La vetrinetta di zio Enrico
Dovremmo rispettare di più lo sguardo dei bambini. Quando un bambino guarda, sta guardando il mondo, per la prima volta. E' un intimo contatto con un fenomeno magico, incompreso interamente dai grandi: è la creazione del suo universo, che gli si propone per la prima volta. Oggetti, fisionomie, colori, suoni, travalicano il suo stupore, per annidarsi, per sempre, nel suo animo. Quante volte, da bambino, mi si diceva “non è per te, non puoi capire”, facendo in modo che io capissi in anticipo ciò che poteva andar ignorato, ancora per qualche tempo. Quella assurda nascita dei bimbi, tra le foglie di un cavolo, di chi sarà mai stata? Quella immonda favoletta ha tappato la bocca ad un'intera generazione. Altro non si poteva chiedere, se non attendendo alla pietosa cameriera di casa, a volte troppo cruda. Sono consapevole della capacità percettiva e di giudizio di un bimbo di cinque, sei anni: i miei giudizi, dati allora, sulla cerchia dei miei parenti, sono rimasti incorrotti per una vita. Zio Enrico, nella mia famiglia di impiegati, laureati, gente bene, era guardato male. Era il fratello di mia nonna paterna, Olga, famiglia romana. Zio è l'unica persona che si è salvata nella mia mente, avvolta da un mantello fantasioso, lasciando gli altri in una tenue nuvola di banalità. Aveva navigato una vita sui “vapori” dell'epoca, facendo il cameriere di prima classe. Conosceva e parlava dei porti più impensati del mondo. Ma il suo pezzo forte era il racconto del siluramento, durante la prima guerra mondiale, del suo bastimento. Era un film, che mi facevo replicare, ogni volta che lo si invitava a casa, per qualche lavoretto, di cui lui era maestro. Di quel racconto, due quadri, li ho ancora vivi: le ascelle piagate di chi si buttava a mare, per salvarsi, dall'alto del ponte, a braccia aperte; il casuale incontro, tra i flutti, col comandante, in procinto di annegare e il suo salvataggio. Gli conferirono una medaglia di bronzo, di cui era fiero. Andavamo raramente a trovarlo, il percorso in tram era lungo, Pegli, periferia di Genova. Ci veniva ad aprire in canottiera, coperto di truccioli di legno, scusandosi di aver dimenticato il preavviso della nostra visita. Aveva un laboratorio di falegnameria in casa. Mi aveva costruito i primi giocattoli. Ci attendeva un polveroso divano, tra gatti miagolanti e arruffati. Scompariva per poco, per rientrare con il suo capolavoro, zia Elvira. Un pathè di ciccia indolente, avvolta in una vestaglia cinese dai mille draghi. Un'aura di profumi accompagnava una voce languida, sonnacchiosa. Capelli bianchi, dimenticati sparsi sulla schiena. Nonna Olga faceva strane smorfie, quando si riferiva a lei, in famiglia: “presa chissà, in quale porto, losco lavoro, problemi all'utero....” Era meglio non addentrarsi troppo. “Frou‐frou” e rosolio ambrato ci attendevano, offerti da una mano ingioiellata, le cui dita affusolate terminavano in unghie lunghissime e luccicanti di smalto. Io raggiungevo subito il mio posto preferito, la vetrinetta. Ancora adesso, dopo una vita, vedo quel vetro, che mi separava da un mondo di favola. Quegli oggetti da “guardare e non toccare” furono le tracce dei miei primi viaggi, sia pur di fantasia. Venivano da mondi lontani: bamboline, dai strani vestiti, uova esotiche, piume variopinte, maschere, strumenti musicali, quadrucci dai colori sgargianti, rifiniti con ali di farfalle, armi, ed altri piccoli utensili, di cui non chiedevo l'uso. Restavo così, per tutto il tempo della visita, in un incanto di sensi, rubando i profumi, che sembravano voler uscire dalle fessure della vetrinetta. Le parole degli altri erano eco lontane. Ho avuto sempre il dubbio che il mio perenne bisogno di viaggiare fosse derivato non tanto dal desiderio di conoscere il mondo, ma dal ricrearmi la vetrinetta di Zio Enrico. Come in realtà è avvenuto.