Le scale di Jasmina

Era lì. Il  viso variopinto di phard rosa e ombretto scuro. Gli occhi grandi e a panda. Il rossetto fino al naso. Il collo e le braccia e le dita, glassati di gioielli. Lunghi e diritti orecchini si attorcigliavano ai suoi boccoli rossi, nati dalla combinazione phon‐spazzola dopo interminabili minuti trascorsi davanti allo specchio del capo, il Signor Mario, nella stanza dove lui controllava tutto e riscuoteva gli incassi, i sudati, sporchi incassi. Era uno specchio 60 per 80 centimetri, troppo piccolo per raccoglierla tutta. Il suo metro e ottanta scarso comprendeva quei vertiginosi tacchi a spillo che le servivano a sentirsi più grande e a rendersi credibile quando si spacciava maggiorenne. Lui la voleva così, le voleva tutte  così. Davano meno problemi, specialmente alla dogana. Ed i suoi amici‐clienti si lamentavano meno.
Aveva un gran dolore ai piedi. Quelle décolleté erano di una taglia più piccola, ma dalla  Jugoslavia aveva portato solo quelle, pensando di indossarle in qualche spot o stacchetto televisivo, come lui aveva promesso. Eppure continuava, imperterrita, con il suo passo veloce quella sfilata aggressiva verso il freddo buio della notte, che non giustificava l’abitino nero che si sforzava di coprirle le ginocchia per ritornare, poi, a ritmo degli scalini che stava salendo, sulle sue esili cosce, velate di nylon nero a rete. Nella mano destra una pochette microscopica, piena zeppa di piccoli involucri di gomma, gli unici a volerla proteggere, nonostante qualcuno li rifiutasse in cambio di qualche lira in più. Persino una formichina faticherebbe ad entrarvi. La sinistra cercava di coprire il seno, abbandonato dal tessuto per una profonda scollatura a V e agghindato di una semplice catenina di bigiotteria dalla quale pendeva una lettera, una consonante, una M, probabilmente l’iniziale del suo nome, o di quello del suo amato. Chissà.
Aveva percorso infinite volte quella scalinata, nonostante la sua giovane età, ma mai come quella volta i gradini sembravano essere più alti, più difficili da salire, mai li aveva tanto odiati. Il tragitto sembrava essere più faticoso del solito. Era come se i gradini si innalzassero di metri quando lei vi stesse per poggiare il piede. Una scalata dura, ardua. Una scalata inesorabile. Irreversibile.
Comparve un uomo dinnanzi a lei, sul pianerottolo. Alle sue spalle, la grossa porta in legno d’ulivo tinta di bordeaux era rimasta socchiusa, pronta a spalancarsi al loro accesso e a richiudersi subito dopo, per rinchiuderla nella prigionia del dolore. La luce soffusa emanata dall’interno dell’appartamento era spezzata dalla stazza robusta dell’uomo. Lei lo guardò. Lui le sorrise. Lei pensò che fosse diverso dagli abituali frequentatori del posto. Certo era più raffinato, ma non meno viscido. Sperava fosse più gentile, meno rozzo, più umano degli altri.
Lo osservò con maggiore attenzione, auspicandosi di trovare in lui qualche caratteristica che rispecchiasse quell’impressione iniziale. Era calvo. Lunghi baffi neri spezzavano quel volto paffuto a formare un piccolo tetto sulle sue sottili labbra. Indossava un pantalone largo, beige, di tessuto sottile che copriva parte dei suoi mocassini laccati. Un uomo molto basso, considerò lei. Una grossa cintura in pelle marrone gli stringeva la grossa epa. La giacca scura abbottonata alla meglio lasciava intravedere la camicia bianca rigata. Tra un bottone e l'altro uno spiraglio di pelle, pelosa pelle. Era la camicia di una taglia in meno o lui di qualche chilo di troppo. Quasi sorrise nel pensarlo. Una mano dietro la schiena nascondeva qualcosa. Ecco il motivo del grosso sorriso che le rivolgeva. Si riusciva a scorgere sulla sinistra e fra le gambe un florido mazzo di rose rosse che avrebbe dovuto sorprenderla e renderla felice. Ecco, pensò lei, magari è davvero gentile. Più che un pensiero era una speranza.
Si fermò sull’ultimo gradino. Quello che disegnava in terra una sottile linea nera, che fungeva da confine tra l’essere libera  e l’essere un oggetto. Esitò a poggiarvi il piede brillantinato di paillettes e strass dorati. Mentre il vento le scompigliava i rossi capelli e le accarezzava il pallido viso, il suo sguardo si abbassò ed il mondo intero fu privato per un’interminabile frazione di secondo dei suoi deliziosi occhi cerulei, l’unica cosa che ereditò da sua madre, la donna che vide, per l’ultima volta, prima che fosse gettata su quella zattera. Poi, alzò il volto e sgranò subito gli occhi. Deglutì. Salì quell’ultimo gradino e oltrepassò quella linea. Non era più di se stessa, adesso.
L’uomo paffuto si avvicinò, le tese la mano destra, condita in eccesso di anelli d’oro. Le sfiorò il braccio e la scoprì fredda. Si tolse la giacca con attenzione, cercando di lasciare, sempre, dietro di sé, il bouquet‐sorpresa. Gliela appoggiò delicatamente sulle spalle. Lei l’accolse volentieri, avvicinando le strette spalle alle orecchie e passando la sua piccola mano sul collo per spostare i suoi dolci capelli, profumati ancora d’infanzia. Faceva davvero fresco. Sorrise, educatamente. Lui, allora, fece divergere le sottili labbra, mostrando un  sorriso non più suo a causa dell’età non ancora spensierata. Le porse nuovamente la sua mano. Lei esitò, poi allungò la sua da sotto la giacca per prenderla.
Le due mani progressivamente si avvicinarono. Stavano per sfiorarsi. E la sua mano sarebbe stata solo la prima parte del suo corpo a diventare di quell’uomo. Quand’ecco una voce maschile infrangere il silenzio di quella notte autunnale, il silenzio di quel quartiere malfamato vicino al porto, il silenzio dei loro sguardi, il silenzio delle carinerie di quell’uomo con i baffi. E quel silenzio era ovunque, meno che dentro di lei. Il suo cuore stava gridando, strepitava. “Jasmina!” Poi, ancora silenzio. L’uomo si girò di scatto e lei ebbe l’opportunità di ritrarre la sua mano. Si voltò immediatamente. Gli orecchini e i ricci si opposero alla brezza, abbracciandole il collo nel suo movimento. Lo guardò, ma i suoi occhi cerulei non ebbero il coraggio di spingersi oltre la bocca e soffermarsi sui suoi occhi. Intanto, i suoi si inumidirono, e non per l’aria  condizionata tipica delle camere d’albergo in cui lavorava. Cercò di sorridergli, ma non appena si ricordò dell’uomo con i baffi accanto a lei, il suo mento incominciò a tremare. “Marco… va’ via!”e si girò verso il proprietario della giacca, verso il proprietario del suo corpo, per quella sera. Tirò su con il naso.
Era Marco. La M. Era un ragazzetto in bluejeans. Una t‐shirt in origine bianca, ma che l’usura aveva reso avorio, copriva i suoi forti muscoli, quei muscoli della fatica, del lavoro sotto il sole cocente delle ore di punta al porto, non della palestra che mai avevano visto. I capelli biondo scuro spettinati scendevano sulla fronte, senza l’effetto speciale del gel che era solito mettere al pomeriggio, dopo il lavoro. Gli occhi neri come la notte rapivano la ragazza, non la lasciavano sfuggire. Era piegato in  due, con le ginocchia curvate e le braccia tese, le grandi mani sulle sue toniche cosce. Il fiatone era pesante. La bocca era aperta, per aiutare il respiro affannato. Lei lo sentiva. L’avrà rincorsa dal parco. E questo lei lo sapeva, l’aveva immaginato, avrebbe desiderato accadesse o forse avrebbe voluto evitarlo. Questo non lo  sapeva ancora.
Marco si approssimò ai primi pioli, intenzionato a percorrerli  nel minor tempo possibile, a due alla volta, a tre, persino a quattro, pur di non arrivare in ritardo, almeno in questa occasione. Per bloccarla. Per impedirglielo. Per stringerla stretta a sé, come quella notte. Per confessargli il suo amore. Per rovesciare il mondo. Per salvarla. Per renderla di nuovo libera, libera di amare e di farsi amare da chi vuole, per la prima volta nella sua breve vita. Giunse proprio lì, a pochi centimetri di distanza da quell’ultimo gradino. Jasmine era ancora lontana. “Io ti amo”.
Jasmina prese una grossa boccata d’aria, poi espirò lentamente. Aveva bisogno di guadagnare tempo. Doveva cercare nella sua testa un alibi di ferro per poter rinunciare a lui e, soprattutto, per far sì che lui rinunciasse a lei. Un’alluvione di idee e di pensieri la sconvolse e lei si ritrovò fradicia di dolore, di realismo. Il loro amore, irrealizzabile. Il loro sogno, utopico. Il loro futuro, impossibile. Perché era lei, Jasmina, a non aver futuro. E lui, Marco, non poteva combattere contro colossi,armato solo del suo coraggio e del suo amore, rischiando la vita. Lui ne aveva una sua. Era convinto che si potesse vivere di solo amore.  Jasmina, invece, pensava che l’amore non fosse in grado di fornire loro del cibo, dell’onore, una casa da vivere, una famiglia da crescere, ma cercava, invano, di nascondere a se stessa quell’importante verità: non si vive di solo amore, certo, ma non si può sopravvivere senza di esso. Ci aveva provato infinite volte, tentando di stare lontana da lui, medicandosi i lividi e le ferite dovuti alle percosse del Signor Mario, quando la scopriva rifiutare i suoi clienti o quando teneva per sé parte dei “guadagni” per fuggire via. Eppure quella realtà le si imponeva davanti in tutta la sua grandezza. Il Signor Mario aveva tessuto un’intricata ragnatela e lei era la povera farfalla che, assieme alle tante altre, vi era rimasta imprigionata, senza via d’uscita. Doveva solo attendere la sua ora. Anche se, prima di conoscere Marco, aveva tentato in più circostanze di anticipare quel momento. Diciassette anni, una maturità grandiosa, una vita sofferta e un’infanzia mai vissuta.
Il suo piede fece per allontanarsi, ad oltrepassare nuovamente quella dannata linea che segnava, ora, il confine della felicità. Tuttavia l’uomo cambiò espressione, la fronte si corrucciò, le sopracciglia canute si aggrottarono, il sorriso scomparve. La prese per il polso. Lasciò cadere in terra le rose di quel rosso che, presto, sarebbe diventato scenario di una tragedia. “Dove credi di andare?!” e mostrò lei un coltellino svizzero dal manico verde, al contrario di quanto si credesse, un verde lontano, remoto dalla speranza. Jasmine lo vide. Capì. Abbandonò le forze che aveva raccolto poco prima. Non si ribellò. Lasciò che lui le posasse il braccio sulle spalle e l’avvicinasse alla sua voluminosa pancia. Accelerarono l’andatura verso la porta bordeaux. Intanto Marco li aveva raggiunti. Era pronto alla battaglia, non aveva paura di combattere e sperava nella vittoria dell’intera guerra. Si appressò all’uomo, raccolse tutta la sua forza ed il suo amore nel pugno sinistro. Era mancino come lei, Jasmina lo sottolineava sempre, ma questa volta non ci fece neppure caso. Gli sferrò un cazzotto sul viso. Il furore spinse l’uomo di qualche centimetro indietro, barcollò un po’. Poi sfoderò il coltello, predisposto a vendicare il suo occhio viola, già in procinto di gonfiarsi. Conosceva bene Marco, era forte, temerario, idealista. Non temeva di morire. Era innamorato. Difficilmente avrebbe rinunciato a lei, a meno che…
“Marco ‐ Jasmina si pose tra i due salendo sopra quell’ideale ring e fece cadere quella opprimente giacca in terra, quasi come segno di liberazione momentanea – cosa pensi di fare?”
“Amore, non preoccuparti, scappa, ci penso io ” rispose il ragazzo.
L’uomo si rivolse verso Jasmina: “Levati di mezzo, puttana, con te me la vedrò dopo!”
“Non ti azzardare più a chiamarla così, lurido bastardo!”
“Ahahahah, il ragazzetto squattrinato si è innamorato... Verme, con le mignotte come questa, d’alta classe, occorre la grana!”
I due, più agguerriti che prima, si riavvicinarono, l’uomo colpì Marco al braccio, ferendolo. Scivolò all’indietro.
“La prossima volta non sbaglierò, va’ via ragazzo!”
Marco si rialzò: “Giammai!”
Jasmina comprese cosa fare: “Va’ via, sciocco! ”
“Jasmina, ma…”
“Ahaahahah, davvero pensavi preferissi il nulla? Guardami… uomini come questo mi possono rendere una regina... e tu? Cosa mi doneresti? Il tuo amore? Non farmi ridere. Va’ via… Non voglio avere sulla coscienza un illuso, morto per me”
“Jasmina ma… noi ci amiamo, ce la faremo… fuggiremo da qui, da loro. Non potranno più dividerci, e quando ci troveranno scapperemo di nuovo… meglio una vita di fuga che una fuga dalla vita...”
“Senti, adesso basta… mi hai rotto davvero. Lo vuoi capire? È stata una scopata e basta... dovresti ringraziarmi di non averti inviato gli  scagnozzi del Signor Mario a menarti quando non m’hai pagato, invece di star qui a infastidirmi... va’ via”
“ Jasmina… non funziona, non ti credo... cazzo dici?! non vado via senza di te...”
“Oh… svegliati! Sei uno come gli altri… un cliente. Anzi, uno stronzo di cliente che non m’ha pagata.”
Marco raggelò, immobile tra realtà ed incubo. Non capiva. Ma come era possibile?! Mise le mani nelle tasche dei jeans e raccattò tutti i soldi che vi aveva conservato, le mance dei turisti che gli avevano chiesto indicazioni. Glieli lanciò contro con tutto il suo disgusto e la sua delusione. Poi i suoi pugni si strinsero ancora. L’impotenza.
“Puttana! Brava eh… ci avevo creduto...”  Sputò su quelle poche banconote in terra. Si voltò.
Jasmina, avrebbe ottenuto sicuramente un Oscar o un Donatello, se avesse iniziato la carriera che le era stata promessa dal Signor Mario. Se non lo avesse saputo, se fosse stata astante di quella recita in un istante di sdoppiamento, avrebbe abboccato anche lei. Era rimasta indifferente, ferma, con lo sguardo fisso nel vuoto.
L’uomo con i baffi, intanto, aveva richiuso il coltellino e conservato nella tasca destra del pantalone. Aveva sospirato di sollievo per il pericolo scampato e di fatica, data la sua età avanzata. Ci rifletté e, in un atto di codardia, si scagliò contro Marco, strattonandolo per le scale. Rotolava giù, ma il dolore non lo feriva. La sua mente ed i suoi pensieri erano altrove. Non provava niente, non sentiva nulla. Solo un vuoto. Ed il suo cuore battere forte, pulsare in quella vena ingrossata sulla tempia. Il vigliacco le fu subito alle calcagna. Jasmina si lasciò accarezzare il seno. E quella carezza si trasformò in possesso. Sembrava raffinato, pensò. Si chinò a raccogliere la sua giacca in terra e se la sistemò su una spalla. Spalancò la pesante porta di quell’appartamento. L’atrio dava su una porta a scorrimento in vetro, questa divideva la zona giorno da quella notte, la più ambita per gli abituali frequentatori.
Jasmina ripensava alle parole dette, le fandonie farneticate echeggiavano nella sua testa con un rimbombo abnorme. La  sua bocca aveva blaterato, mentre il suo cuore si distruggeva, sentendosi inutile a gestire le menzognere corde vocali. Marco vi aveva creduto. E lei doveva essere contenta della sua performance. Il suo obiettivo era stato raggiunto. Eppure era triste. Aveva salvato la vita dell’amato, ma sacrificato la sua.
Oltrepassò l’uscio. Era in gabbia. Le sue ali erano state tarpate. Ancora. Di nuovo. L’uomo la prese per i fianchi, l’avvicinò a sé. Con il tacco del piede sinistro sospinse leggermente la porta, la quale cominciò lentamente a chiudersi. Concesse uno scorcio  che, progressivamente, si rimpiccioliva. Marco era lì, ai piedi della rampa, ancora incredulo. Osservava quell’orrenda scena, inetto. L’uomo bofonchiava orgoglioso. Spintonò Jasmina alla vetrata. Le strinse il fianco destro con la mano e le bloccò i polsi in alto, sulla testa, con la mano sinistra. Le sollevò il vestito lucido fin sopra alla testa.
Marco si rialzò.
Dallo specchio Jasmina lo vide e decise di continuare la sua recita. Gridò di piacere, mentre le lacrime le solcavano il viso e le rigavano il trucco. Gli occhi neri cominciarono a sfumarsi.
L’uomo mollò la presa sul fianco e, con la mano che lo cingeva, si slacciò la cintura. Abbassò il pantalone, il quale si raggomitolò sui mocassini, coprendoli completamente, e mostrò degli alti calzini neri. L’uomo era sempre più rosso, più eccitato, la sua lingua cercava di inumidire la bocca asciutta e secca.
La visuale era ridotta, Jasmina aveva paura, ma non distoglieva i suoi pensieri da Marco. Non riusciva più a vederlo. Era buio. L’uomo le strinse forte il seno e le si avvicinò. Jasmina urlò. La sua recitazione si arrestò. Il gemito era stato agghiacciante.
La porta era quasi giunta alla cornice. Un rumore sordo, la porta vibrò e tornò indietro. Marco aveva interrotto la chiusura con il piede. I suoi anfibi non gli erano mai stati tanto utili fino ad allora. L’uomo si fermò,  Jasmina ebbe un istante di tregua, abbassò l’abito e si chinò in posizione fetale, facendo scivolare la schiena sullo specchio appannato dei suoi sospiri. Strinse le braccia attorno alle gambe. Continuò a piangere. L’uomo si era girato e cercava nel pantalone in terra la tasca destra. Marco entrò nell’appartamento. La porta si chiuse alle sue spalle.
Al di fuori di quell’appartamento, il vento trascinava via con sé i petali di quelle rose schiacciate in terra da un’orma frettolosa d’anfibio. La sirena di una nave da crociera. Stava attraccando al molo. Molte famiglie allegre stavano sbarcando a casa dopo una troppo breve vacanza. Molti bambini chiassosi stavano ridendo.