Le due cornacchie azzurre
Anselmo Mattioli era un commerciante di borse, stivali e cinghie di pelle a Forlìmpopoli (l'antico Forum Populi, sorto forse per volere di Cesare), importante centro commerciale ed agricolo in provincia di Forlì, distante circa otto chilometri dal capoluogo. Il suo negozio, che il padre Carlo li aveva lasciato in eredità diciassette anni prima, nell'estate del 1904, era ben avviato e si trovava nella via di Mezzo del paese.
Il padre di Anselmo era morto assassinato da un colpo di fucile, sparatogli a bruciapelo in pieno volto alla locanda Am'arcord, in via Baratti; questioni di gioco, di donne e di politica, dissero in paese: quello, infatti, era un un anarchico e donnaiolo sfegatato, chi li sparò, evidentemente...no!
I carabinieri (quelli col pennacchio), allora chiusero presto le indagini; dell'assassino, infatti, neanche l'ombra (forse, chissà, si trattava di uno dei tanti mariti, colpiti nell'onore dal padre di Anselmo e venuti di passaggio in paese per una scorribanda spara e fuggi).
‐ Tutto archiviato per mancanza di indizi (e di un colpevole, ovviamente!) ‐ affermò all'Anselmo, cinque settimane dopo, il maresciallo Salvemini (e lo trascrisse pure sulle scartoffie). Il giudice capo di Forlì, Matteo Busatta, un veneto trapiantato da due lustri in Romagna, il quale aveva seguito le indagini coi carabinieri, avvalorò la tesi del maresciallo:
‐ Tutto è bene ciò che finisce bene (per lui, evidentemente!), ‐ disse al Salvemini, ‐ in fondo, il morto, era soltanto uno di quelli (un anarchico, cioè) e nulla di più, uno in meno sulla faccia della terra!
Ogni mattina, tranne il sabato e la domenica quando restava chiuso (oppure nei giorni della fiera di San Pellegrino, in maggio, a Forlì, ed in quelli per i festeggiamenti della sega vecchia, in marzo, a Forlìmpopoli), Anselmo, alle otto e trenta, puntuale come un orologio svizzero o un meteoròlogo inglese, apriva il suo negozio e lo richiudeva soltanto alle diciannove; dopo di che tornava a casa: viveva da solo, in un piccolo appartamento (ben curato) sulla piazza Garibaldi, al centro del paese, proprio di fronte alla massiccia costruzione trecentesca della rocca. Era un uomo tranquillo, senza grilli che li ronzassero intorno o fronzoli che li girassero per la testa, ed amava la vita semplice. Unica sua passione era la buona tavola e, ogni tanto, qualche bicchiere in più di Sangiovese. Cucinava ogni cosa alla perfezione: pasticcio alla romagnola, brufabarba, polenta cogli uccelletti, riso con la tardura, cavoli romagnoli stufati, cappelletti pasticciati con funghi e pancetta, passatelli, pelle di cotechino in umido, agnello alla romagnola, migliaccio, castagnole, sfrappole, etc. Gli unici suoi "clienti", fissi nonchè affezionatissimi, erano i cani ed i gatti del paese a cui l'uomo soleva portare congrue porzioni delle sue squisitezze. Quando una mite mattina di novembre (verso le dieci e trenta, minuto più minuto meno), senza nebbia nell'aria e nembi oscuri in cielo, Anselmo se ne stava sulla porta del negozio (a godersela o, come suol dirsi, a crogiolàrsi al sole come una lucertola, dopo aver servito alcuni clienti ed aver ordinato la merce nelle vetrine) si diresse verso di lui un vagabondo coi baffi, un pantalone alla zuava rosso ed un basco bianco e nero in testa, che portava con sé due cornacchie azzurre chiuse in una gabbia.
Dicasi, invero, di cornàcchia: quell'uccello, simile al corvo ma più piccolo e meno sgraziato; molto intelligènte, però...oppure di persona, con voce stridula e chiacchierona; o, ancora: cornacchione, cioè, colui che chiacchiera molto...(di) più di una cornàcchia!
Quando l'uomo gli fu vicino chiese:
‐ Signore, volete comperare queste due simpatiche cornacchie azzurre? Sono anche rare, vedete, vengono dall'Irlanda, dalla lontana contea di Louth. Pensate, me le ha regalate un marinaio francese sbarcato con un cargo a Genova, venticinque giorni fa.
(L'uomo, evidentemente, era stato nel capoluogo ligure ma non era per niente sicuro il fatto se quelle cornacchie fossero realmente originarie dell'Irlanda!).
Il vagabondo a quel punto si fermò, un attimo appena, poi riprese a parlare:
‐ Sono state dipinte di azzurro da un contadino, come il colore del cielo, perchè era solito usarle per allontanare gli altri uccelli dal suo raccolto; così, signore, credetemi, mi ha raccontato quel marinaio.
Anselmo guardò il vagabondo diritto in mezzo agli occhi, quasi con divertita pietà, e dentro di sé pensò:
‐ Chissà chi é costui? Questo, mi sa, deve essere tutto matto...mai sentito che i contadini dipingano le cornacchie di azzurro!
‐ No, non ne voglio proprio, ‐ rispose al vagabondo, ‐ non mi interessano.
‐ Signore, ‐ replicò l'altro, ‐ la prego, ci ripensi; andiamo, su, ve le vendo insieme a poco prezzo: la coppia per appena nove lire.
‐ Mi hai capito o sei sordo? ‐ replicò Anselmo. ‐ Va via che ho da lavorare. Non son mica un perditempo, io!
L'uomo, così, ascoltate che ebbe quelle parole, chinò il capo con rassegnazione e, dopo aver salutato Anselmo agitando il basco che avea nella mano sinistra, si voltò per andarsene. Mentre se ne stava andando, però, quello lo richiamò:
‐ Ehi, tu, colle cornacchie, ‐ disse, ‐ vieni un po' qua (evidentemente, aveva cambiato idea: forse, chissà, pensò bene che quei due strani uccelli li avrebbero tenuto compagnia).
‐ Sì, signore, ‐ fece il vagabondo, tornando indietro, ‐ mi dica, ha per caso cambiato idea?
‐ Quanto hai detto che vuoi per quei due "tipi" che ti porti dietro?
‐ Soltanto nove lire; anzi, visto che mi siete proprio tanto simpatico gliene cerco appena otto: va mica bene per lei, lustrissimo?
‐ Va bene, dai, te ne do lo stesso nove, perchè mi sembri un buon uomo, in fondo!
Il vagabondo, così, prese i soldi e lasciò ad Anselmo la gabbia cogli uccelli. Dopo di che sollevò il basco che aveva rimesso in testa, per ringraziare. Prima di andarsene esclamò:
‐ Lei, signore, è un uomo di gran cuore e la vita le vorrà bene!
Anselmo entrò in negozio pensoso: doveva decidere dove mettere la gabbia con le cornacchie. Dopo qualche minuto prese la decisione. Nel retro del negozio, alla parete erano appesi due quadri: uno era quello con la foto del papà di Anselmo, Carlo; l'altro, invece, raffigurava il ritratto di Gaetano Bresci, l'anarchico che aveva fatto fuori Umberto I° a Monza, nel luglio 1900. L'uomo, allora, prese la gabbia con le cornacchie e l'appese con un chiodo al muro vicino ai due quadri, proprio nel mezzo tra l'uno e l'altro. Dopo di che cominciò, per ischérzo, a ripetere a entrambe:
‐ Sono Gaetano Bresci, l'anarchico.
In poco tempo gli uccelli impararono quelle parole; e quando avevano sete, poi, o volevano da mangiare, strisciavano il becco sulle grate della gabbia oppure lo battevano contro la base e gridavano all'unisono: ‐ Sono Gaetano Bresci, l'anarchico.
Tutto ciò andò avanti all'incirca per un anno. Intanto, dopo la marcia su Roma del 27 ottobre 1922, il fascismo imperversava in tutta la penisola: tra il 1925 e il 1927 si compì la fascistizzazione dello stato, in seguito a cui Benito Mussolini assunse pieni poteri e diventò un dittatore. Le squadracce nere distribuivano, a destra come a manca, manganellate, olio di ricino e, dove occorreva, purtroppo, anche colpi di rivoltella: l'opposizione era ridotta ai minimi termini (il "biennio rosso", ormai, e le ondate di scioperi ed occupazioni delle terre e delle fabbriche apparivano lontanissime chimere. Nell'agosto 1922 l'ultimo sprazzo di libertà aveva illuso i sognatori: la rivolta di Parma, organizzata dagli Arditi del Popolo. Allora, la città, l'unica in Italia, riuscì a tener testa ai fascisti. Il 6 agosto, la spedizione comandata da Italo Balbo si ritirò con la coda tra le gambe senza aver avuto ragione della resistenza dei Parmensi) ma, di tanto in tanto, non faceva mancare la sua voce.
In paese, ad esempio, due giovani operai delle officine "Liberati" di Forlì (Rinaldo Tofoli, detto "il rosso" e Franco Galimberti, detto "il barbazza") nel 1929, il I° maggio, dettero fuoco alla "Casa del Fascio", in via Spanò: entrambi, poi, riuscirono a scappare oltre confine, in quel di Zurigo (Svizzera tedesca), grazie alla colletta di alcuni compagni; un gruppo di contadini, invece (tra questi anche Giovanni Bicchierai, detto "il lungo", amico fraterno di Anselmo, il quale abitava in via Artusi proprio dirimpetto alla chiesa di San Ruffillo e quasi vicino alla piazza Garibaldi), organizzò, l'anno dopo, uno sciopero nelle campagne del forlivese per protestare contro le inumane condizioni di vita a cui li costringevano i proprietari terrieri ed i latifondisti, aqquartierati spesso coi ladroni e i filibustieri del regime (la Carta del Lavoro, infatti, nel 1927 aveva sancito l'organizzazione statale secondo forme di rappresentanza economico‐corporativa limitando, tra le altre cose, sempre più i diritti di uomini e donne nelle campagne, e l'anno prima, inoltre, eran stati sciolti i sindacati liberi a favore di quelli fascisti, gli unici a rappresentare, oramai, i lavoratori). Al termine della manifestazione uno degli scioperanti, soprannominato "fratello sole" (un anarchico venuto in Romagna dall'Umbria, il paese di Bastia, vicino ad Assisi, di cui nessuno conosceva il vero nome) sparò una schioppettata a un padrone, ferendolo ad una gamba: fu subito imprigionato nella rocca di Ravaldino, a Forlì, allora adibita a carcere, dopo di che condannato dal tribunale a dodici anni di confino coatto da trascorrere a Campese, sull'isola del Giglio, in Toscana, e sull'isola d'Elba (la stessa che aveva dato dimora ed esilio, qualche decade addietro, ad un certo Napoleone, alias Bonaparte).
Nel frattempo accadde che anche le cornacchie di Anselmo, bontà loro, si erano "evolute", insieme ai tempi (oppure, chissà, "involute": dipende, casomai,, dai punti di vista!). Erano, quelle, diventate domestiche uscivano dalla gabbia, sovente lasciata aperta dall'uomo, saltellavano liberamente nel negozio ed a volte, anche, si posavano amichevolmente sulle spalle dei clienti che entravano nello stesso a fare compere.
Da qualche tempo, inoltre, Anselmo aveva fatto sistemare, nel retrobottèga, un tavolo e delle sedie: alcuni amici del paese, infatti, (tra questi diversi "sovversivi"), vi si riunivano per bere qualche buon bicchiere di rosso, o per fare qualche partitina a briscola e parlare dei tempi oppure del più e del meno. Uno di questi, che si chiamava Giuseppe Guerra (soprannominato dagli amici "la mano destra di Dio", a causa della innata capacità di spennare tutti al gioco!), soleva gridare ai compagni di tavolo, quando vinceva una mano: ‐ Guarda come li faccio fuori tutti!
Gli uccelli, che nel frattempo Anselmo aveva ribattezzato coi nomi di Cric e Croc per il loro modo, a detta di tutti, alquanto insolito di aprire e chiudere ritmicamente il becco quando parlavano, impararono in fretta anche quelle parole visto che spesso gironzolavano vicino al tavolo da gioco. Da quel momento in poi, infatti, quando meno era previsto, le pronunciavano (ai clienti del negozio, ad Anselmo, agli stessi amici di quello mentre giocavano, etc.), in combinazione a quelle già apprese in precedenza:
‐ Sono Gaetano Bresci, l'anarchico. Guarda come li faccio fuori tutti!
Le parole pronunciate dalle cornacchie, insieme al loro comportamento, provocavano ilarità e buonumore tra gli amici di Anselmo ma anche, chissà...
Giunsero, infatti, a distanza di non molto tempo, alle orecchie sbagliate, attraverso il vecchio ma efficace modus del "passaparola" vieppiù noto anche come quello delle spie sempre all'erta: è facilissimo che fosse successo così visto che era antico come il cucco e molto in voga all'epoca!
Accadde che tre fascisti, amici del ras di Forlìmpopoli Primo Guzzanti, entrarono in negozio, un giorno, con fare non proprio amichevole. Uno di loro, Aldrovandi Saverio (detto "manomorta"), d'amble disse:
‐ Ehi, Anselmo, girano strane voci su di te e sul tuo negozio, sai?
‐ Che dici? Non so mica di cosa parli!
‐ Sì, alle nostre orecchie sono giunte strane voci: dicono che quì dentro si fanno...
‐ Ah! Ah! ‐ esclamò Anselmo, interrompendo l'altro. ‐ Certo, sono le mie cornacchie: io gli insegno delle cose buffe da ripetere ai clienti per tenerli in allegria. Niente di altro, credetemi!
L'uomo, in effetti, aveva mentito (costretto a farlo, dato i tempi in corso, per salvare il suo negozio e, forse, qualcos'altro!): sul fatto, cioè, che il retrobottèga fosse spesso frequentato anche da persone che definire poco simpatiche ai fascisti è di certo un eufemismo!
‐ Ma, forse, chissà...sarà pure così! ‐ disse "il Patacca", compagno di squadra del "manomorta", un galantuomo che portava sul fianco destro una vecchia Luger 7,65 (di quelle usate dall'esercito italiano nella Grande guerra) e sull'altro il manganello sempre all'erta.
‐ Stai attento a te, però, Anselmo; ti consiglio di non metterti nei guai...e fila sempre diritto se vuoi campar felice!
‐ Agli ordini, sarà fatto! ‐ fece quello.
‐ Sì, sì...esclamarono in combutta i tre ed andarono via.
Non appena furono fuori dal negozio, Anselmo andò nel retro ed esclamò, ad alta voce e ben tre volte: ‐ Morte al fascio! Morte al fascio! Morte al fascio!
Le cornacchie, le quali evidentemente non dormivano mai ed erano, anzi, sempre all'erta e con le orecchie ben diritte, a loro volta ripeterono, insieme, le parole pronunciate poco prima dal loro padrone: ‐ Morte al fascio!
‐ Porca puttana zozza...‐ imprecò, allora, fra sé e sé l'Anselmo ‐ boia d'un mondo ladro e che mi venga pure un cancher: me n'ero proprio dimenticato!
In effetti, al povero Anselmo era del tutto passato dalla mente che in negozio c'erano sempre i due ospiti: a tenerli compagnia.
E le cornacchie, ancora (quasi quasi a voler mettere il coltello nella piaga e far adirare il padrone ancor di più!):
‐ Sono Getano Bresci, l'anarchico. Guarda come li faccio fuori tutti. Morte al fascio!
Alle parole che già conoscevano, gli uccelli avevano aggiunto quelle imparate di fresco: proprio una bella filastrocca, non c'è che dire!
‐ Porco Dio! ‐ prima borbottò Anselmo a voce bassissima e poi digrignò i denti. ‐ Hanno una memoria di ferro quelle due lì e un'udito finissimo; mica gli sfugge niente, cavolo!
Nel frattempo nel negozio entrò Giovanni Artusi, il matto di Forlìmpopoli (lo chiamavano tutti, in paese, "Giovanni dalla benda nera", per via d'una benda nera, appunto, con cui, pur non essendo affatto orbo, soleva coprirsi l'occhio destro), il quale domandò:
‐ Ehi, Anselmo, hai mica un paio di bretelle di straforo da vendermi? Che i calzoni, sai, non mi stanno più dritti...
‐ Senti Giovanni, ‐ replicò l'altro, ‐ non è momento questo: torna nel pomeriggio che vedo se posso aiutarti. Torna più tardi, dai, ho da fare adesso!
Anselmo era ancora arrabbiato, e non poco, con sé stesso: per le parole nuove che Cric e Croc avevano imparato...suo malgrado. Ma l'Artusi, però, dal suo canto non la prese per niente bene (evidentemente!).
‐ Bestia, ricordati che devi morire! Ricordati che devi morire! Ricordati che devi morire! ‐ urlò il matto ed andò via incazzato nero.
‐ Sì, d'accordo: ora me lo segno così non lo dimentico. ‐ replicò sarcasticamente Anselmo. ‐ Fai bene, sai, a scappar via perchè oggi non è proprio aria!
Nel frattempo, però, gli uccelli erano saltati fuori dalla gabbia, mettendosi proprio alle spalle di Anselmo ch'era in piedi dietro il banco e che, da par suo, non s'era avveduto di nulla. Non appena si voltò venne colpito di getto dalle loro parole (quasi come fossero pietre scagliate da una catapulta!).
‐ Bestia, ricordati che devi morire! Ricordati che devi morire! Ricordati che devi morire!
‐ Ma chi me l'ha fatto fare? ‐ esclamò allora Anselmo dentro di sé. ‐ Mio padre, bontà sua, mi ha lasciato una bottega ben avviata, pure un piccolo gruzzoletto con cui andare avanti...dovevo proprio prendere quelle due lì? Boia d'un mondo lader!
Le cornacchie, intanto, dal retrobottèga, quasi a volersi prendere giuoco dell'uomo, ripeterono all'unisono: ‐ Sono Gaetano Bresci, l'anarchico. Guarda come li faccio fuori tutti. Morte al fascio. Bestia, ricordati che devi morire!
In effetti, le dolci e gentili creature avevano imparato la tiritera per intiero: ossia, alla fine delle parole precedenti avevano aggiunto quelle nuove, come sempre; facendolo in maniera metodica e quasi maniacale: sembrava, insomma, come se seguissero un piano prestabilito, diabolico e ben costruito, forse...quasi umano!
Passaron così alcuni anni: stancamente e noiosamente, per l'Anselmo, la vita scorreva, seppur ‐ come al solito ‐ in maniera semplice e dignitosa. Venne un'estate, fu quella del 1932, quando cadeva l'anno 10° dell'era fascista (così era denominata quell'epoca iniziata, entrata in "vigore" dalla marcia su Roma in poi). In paese fervevano i preparativi per il grande evento o "giorno dei giorni" (da tutti veniva così chiamato), probabilmente più importante dei sabato fascisti che avevano luogo durante il corso dell'anno: di lì a poco, infatti, sarebbe arrivato in visita il podestà di Forlì Aristide Rampini. Il suddetto, originario di Lugo di Romagna, la cittadina in provincia di Ravenna che aveva dato i natali a Francesco Baracca, eroe dell'aria nella Grande guerra (la moglie, invece, a tutti nota in paese come l'Adalgisa, una bruna con le enormi tette, era invece nata a Luzzara, nel reggiano, capitale del pesce gatto in padella e delle anguille con piselli e polenta), era un tipo arcigno e tutto d'un pezzo (sulla fiancata destra dell'auto con cui solitamente si spostava, una vecchia Alfa Romeo GS marroncino, guidata dal fido autista Manlio, erano incise le seguenti tre parole: "credere, obbedire, combattere!"; ovvero, la sintesi ideale del vero fascista che richiama la mitica figura del guerriero, pronto a tutto per difendere lo stato e il suo capo); carissimo amico, tra gli altri, del ras di Ferrara Italo Balbo e di tutta la cricca ferrarese. Era, il Rampini, un cosiddetto "fascista della prima ora": di quelli, cioè, che avevano sposato la causa sin dall'inizio...(da) subito (o quasi), ed indossato la camicia nera. Il giorno della visita correva di sabato e Anselmo, come suo solito, si alzò più tardi (il negozio era chiuso, come ogni fine settimana e nei giorni di fiera), verso le nove‐nove e trenta: appena in piedi, però, si ricordò di aver lasciato aperta la finestra del negozio (quella che da su una strada secondaria); decise, tuttavia, di tralasciare il fatto: ci avrebbe pensato il lunedì seguente.
Il Rampini, dal canto suo, arrivò in paese alle undici e trenta. Dopo aver pranzato, alle tredici in punto salì sul palco, allestito già dal giorno prima, di fronte alla rocca nella piazza Garibaldi: al suo fianco la moglie ed il fior fiore del fascio emiliano‐romagnolo, dal Guzzanti al Corridoni, dal Malinverni all'Arpinati di Bologna e lo stesso Balbo; ospiti d'onore il ras di Cremona Farinacci e quello di Trieste Giunta, a far le veci del Duce.
La piazza era gremita da oltre ottocento persone (molte venute anche da fuori provincia), tenne un discorso di ben mezz'ora. Al termine della cerimonia la compagnia si recò in visita alla rocca trecentesca eppoi agli altri monumenti. Verso le diciannove‐diciannove e trenta andarono di buon grado tutti insieme ad ingozzarsi al Principe, locanda‐albergo in viale Bologna, al centro del paese. Dopo cena il podestà preferì salire subito in camera, insieme alla moglie (alloggiavano in camere separate, sullo stesso piano, l'una di fronte all'altra): si addormentò con la finestra aperta. Verso le due e tredici, mentre russava talmente forte da somigliare ad una locomotiva a vapore, sul davanzale della finestra si posarono improvvisamente le cornacchie di Anselmo, le quali erano volate via dalla finestra del negozio che lo stesso aveva lasciato aperta, distrattamente. Gli uccelli cominciarono a gridare:
‐ Sono Gaetano Bresci, l'anarchico. Guarda come li faccio fuori tutti. Morte al fascio. Ricordati che devi morire!
Quelle grida svegliarono di soprassalto il Rampini che, spaventato, si alzò dal letto e, dopo aver afferrato la rivoltella dal comodino, si avvicinò alla finestra. A voce alta esclamò: . Maledizione, sto ancora dormendo o son desto? Ma no, sono sveglissimo eppure mi è sembrato d'aver udito...‐ si bloccò un attimo, quindi riprese a parlare ‐ Non ho mica le traveggole, per Dio!
L'uomo, così, puntò la pistola contro le cornacchie che gridarono ancora:
‐ Sono Gaetano Bresci, l'anarchico. Guarda come li faccio fuori tutti. Morte al fascio. Bestia, ricordati che devi morire!
‐ Non mi ero sbagliato, boia d'un cane cieco! ‐ esclamò l'uomo. ‐ Siete proprio voi che avete parlato; andate via, bestiacce, prima che vi impallini io e...
A quel punto il Rampini si bloccò; corse sul letto e vi si adagiò, lentamente: era stato colto da un malore!
L'Adalgisa, intanto, anch'essa svegliata dal trambusto, fece per entrare nella stanza del marito. Lo vide, disteso sul letto, e gridò:
‐ Cielo, Aristide, cosa ti è successo?
Quello, però, non rispose. Aveva gli occhi di traverso e la lingua penzoloni dalla bocca: sembrava più morto che vivo! Lo portarono in ospedale, a Forlì, i medici li dissero: ‐ E' stato fortunato, eccellenza, trattasi di un lieve attacco di angina!
Il Rampini, infatti, dopo alcuni giorni in osservazione nel reparto di cardiologia, fu dimesso. Da allora, però, non fu più lo stesso uomo: meno arcigno diventò e, soprattutto, meno...molto meno "tutto d'un pezzo"!
Le cornacchie, nel frattempo, dopo la "spedizione punitiva" contro il podestà, erano rientrate, per così dire, alla base, cioè, alla stessa maniera in cui erano volate via: dalla finestra lasciata aperta dal loro padrone. Il lunedì seguente Anselmo riaprì regolarmente il negozio, si ricordò della finestra aperta e la richiuse, ma mai seppe di quanto era accaduto: gli uccelli, infatti, erano al loro posto, nella gabbia nel retrobottèga...in riga come due provetti attendenti, e pronte a fare il loro dovere di discrete origliatrici.
Quaranta giorni dopo, però, ormai sul far dell'autunno, un giovedì, mentre un violento temporale era intento a tormentare il cielo sopra Forlìmpopoli ed i poveri vigneti delle campagne circostanti, accadde ancora l'imponderabile: gli uccelli, d'improvviso, volaron via, dalla stessa finestra della volta precedente. Tutto successe proprio mentre Anselmo, ironia della sorte, serviva una cliente estremamente particolare: l'Adalgisa, moglie del podestà, venuta in paese per far compere.
Quando Anselmo ebbe finito di servirla, il temporale stesso cessò (nel frattempo s'era fatta la "mezza" e le campane della chiesa di San Ruffillo risuonarono quattro volte: forse, chissà, il sagrestano Gipo aveva sbagliato a far di conto!), ma era uno di quelli veramente speciali, ossia tutti ammantati di un non so che di misterioso...che lasciano nell'aria, subito dopo, qualcosa. Fu così, infatti: un arcobaleno ridondante di luce e di colori, un profumo intenso di mosto selvatico, di quello che soltanto la campagna di Romagna e della bassa sanno dare!
Anselmo andò nel retrobottèga e si accorse della fuga delle cornacchie. ‐ In fondo, ‐ pensò dentro di sé, ‐ è giusto così, perchè i colori non si possono imprigionare né tenere in gabbia (il colore azzurro delle cornacchie, infatti, è quello del mare, del cielo e della libertà), loro sono come le idee: nessuno mai potrà farlo!
da: "Storie e racconti della bassa".
Taranto, 10 marzo 2017.