Le sicule alchimiste
Roma 15 settembre 2015
“… Miele era il colore dei nostri corpi addormentati sotto il sole…”
Caro Sofio, figlio nostro, queste parole aprivano una canzone romantica della fine degli anni 70 del secolo scorso. Oggi tu vivi a New York contento del tuo ruolo di funzionario alle Nazioni Unite e questa lettera, che ti scrivo con il placet della mamma, innanzitutto vuole esprimere la nostra gioia e il nostro orgoglio per te. Sperando che non diventi mai cinico come il figlio dello “zappatore”. Anche perché non ho di certo la stazza e l’età di venirti a schiaffeggiare fra le femmine con la pelliccia e gli uomini “incravattati”come il compianto Mario Merola. Ti ricordi quante risate ti facevi ogni volta che ci vedevamo quel film: la sceneggiata napoletana. Con questa epistole, scritta a mano, vogliamo raccontarti un periodo della nostra vita, dove il miele è stato nostro compagno di buona sorte. Quello per me e tua madre fu un periodo fosco, pesante, ma che ci ha formati come persone e come coppia. Tu sei nato da questo nostro grande amore ma anche dalla sofferenza dalla quale siamo passati in quegli anni. Pensiamo sia arrivato il momento per te, che hai superato i trenta, di sapere che i tuoi genitori non sono stati sempre quei quasi perfetti professionisti un po’ bacchettoni che andavano a dormire presto la sera facendo la preghierina di ringraziamento. Educandoti nel rispetto e nella tolleranza verso gli altri, senza vizi e con molte virtù. Ci ha fatto riflettere quel tuo sfogo nella e‐mail di un mese fa dove non ti sentivi degno di noi e avevi paura di deluderci e di non essere come persona alla nostra altezza. Questa tua insicurezza ci ha fatto sentire un po’ carogne nei tuoi confronti perché abbiamo preteso tanto da te e siamo stati sicuramente bravi a darti un esempio buono di coppia genitoriale. Noi siamo orgogliosi di come sta procedendo la tua vita e dato che ti abbiamo insegnato l’onestà e la sincerità, dobbiamo continuare ad essere i primi a mettere a nudo le nostre fragilità e debolezze anche se riguardano oramai un tempo lontano di quasi quarant’anni orsono ma per certi aspetti ce ne vergogniamo e ce ne vergogneremo sempre. Prima di iniziare il racconto di quegli anni ti ringraziamo per la grande lezione di umiltà che ci hai dato. Mettiti seduto e continua a leggere questa lettera quando avrai il tempo e la giusta concentrazione possibilmente da solo. Rileggila se puoi prima di avventarti al telefono o a risponderci via e‐mail. Sicuramente tante domande ti verranno in mente e avrai anche il diritto di essere arrabbiato, deluso e d’inveire contro di noi. Forse rimarrai basito e senza parole anche se conoscendoti mi sembrerebbe un tantinello strano. Siamo coscienti di quello che stiamo per dirti. Abbiamo anche preso in considerazione l’idea di tacere per sempre e di portarci questa nostra parte di vita come un segreto nella tomba. Ma ci è sembrata ancora più bislacca. Quindi abbiamo deciso di confessare o come si usa di questi tempi fare outing. Bene, non te la voglio tirare per le lunghe anche perché chissà cosa starai cominciando ad immaginare con quella tua mente fervida che tanto ti aiuta nel tuo lavoro ma che a volte ti fa prendere la vita troppo sul serio. Non abbiamo fatto parte dei terroristi, né rossi né neri, anche se il periodo era quello e la cosa più importante è che non abbiamo ucciso nessuno. Sono sicuro che dopo i tuoi smarrimenti iniziali sarai forse anche contento di avere avuto due genitori così. Soprattutto la tua mamma che mai avresti pensato che poteva avere un passato così trasgressivo vedendola negli anni un’ integerrima professoressa di Italiano. Abbiamo passato gli scorsi giorni ricordando i fatti di ieri o sarebbe meglio dire noi strafatti di ieri. Lo sai che mi sono sempre piaciuti i giri di parole ebbene caro Sofio hai capito bene.
Torino in quegli anni era tutta un fermento di novità ma anche di disillusioni. I movimenti post sessantottini, in quei famigerati anni di piombo portarono una ventata di libertà ma nascondevano già i veleni dell’inquinamento e non parlo solo di quello ecologico ma soprattutto quello delle coscienze. Pierù così mi facevo chiamare,Piergiorgio lo odiavo, era un giovane liceale affamato d’affetto e pieno delle incomprensioni familiari. L’unica forma di coraggio ed evasione l’avevo trovata dietro le siepi del parco del Valentino. Mi bucavo per il mancato coraggio di ribellione al sistema e ai soldi di tuo nonno notaio. Caro Sofio, tuo padre, lo stimato ingegnere Pedrazzoli tanto amato dai suoi dipendenti nei suoi anni liceali è stato un drogato. Capellone e drogato uno dei tanti zombie che vagava fra le nebbie putride sprigionate dal Po. La prima spada me la iniettai a 16 anni, non ero passato dagli spinelli ero andato subito al duro e sottile sapore metallico dell’ago. La vena si gonfiava, pizzicata dall’impotenza di essere un figlio, la mia volontà si smarriva. In altre parole cercavo la morte. Tua madre la conobbi a scuola come puoi immaginare mi avevano bocciato e mi ritrovai in prima liceo. Nessuno si voleva sedere con me tutta la scuola sapeva che appartenevo al gruppo dei drogati e non mi avevano sbattuto fuori indovina per chi? E la cosa mi faceva imbestialire ancora di più. Lei ebbe questo coraggio e lo pagò caro almeno nei primi anni di vita insieme. Riuscì a farmi prendere la maturità soccorrendomi tutte le volte che esageravo. A me questo non bastava, allora accettò la mia sadica e perversa sfida di seguirmi, se veramente mi amava, all’inferno dei tossici. Mio padre per dimostrarmi il suo potere m’iscrisse in ingegneria,al Politecnico, per me una facoltà valeva l’altra, e lei invece in lettere e filosofia. Dopo il primo anno di università dove sembrava si fosse aperto un varco di luce con una cura di tre mesi in una clinica svizzera ed essermi dato tre esami ripiombai nell’eroina stavolta senza una ragione apparente. Tua madre, la bellissima Cinzia dagli occhi di fiordaliso cadde anche lei perché per seguire me i suoi l’avevano buttata fuori casa. Per farla breve passammo un anno da reietti della società l’unica nota positiva il nostro legame. Fra la gente che frequentavamo due morirono di overdose. Cinzia ci andò molto vicino. In quel momento di lucidità capii quanto lei fosse importante per me e dove l’avevo condotta veramente ai confini dell’inferno. Dovevamo scappare da lì. Nelle osterie che frequentavamo facemmo la conoscenza di Pippo, un giovane uomo siciliano, un “picciotto” come amava definirsi, che era venuto a fare il professore di agraria che ci parlava con orgoglio della bellezza della sua terra. Decantava con passione la necropoli di Pantalica, la valle del fiume Anapo , nascosta tra i paesi di Sortino e Solarino in provincia di Siracusa. Pippo amava quel pezzo ricco di Sicilia. Ci raccontava dei campeggi fatti con gli scout quando era ragazzino, le scorribande, lui solarinese, con gli amici sortinesi, i tuffi pericolosi di Gino il panzone dalle alte rupi gridando come un grido di battaglia: “Cuccumeo, Cuccumeo”. Le notti passate attorno ad un fuoco a bere “u spiritu de Vascitrari”, a guardare le stelle ed indovinare le costellazioni. A cantare e suonare le canzoni di Bob Dylan e dei Doors. I profumi della terra, quel sole sempre caldo e con la sua luce accecante riverberata dalle coste di roccia bianca mitigato, solo un poco, dalla frescura del fiume e dai salici d’argento. Racconti su racconti, aneddoti di amicizia e goliardia che inebriavano la mente di un calore autentico. Lui narrava, in quelle serate fredde, accompagnato dal barbera, per ammazzare la sua di nostalgia dentro San Salvario e inconsapevolmente ci fece innamorare di quei posti. Là dove i Siculi ancora prima dei Greci avevano dato esempio di civiltà e saggezza nella cura e protezioni dei luoghi. Nella nostra fantasia vedevamo il mitico capo dei Siculi Ducezio come un grande capo pellerossa con tutta la sua tribù sulle alture dei canyon e i Greci circondati a valle come gli yankee del generale Custer. Decidemmo di partire. Pippo non credeva di essere stato l’artefice della nostra decisione. Gli spiegammo tutto il nostro malessere. Meravigliato e con gli occhi lucidi ci abbracciò e ci diede un indirizzo di un prete beat, l’unico che in quei posti ci avrebbe capito e aiutato. Adesso ti chiedo di fermarti nella lettura. So che hai fretta di sapere ma ti chiedo di temporeggiare. Smaltisci il fiele che ha reso amara la tua bocca. Guardati le mani per avere un punto fermo per i tuoi occhi che per la nostra vergogna non sanno dove guardare, alzati e vai a bere un bicchiere di acqua ghiacciata tanto lì in America i frigoriferi sono tutti dotati della “icemachine”. Riprenditi il tuo bel sorriso quello che sfoderi quanto l’hai combinata grossa e stringi nelle mani la fiducia per noi e non lasciarla cadere. Se hai fatto tutto o qualcosa di simile puoi riprendere la lettura altrimenti indugia ancora. Arrivammo in Sicilia a fine Aprile. Pioveva. Ci presentammo al prete beat fradici di pioggia e di lacrime. Lui ci accolse con un gran bel piatto di spaghetti alla puttanesca ma così intrisi di peperoncino piccante che per un paio d’ore dimenticammo persino di prendere il metadone tanto ci bruciava la bocca. Rimanemmo tre settimane in parrocchia per capire e per spiegare. La domenica mattina dopo la messa delle sei ci avviammo con lui verso Pantalica. Volevamo vivere lì in mezzo alla natura come due selvaggi, lontani da tutte le etichette e formalità che avevano soffocato la crescita delle nostre anime. Ci scegliemmo una grotta e cominciammo la nostra avventura. Un gruppo di ragazzi che accompagnava il prete ci aiutò a sistemarci donandoci un kit completo da campeggio. Di nostro avevamo solo i sacchi a pelo, una macchina fotografica, rullini in quantità industriale rubati ad uno zio fotografo di tua madre, una torcia a pile qualche libro e pochi indumenti. I primi mesi furono durissimi dovevamo fare il piano di graduale recupero e disassefuazione della sostanza. La consolazione era quel luogo meraviglioso. Un eden. Ogni giorno facevamo una nuova scoperta faunistica sul nel cielo volteggiava come a protezione l’aquila del Bonelli, e in mezzo alle siepi di alloro strisciavano i colubri a caccia di rane, a loro volta cacciati dalle faine. In quei luoghi ameni come da tradizione millenaria tramandata dai siculi i melari lasciavano i loro greggi di api al pascolo. C’erano anche le pecore certo ma a noi colpirono questi uomini che trasportavano quasi quotidianamente le legnose arnie di ferula stagionata. Le mansuete api nere orgoglio ibleo decantate anche da Virgilio compivano il miracolo tanto agognato dagli alchimisti trasformavano il polline del timo e delle altre zagare in oro. Facemmo amicizia. In paese si era sparsa voce di quella coppia di “picciutteddi do nord” che vivevano come i primitivi abitanti delle grotte per uscire fuori dal tunnel della droga. E per ironia della sorte fuor di metafora quella valle era attraversata da gallerie ferroviarie oramai in disuso lascito di una linea ferroviaria con il caratteristico trenino a vapore che univa i vari paesi montani. Nei momenti di crisi di astinenza fu proprio il prodotto principe delle api e i loro derivati che ci salvarono. Noi arrivammo in quella valle denutriti e questi uomini dall’aspetto rude ci portavano ogni giorno miele, propoli e pappa reale ed una pozione dove aggiungevano il succo dell’aloe. Ce li lasciavano,all’alba, dopo un fischio, davanti la grotta. Con questo nutrimento i nostri corpi ma soprattutto le nostre anime ripresero vigore e consistenza. Diventammo parte integrante di quell’area a tal punto che i melari lasciarono a noi il compito di spostare le arnie. Diventammo pastori bucolici di api. Nell’attesa del loro ronzare laborioso fra le zagare e l’acqua fresca, i nostri giovani corpi si amarono sulle rocce di quel fiume lento e odoroso di origano, rosmarino e menta nepeta. I nostri visi sembravano quelle dei clown tinte dalle succose more. Ti confesso da uomo a uomo che il vigore sessuale di quegli anni forse per l’età o per la quantità di miele ingerita non mi è più tornata. Con tua madre vivevamo felici come in un parnaso. Stillavamo il miele nelle nostre bocche direttamente dai favi e disegnavamo cuori di cera sulla nostra pelle. Ci sentivamo liberi e dignitosi perché il cibo o qualche indumento che ci veniva portato dalla gente non la vivevamo come elemosina ma come baratto per il nostro lavoro di custodi delle api. Furono proprio loro le nostre maestre di vita che ci salvarono. Dall’osservazione e dalla condivisione di uno spazio imparammo cosa fosse il lavoro e il sacrificio, la passione e la dedizione,il riposo del giusto. In altre parole ci insegnarono cosa voleva significare la parola vita, a noi che eravamo stati seguaci della morte. Ti posso assicurare che c’era più vitalità in quella necropoli ferma da secoli che nel continuo movimento di gente all’uscita di una metropolitana. Passammo in questo modo tre anni. Immagina la grande metafora che ci donano le api. Dalla loro fatica creano un nutrimento dolce ma di una dolcezza diversa da quella dello zucchero di canna o di barbabietola che è più istantaneo e superficiale. Il miele lascia la sua dolcezza in profondità. La sua vischiosità ti avvolge. Alla luce del fuoco riflette come oro e rimanda come in un gioco di specchi il calore della fiamma. Ti sembra veramente che vada a nutrire l’anima. Non per niente gli dei greci si nutrivano di ambrosia che era una bevanda a base di miele. La gente ci veniva a trovare. Il prete portava sempre dei nuovi ragazzi per insegnare loro attraverso il nostro esempio cosa significasse il concetto di essenziale e come si poteva essere felici solo con quello. Arrivavano anche altri ragazzi sbandati come lo eravamo stati noi per emularci ed uscire fuori dalla droga. Con Pippo tornato per le ferie ci facemmo tante serate e ci fu veramente di grande aiuto nel farci capire gli usi e la storia di quella gente. Oggi lo chiameremmo mediatore culturale.
Ci furono anche momenti difficili. Capitò da quelle parti anche chi ci invitò a bucarci facendoci trovare delle siringhe pronte per l’uso. Quelli furono episodi spiacevoli che ci confermarono che eravamo cambiati. Ne eravamo fuori. La prova era superata. Ci vennero a trovare pure i nonni vennero insieme e ci riconciliammo con le famiglie d’origine. Ma nel momento di massima felicità cominciò tutto a girare storto. Prima un invasione di coleotteri nemici giurati delle api, decimarono gli sciami, poi un incendio doloso causato da qualche pastore ignorante ansioso di erba fresca, coinvolse molte arnie che diventarono dei roghi. Quanta tristezza per noi. Ci sentimmo in colpa per non aver vigilato su di loro. Gli apicoltori manifestavano dei malumori e cominciarono a sostituire le casette di ferule con quelle moderne e più sicure ma che stanziavano di più negli stessi luoghi, sostituendo gli sciami autoctoni con altri importati. L’ape sicula si stressava e mal si adattava a queste “casette prefabbricate”. Io e tua madre avemmo la sensazione che anche la natura ci stesse cacciando. Come Adamo ed Eva senza aver commesso nessun peccato anzi avendo espiato tutti i nostri, fummo messi alla porta da quel paradiso. Con il senno del poi ci rendemmo conto che fu l’ultimo gesto di benevolenza di quella terra e dei suoi abitanti. Eravamo guariti ed era giusto che affrontassimo la nostra vita. Con una grande festa d’addio, stavolta in paese,con salsiccia arrostita sulla brace, pane e focacce alle erbe cotte nel forno di pietra e vino nero, ci salutammo promettendo che saremmo ritornati presto. Ebbene caro Sofio, non siamo mai più tornati in quel luogo. Lo facemmo diventare luogo dell’anima. Qualche volta negli anni con tua madre per qualche notizia legata a quei luoghi ne parlavamo, ricordo negli anni 90 si parlò addirittura di un mostro di Pantalica ci furono vari omicidi in quei luoghi dove avevamo costruito il nostro futuro. Se non ci fossero state delle prove tangibili come la cicatrice che ho sulla coscia ricordo di una caduta da un albero di carrubo forse ci saremmo convinti che era stato solo un trip da lsd. Non tornammo neanche a Torino ci fermammo a Roma. Voltammo pagina. Come diceva Lao Tsu “la morte del bruco è una farfalla per il mondo”nel nostro caso un’ape. La nostra dolorosa trasformazione era avvenuta. Quegli anni furono il nostro grande segreto. Il nostro collante di coppia. Tutte le foto ed i ricordi di quel periodo furono messi in un baule e mai più tirati fuori fino alla settimana scorsa. Credimi è stato uno shock riaprirlo. Da quel nostro vaso di Pandora siamo stati travolti da tante emozioni. Vedermi capellone e secco come un asparago selvatico,come quelli che si raccoglievano per farne delle frittate insieme alla ricotta di pecora. Tua madre l’immagine della ninfa Aretusa eterea e liquida allo stesso tempo. Poi le foto con i ragazzi di padre beat, dentro la sua 500 celestina. Quella con Jack lo scopritore dei palazzi medievali. Dei vari “zii” melari alle prese con i bugni di ferule. Delle varie madrine con la frasche di ulivo per ardere i forni di pietra. Quella suggestiva di Carmelo il suonatore di friscaletto con lo sciame intorno che non lo pungeva anzi sembrava danzare al ritmo della taranta. Molti di questi uomini saranno morti. Chissà se qualcuno dei figli ha continuato la tradizione dei “Vascitrari”. Un’ ultima rivelazione il tuo nome. Sofio è il maschile di Sofia non ti abbiamo chiamato così non solo per amore della sapienza ma anche in onore a Santa Sofia patrona di quei luoghi e perché molto probabilmente tu fosti concepito nella grotta dove secondo la leggenda abitava la santa. Almeno a noi piacque pensarla in questo modo. Stiamo valutando con tua madre l’ipotesi di ritornarci l’estate prossima,dobbiamo onorare la promessa, se venissi pure tu sarebbe l’apoteosi. Perdonaci se ti abbiamo sconvolto la giornata ma tu sei un uomo di mondo e quindi ti riprenderai e siamo pronti a rispondere a tutte le meravigliose domande che ci farai su quegli anni. L’altro motivo della lettera è di carattere filantro‐politico cerca di perorare sempre la salvaguardia della Sicilia ma soprattutto la zona iblea con le sue ricchezze naturali perché per l’equilibrio della Terra sono importanti come le foreste amazzoniche. Ricorda che le api insegnarono al siculo Ducezio l’arte della vita e del buon governare. E gli ispirarono la teoria della Synteleia. Fino a quando ci saranno le api con la dolcezza secreta del miele ci sarà speranza per un mondo di pace. Einstein amava ripetere: “Se le api scompariranno, all’uomo resteranno solo quattro anni di vita”.
Salutaci Caroline e dille che siamo contenti di avere una nuora come lei.
ti abbracciamo
I tuoi Genitori
Cinzia e Piero