Le belle famiglie
Elisa si incamminò verso la palazzina in fondo al viale, dove era vissuta fino a cinque mesi prima.
Come al solito non era stato difficile parcheggiare. I ciliegi giapponesi erano già fioriti lungo tutto il marciapiede. I leggeri soffi della primavera nascente, a quell’ora di sera, le facevano provare una sensazione di freddo, qualche brivido... O forse era solo la situazione, o magari un po’di nostalgia. No, nostalgia quasi per niente. Ma il senso del tempo passato, questo lo avvertiva! Aveva lasciato lì anni della sua vita che nessuno le avrebbe mai restituito. Chiunque, al suo posto, avrebbe provato una certa emozione. Era del tutto normale.
Elisa si sistemò i capelli lunghi e sottili appena lavati, esitò un istante e suonò il citofono.
‐ Sì, chi è?
‐ Sono io, sono venuta a ritirare la gabbia. Puoi portarmela un momento giù?
‐ Ma no, che dici… sali tu. Sono solo, non ti preoccupare. Dai, due minuti!… Parliamo un po’.
Elisa giunse al sesto piano. La porta era socchiusa, ma dietro l’uscio c’era già Amos ad aspettarla.
‐ Avanti. Oh, come sei elegante! ‐ l’accolse con gli occhi lucidi ‐ E che bei capelli! Li hai schiariti un po’, vero? Ti trovo veramente bene.
Lei sorrise e avanzò piano verso il soggiorno. Si avvicinò a una grande gabbia nella quale una vivacissima gracula religiosa saltava molleggiandosi da un posatoio all’altro, sbatteva le ali quasi come se riconoscesse l’ospite e perciò le facesse festa.
Il grosso volatile si mise subito a gridare il proprio nome “Giacomino” passando repentinamente da toni gravi e seri a vocine acute e perfino… Sì, si poteva dire perfino vezzose. Com’era buffo e simpatico! Quelle strane variazioni vocali erano state sempre la sua principale abilità, motivo di curiosità e di ammirazione da parte dei conoscenti.
All’improvviso Giacomino scoppiò addirittura a ridere.
‐ E’ sempre bravo. ‐ disse Amos ‐ E' proprio la tua risata! Ti ricordi che divertimento quando ci provò la prima volta? Dopo averti sentita ridere con le amiche tutto il pomeriggio, lui aveva imparato alla perfezione. E ti confesso che, quando fa così, mi sembra di averti ancora in casa… ‐ aggiunse sottovoce e ostentò un sospiro.
Elisa ricordava quell’episodio con esattezza. Si avvicinò all’uccello e gli sussurrò “ciao”. E lui si affrettò a ripetere più volte “ciao, ciao, ciao”, una delle numerose parole che conosceva, che caro! con accenti che oscillavano fra la sorpresa e la tenerezza.
‐ Mi dispiace, ma ho dovuto avvisarti. Sono troppo impegnato… E’ un animale che richiede cure e pulizie, io non ho tempo e poi… da quando non ci sei tu… non sono mai in casa. Perciò, come ti dicevo per telefono, non posso…
‐ …Lo terrò volentieri io. ‐ interruppe Elisa e fece per prendere la gabbia.
‐ No, che fai? Pesa troppo… lascia stare… ci vorrà un attimo, dopo ti accompagno fino alla macchina. Su, siediti un po’… facciamo due chiacchiere, o hai fretta? Ti faccio assaggiare un vino speciale che mi ha portato un amico dalla Sicilia. Ti va?... Allora, dimmi, come stai?
‐ Bene. ‐ rispose Elisa e andò a sedersi su una poltrona.
‐ Io no…
‐ Perché? Che cos’hai?
‐ Niente, mi è seccata molto questa faccenda…
‐ Quale faccenda?
‐ La tua. Che tu te ne sei andata, che hai lasciato la casa quella sera stessa… ‐ spiegò Amos mentre si avviava verso la cucina.
Durante la sua assenza Elisa lanciò un’occhiata fuggevole intorno. C’era il solito arredamento, tutti i quadri che lei stessa aveva dipinto con tanta ispirazione, qualcuno degli oggetti che avevano ricevuto quattordici anni prima, lei e il marito, come regalo di nozze. Non si notava nessuna modifica, come invece la presenza di un’altra donna in quella casa le aveva fatto più volte immaginare.
Amos tornò con due bicchieri di vino dal bel colore rosso‐arancio e andò a sedersi sul divano, di fronte a lei.
‐ Hai visto? Non è cambiato niente. Ogni cosa è al suo posto. Guarda qua… perfino nei cassetti!
Elisa abbassò lo sguardo: effettivamente, nel cassetto semiaperto del tavolino, c’erano alcune cartoline che lei aveva conservato lì proprio uno degli ultimi giorni!
‐ Questa è ancora la tua casa. Puoi tornare quando vuoi.
‐ Questa non è più la mia casa dalla sera della tua “cenetta intima”. Hai dimenticato? Avevi preparato per lei una tua specialità, non ricordo quale… Eravate proprio lì in cucina. In casa mia. Quante bugie mi avevi sempre raccontato! Se ti rivolgevo domande, mi rispondevi “non sono affari tuoi”. Mi rimproveravi di essere gelosa per niente, dicevi che mi sognavo le cose, che avevo troppa fantasia… E poi mi gridavi “sei fissata, tu sospetti per tutto, fatti revisionare il cervello”… Te lo ricordi, sì o no?
‐ Sì, sì, comunque sei stata tu ad andartene. Te lo avevo detto che sarebbe stata solo questione di tempo. Dovevi aspettare! Prima o poi sarebbe finita, anzi… è già finita. Ormai ci vediamo sì e no… E tutto questo solo perché il suo ragazzo l’aveva lasciata! E così… si era attaccata a me…
‐ Troppo comodo, che pretese! Aspettare!… ‐ si ribellò Elisa.
‐ Sei sempre drastica. ‐ ribatté Amos con una smorfia di rabbia, poi riprese: ‐ Si capiva che non poteva durare: lei diciotto anni, figurati… All’inizio, va tutto bene, ma poi… Che cosa si può dire, secondo te, una di quell’età con un uomo di trentanove? Ammetti piuttosto che non t’importava troppo di me, visto che mi hai lasciato senza pensarci tanto…
‐ Amos, tu lo sai da quando mi hai conosciuta… Non eri il mio più grande amore, te lo avevo detto subito, però…
‐ Magari… non ero abbastanza alto per te!
‐ No, che dici! Forse…troppi muscoli. I miei alunni ti avevano soprannominato “Maciste”, ti ricordi? ‐ scherzò Elisa ‐ Insomma, è vero, non c’era stata subito quell’attrazione che…
‐ E allora, perché mi hai sposato?
‐ Perché tu allora eri diverso. Dicevi che i miei occhi erano “pezzettini di cielo”. Mi ripetevi “Ma tu lo sposeresti uno come me? Io non ti merito!” Queste frasi dette da te con le lacrime agli occhi, da te dall’aspetto forte, un culturista! mi avevano commossa, mi avevano fatta sentire desiderata e sicura, mi ero illusa che così mi avresti aiutata a dimenticare un fidanzamento finito da poco... Avevo solo ventidue anni, poca esperienza, problemi di famiglia alle spalle. Lo so, forse ho sbagliato anch’io… eppure per me il matrimonio era già una cosa seria. Quando ci sposammo e indossai l’abito bianco con quel lungo velo candido, mi guardai allo specchio e pensai: peccato! da ora non potrò baciare più altri uomini… Ti faccio ridere? E’ vero, ero disposta a tutto, ti avrei rispettato, immaginavo che ti avrei voluto bene, e così è stato. Avrei potuto innamorarmi in seguito. Ero convinta che anche tu saresti stato un bravo marito, perciò ti ho sposato, che illusione! Invece…
‐ Invece? ‐ cercò di difendersi Amos.
‐ Invece, fin dall’inizio, mi dicevi “esci, fai quello che ti pare, non mi interessa sapere niente!” Sai… ero così giovane, mi sentivo indesiderata e ingannata, sono state poche le parentesi felici con te. Anch’io ho avuto altre “occasioni”, come le chiami tu, ho conosciuto persone che mi piacevano, per le quali stavano per nascere sentimenti forti… L’amore era in agguato, ma ho saputo resistere. Certo… perché uscivo spesso da sola ed era proprio quello che poteva succedere, dovevi immaginarlo… Però non avrei distrutto il nostro matrimonio, capisci? E poi… la tua storia con quella… Anna, si chiama così? non è stata l’unica e lo sai benissimo, ma tu eri capace sempre di lasciarmi nell’incertezza, finché…
‐ …Hai proprio il vizio di ricordarti tutto. ‐ interruppe lui con un sorriso sprezzante ‐ Hai deciso quindi di vivere sola? E’ brutta la solitudine, sai…
‐ Se è per questo… la solitudine l’ho conosciuta anche con te, per tanti anni, quando tornavi tardi e non riuscivo a prendere sonno. Allora… mi aggiravo per casa come un automa. Giacomino sonnecchiava, e durante quelle lunghe notti era la mia unica compagnia. Io me ne stavo per ore davanti al balcone cercando di riconoscere nel buio, lungo il viale, fra le tante macchine che passavano, la tua. I tuoi fari, un tuo segnale, magari un colpo di clacson… ma niente. Il traffico poi rallentava sempre più, non restava che qualche automobile sperduta. Vedevo spegnersi a poco a poco i televisori nei palazzi di fronte… con quella loro luce fredda e azzurrognola: centinaia di famiglie se ne andavano a letto… Io aspettavo fino alla fine, e quando rientravi avevi sempre la tua giustificazione pronta: i conti in ufficio non tornavano, un cliente aveva contestato l’ultima consegna, il campionario degli abiti non era pronto, la riunione era stata più lunga del previsto, ti avevano fermato i vigili, avevi forato, c'era il solito incidente davanti, avevi dovuto accompagnare un ferito all’ospedale… Così per anni… Ora so che ti interessava solo il sesso, altro che sentimenti! Eri un collezionista, tu vivevi di avventure…
‐ Ora non esagerare! ‐ commentò con un mal celato senso di compiacimento.
‐ …Io accettavo le tue scuse. Non potevo fare altro. Le accettavo a volte… solo per il sonno e la stanchezza. Ma ancora di più per l’esigenza di credere in qualcuno… O, anche, perché il giorno dopo, come sai, un lavoro di grande responsabilità mi aspettava e io avevo il dovere di riposare almeno un po’. I bambini avevano bisogno di me. “Maestra, maestra…. “ chi mi chiamava di qua, chi di là, che gioia! Io ero il loro punto di riferimento, me li avevano affidati perché li aiutassi a crescere, perché li educassi. E io… lo facevo con amore. Ora l’insegnamento mi manca, il lavoro di direttrice è arido… Spesso, chiusa nel mio ufficio, mi sento isolata…
‐ Oh, i bambini, i bambini! ‐ sbuffò Amos ‐ E’ fin troppo quello che hai dato alla scuola! Piuttosto, tornando al discorso… Perché… forse ora non sei ancora più sola?
‐ All’inizio sì. In effetti, quando sono andata via di qua così mi sembrava. Però… finalmente ero riuscita a dire “basta” alle amarezze, al dubbio, al sospetto… Avevo riacquistato la mia dignità. E’ vero, i primi tempi la sera tornavo nella mia nuova casa e avvertivo la presenza delle due famiglie accanto, un odore appena percettibile della cena, poi… qualche rumore di stoviglie attraverso le pareti, qualche sedia spostata, ma soprattutto le voci… Le voci. La mia casa invece era vuota e silenziosa. Io… non aspettavo nessuno. E intanto… si avvicinava Natale. Voi due eravate insieme, a questo pensavo, magari andavate a fare gli acquisti, allegri e spensierati. E che ve ne importava della mia solitudine e della mia angoscia?
‐ …E allora, vedi? ‐ la interruppe Amos ‐ Vuoi rischiare di rimanere così, voglio dire… sola per tutta la vita? In fondo… se insisto lo faccio per te. Ormai non sei più una ragazzina. Una donna di trentasette anni non la vuole più nessuno… Torna a stare qui. O hai pensato ancora di andartene a Napoli?
Elisa capì che stava tentando di spaventarla e di ricattarla, lo conosceva bene.
‐ Con i momenti che ho attraversato, ho dovuto ripiegare: non potevo rischiare di trovarmi sola a Napoli! In fondo ci manco da tanti anni, le mie amicizie ormai le ho qui…
‐ Avresti potuto rifartele a Napoli.
‐ Ora, poi… è già diverso… Ora… qui… mi interessa una persona.
‐ E’ sposato?
‐ No. Sai che non mi metto con uomini sposati. Perché rovinare una famiglia? Lui… non si è mai sposato, non facciamo male a nessuno. Sto vivendo un periodo felice. E’ solo l’inizio, ma va bene, e soprattutto… c’è intesa e c’è stima reciproca. Il futuro non mi preoccupa più, tanto… non esiste certezza di niente! Voglio finalmente imparare a vivere alla giornata… ‐ e con un lampo improvviso aggiunse: ‐ Sai, a proposito? Sono stata tre giorni a Napoli con lui…
‐ A Napoli? E perché? Forse questo tizio è di Napoli?...
Amos non le lasciò il tempo di rispondere “no” e riprese:
‐ Ti ricordi invece quando ci siamo stati insieme noi due l’ultima volta?
‐ Certo. Mi ricordo che allora il sogno di tornarmene nella mia città si stava quasi avverando, il mio esilio sembrava terminato. Io e te stavamo cercando di comprare lì una casa bella, magari antica, da dove si vedesse il mare, con le persiane verdi, e luminosa… Io avevo bisogno di luce, avevo bisogno di sole! Volevo una casa un po’ come quella che avevo lasciato quando mi ero trasferita a Milano per seguire i miei. E tu sembravi così convinto! Mi dicevi “mettiamo i soldi da parte per questo progetto, io a Napoli ci vivrei tutta la vita”… E me lo avevi detto fin da quando mi avevi conosciuta. Te lo ricordi? Del resto, anche tu avevi lasciato il tuo paese al sud e avevi sempre un po’ di nostalgia. All’inizio mi avevi fatto leggere una tua poesia sull’Ofanto assetato d’estate… Tu mi potevi capire…
‐ E come! ‐ interruppe Amos schiarendosi la voce e cercando di nascondere un po’ di commozione.
Elisa pensò che da diversi anni lui le aveva fatto versare lo stipendio sul conto. “Quelli non si toccano, quelli serviranno per comprare la casa a Napoli”. E lei ci aveva creduto, aveva messo da parte i suoi soldi ma, quando lo aveva lasciato, in banca non aveva trovato che trecentomila lire! E così con l’enciclopedia tanto necessaria per i suoi lavori, e così con i quadri… Ormai li aveva perduti! Non aveva più niente, aveva ricominciato tutto daccapo, con una casa vuota.
Però non disse nulla, non aveva voglia di ricominciare con le discussioni.
‐ Elisa, ti ricordi quando, i primi tempi, ti chiamavo “sangue vesuviano”? Sembravi un vulcano attivo, davvero, piena di energie, incredibile… Mia madre, quando ti aveva conosciuta, mi aveva detto “quella ragazza mi piace, ha gli occhi che parlano”… Del resto… sei sempre carina come allora…
Elisa non si curò del complimento e riprese il discorso:
‐ Non so se ti ricordi un particolare. Una mattina, sempre a Napoli, stavamo aspettando un pullman. Un vecchio quasi cieco ci pregò di avvisarlo se fosse passato il 121, doveva tornare a casa. Poi ci raccontò che da giovane era stato cantante e, come per ringraziarci, intonò quella bellissima canzone… E pensare che tu… allora… eri già… Avevi già un’altra. Che cosa fai, sorridi?… Perché? Oh, quando sorridevi così, in quel modo ironico, mi facevi tanta rabbia. Sai? Non riuscivo a sopportarti…
‐ …Quale canzone? Non me la ricordo… ‐ finse Amos.
‐ Era de maggio… e te cadeano ‘nzino a schiocche a schiocche li ccerase rosse. Fresca era l’aria e tutto lu ciardino addurava de rose a ciento passe. ‐ cominciò a cantare lei con voce sottile, ma si fermò dopo pochi versi, deglutì e aggiunse:
‐ Bella canzone, quanto mi mancava la musica della mia città… e pensa… era proprio il mese di maggio!… Quanta malinconia in quei versi di Salvatore Di Giacomo... Poi continuò:
‐ Era de maggio, io no, nun me ne scordo…
Bruscamente la conversazione fu interrotta dal suono del campanello. Amos si alzò di scatto come contrariato. Sbuffò e brontolò fra i denti: ‐ Aveva detto che non sarebbe venuta stasera!… Questa non è mai precisa e poi… che modi… ora non suona neanche più il citofono! Troppa confidenza, ma la colpa è mia.
Si avviò rapidamente verso la porta, mentre Elisa diceva “io vado via subito…” e si avvicinava alla gabbia per portarla via.
Guardò l’uccello appisolato: ‐ Ecco, vedi? Quando si sfasciano le famiglie ci si dividono perfino i figli! Ma vedrai che staremo di nuovo benissimo insieme, Giacomino...
L’uccello stiracchiò buffamente prima un’ala, poi un’altra, mentre Elisa si sganciava e si riagganciava il fermacapelli: che disagio, che situazione incresciosa! Avrebbe dovuto immaginarla una possibilità del genere… Una volta tanto nella sua vita non era stata previdente! Ora doveva uscire presto con quella gabbia pesante… e in più… senza sollevare lo sguardo.
Ma intanto… dal corridoio giungeva stranamente una voce maschile sconosciuta e piuttosto trafelata:
‐ Speravo di finire prima… Signori, scusate per l’orario. Si sa, non è dei più comodi! E’ quasi ora di cena, è proprio il momento in cui le famiglie possono stare un po’ tranquille insieme, magari dopo una giornata pesante di lavoro…
Elisa tirò un sospiro di sollievo e alzò lo sguardo: seguìto da un chierichetto, un anziano sacerdote entrò in soggiorno e posò frettolosamente un’immaginetta sul tavolo.
‐ Buona sera… ‐ salutò Elisa.
‐ Buona sera, signora, sono il nuovo parroco. Cosa vuole… il palazzo è così grande e bisogna pur dire due parole ai fedeli! Mi restano ancora tre piani di sopra. E poi, domani…
In quel momento si sentì aprire la porta d’ingresso… Quando fu nel soggiorno si bloccò: ormai non c’era più niente da fare per tornare in corridoio, o uscire, o sprofondare. Anna, questa volta era proprio lei, restò impacciata e immobile sulla soglia…
‐ Oh, che bella famiglia! ‐ commentò pronto il sacerdote e, rivolgendosi direttamente alla ragazza, le disse: ‐ Giusto in tempo anche tu per la benedizione pasquale, cara figliola.
Lei fece uno sforzo per sorridere e il parroco incalzò: ‐ Quanti figli siete? Hai altri fratelli o sorelle?
Anna, solo con un indice, il volto inespressivo, celando l’imbarazzo, fece cenno di no.
A quel punto il sacerdote levò lo sguardo, si sistemò meglio la stola, socchiuse gli occhi, si fece il segno della croce: ‐ Vi benedico nel nome del Padre…
Poi incitò di colpo, ma benevolmente, il bambino che lo accompagnava. ‐ … Su, su! ‐ Gli scompigliò i capelli e: ‐ Dai, Mariolino, ormai hai imparato come si fa, no?
Il chierichetto, evidentemente inesperto, arrossì e si decise a far oscillare pian piano l’aspersorio.
A quel forte profumo di incenso, di chiesa, Elisa avvertì un senso di benessere, quasi di pace, come non le capitava da anni. Ormai non provava più il rancore dei primi tempi, la tempesta era passata, quella triste parentesi della sua vita si era conclusa. E poi… ora aveva tanta dolcezza nel cuore. Era innamorata. Non voleva sapere davvero quanto tempo sarebbe durata quella grande gioia. Oh, non le importava! Doveva ritenersi già fortunata che le fosse accaduto di nuovo… Che l’amore avesse trovato ancora posto nel suo cuore. Che tristezza invece se la sua vita si fosse conclusa così, col perenne ricordo di quel fallimento…
Finalmente sentiva che qualcuno l’amava, perciò trascorreva le ore che precedevano gli incontri… a danzare. Sì, a danzare nella sua nuova casa, da sola… A danzare leggera, al suono delle musiche più belle che sceglieva pensando a lui, a Domenico! Ora non c’era più il vuoto dei giorni e delle notti. Le sembrava di essere tornata indietro nel tempo, si sentiva addirittura un’adolescente con quella musica! E allora danzava, danzava esprimendo il suo amore, il suo desiderio, la sua felicità. Tutto era nuovo e splendido in quella primavera che stava per arrivare.
‐ Su… adesso salutiamo. ‐ disse il sacerdote al chierichetto timido, e continuò sotto voce distrattamente: ‐ Quindi… domani pomeriggio ci restano ancora tutta la scala C e la D…
Poi, come ritornando improvvisamente alla realtà, aggiunse:
‐ Arrivederci, e… complimenti per la famiglia. Com’è difficile oggi trovarne così, coi tempi che corrono! Ora è tutto un disfacimento, non esistono più certi valori… Che volete, io lo so… Io purtroppo conosco tante di quelle situazioni!… Ma… guardateli un po’, ‐ esclamò scherzosamente alla fine, rivolgendosi ad Amos e a Elisa ‐ guardateli! Sembrano ancora due freschi sposini!… Buona sera, buon appetito, e di nuovo… i miei complimenti. Oh, Signore, fa' che ce ne siano tante di famiglie belle così!…