me. Dammi tempo... Non appartieni alle mie stesse allucinazioni, né allo stesso incubo. Mi fai paura, paura di non essere al tuo livello, di non avere a che fare con un tossicodipendente dai neuroni impazziti. Ti amo... come non amarti? Tu, però, non mi dai certezze... sei troppo normale... direi strano. Non ingannarmi!”.
”Ti sono vicino... traduco il linguaggio incomprensibile della tua essenza, pronto a guidarti in quel mondo oscuro in cui ti sei ritrovata a camminare senza appoggi, sprovvista di qualsiasi orientamento... Dal pozzo tetro della mia cecità ti condurrò in un luogo dove regna il silenzio, la pace, l’equilibrio... Non temere la realtà… Essa non ti giudica, non ti aiuta, non ti delude... E’ sufficiente accettarla!”.
“Buonanotte!”.
La tua replica non è altro che un gelido augurio formale. Echeggia nel cielo di pece, concludendo la giornata senza senso appena trascorsa.
“Buonanotte mia principessa, tanto innamorata da immolare la tua esistenza alla notte perenne d’un uomo. Il buio di queste riflessioni non macchierà il manto scintillante del tuo futuro, non ti declasserà agli occhi altrui, fiera d’aver abbracciato la causa della solidarietà.”.
La dura realtà si faceva avanti, ponendo in evidenza il particolare di quella notte che stava per iniziare: una solitudine deprimente. Il buio più pesto mi bendava, raggelando il sangue nelle vene, trasmettendo al mio animo una sorta di subdola sensazione di sicurezza. Il lento e inesorabile scorrere del tempo veniva scandito da un orologio immaginario che colpiva i miei timpani con la petulante insistenza d’ingranaggi arrugginiti. Nulla era certo, nemmeno che fossi solo. Tutto era stato concepito e vissuto in un incubo ricorrente dal quale mi risvegliavo puntualmente con la fronte madida di sudore. I rumori della strada andavano spegnendosi, rendendo la stanza ovattata, lontana, pronta ad amplificare i guaiti del mio cane guida che si tormentava, aspettandoti invano.
Le promesse, la violenza compiuta verso le mie più intime aspirazioni, la prospettiva della giornata seguente illuminata dal sole dell’abbandono e dell’indifferenza mi proiettavano in una dimensione surreale, ai limiti del verosimile. La fosca atmosfera si diradava, squarciata dallo straziante latrato d’un randagio, reso guercio dall’uomo e scacciato dal branco. Quello stesso branco e gli stessi esseri umani che m’avevano ingannato, convincendomi a pensare d’essere l’unico nocchiero capace di governare il timone d’una nave in balia delle tempeste. L’oblio, sotto forma di sonno,si presentava a dispensare torpore, tentando di addolcire le lacrime salate che segnavano le mie gote. Era un pianto liberatorio, catartico, utile a cancellare la credulità che sorella ombra amava donarmi quotidianamente. Perché, dunque, incolpare altri di qualcosa che mi apparteneva? Nessuno, proprio nessuno m’aveva costretto a dar credito agli impostori.