Le stagioni della fenice
Quando risorsi dalle ceneri, come in ogni mia precedente rinascita, avvertii che nulla era cambiato, che l’unica prospettiva futura sarebbe stata quella di consumarmi dolorosamente tra le fiamme... ancora una volta.
Non ho più alcuna certezza, l’intero mio universo vacilla, nervosamente, oscillando tra un estremo e l’altro delle possibili verità, senza lasciarmi intravedere alcun indizio utile per comprendere il senso di ciò che mi accade.
Credo di essermi perfino abituato al dolore che, immancabile, segue la rinuncia di ciò che ho faticosamente costruito e che adesso mi si sgretola innanzi, quella greve sensazione di sconfitta che aggiunge un ulteriore epilogo alla mia esistenza e che, anche questa volta, mi porterà a mutare direzione, nella intima abusata speranza di poter finalmente trovare la mia strada, qualunque essa sia.
Vorrei porre fine una volta per tutte a questo vizioso ciclo di rinascite, a questo muovermi troppo simile all’affascinate e allo stesso tempo tragica metafora della fenice: il prezzo che ogni volta mi si chiede di pagare – consumarmi in cenere ‐ è davvero troppo esoso se tutto si ripete da troppo tempo, da un insopportabile numero di giorni.
L’orgoglio che un tempo seguiva ogni rinascita è adesso divenuto una profonda sensazione di dolore: l’ammaliante fascino d’allora ha ceduto il posto al cinereo squallore di un meccanico ricostruire, di un doloroso incedere edificando sulle rovine di quel che fino a qualche istante prima credevo incrollabile.
Quel che più mi angoscia è l’avvertire l’inutilità d’ogni gesto, la netta indipendenza di questo dai successivi eventi, ineluttabilmente identici ai precedenti e a quelli che seguiranno: per quanto ogni volta le cose sembrino diverse, quel che rimarrà, alfine, sarà la solita familiare sconfitta, solo più dolorosa delle precedenti.
Battaglie su battaglie perse, spesso senza neppure combattere, feroci guerre delle quali rammento vividamente soltanto l’ultima, quella persa nell’inverno della fenice, nella gelida stagione che preannuncia il rito ultimo delle fiamme e, allo stesso tempo, prelude alla rinascita e a quella sempre più flebile speranza di potermi finalmente affrancare dai precedenti dolori, dando dignità a un destino fino ad adesso ingrato.
Comunque sia, non intravedo altre alternative meno cruente dell’abbandonarmi passivamente tra le fiamme e, in quel rogo, lasciarmi consumare lentamente fino alla fine, nella speranza che quell’epilogo possa condurmi a giorni diversi da quelli che mi si chiudono innanzi.
Tutto è oggi divenuto ancora più insostenibile, così distante da quella analogia con la metafora della fenice e molto più vicino a un vizioso emiciclo che tutto conclude anzitempo, prima che si giunga al naturale termine: le fiamme che mi avvolgono, un tempo preludio di rinascita, sono adesso un lento e interminabile supplizio, una dannazione dell’anima senza alcuna speranza di riscatto.
A distanza di mille e mille rinascite, mi ritrovo adesso privo d’ogni stimolo, d’ogni volontà di lottare e non riesco neppure a ricordare quale sia stata la ragione per la quale, in passato, avevo affrontato indicibili tormenti, il motivo che mi aveva spinto a sfidare ogni ragionevole paura, facendo perdere consistenza perfino alla morte, quel motivo oggi così estraneo.
Avverto l’approssimarsi dell’ultimo inverno, quello che conclude il ciclo di tutte le stagioni a me concesse e racchiuse in sé ogni giorno vissuto: una gelida brezza sulle palpebre ormai chiuse precede il breve attimo nel quale tutto acquisterà un senso, l’istante dove riuscirò comunque a sollevarmi dal fardello dei troppi giorni senza sole.