Le strane idee del Signor S.
Strane forte le idee e i pensieri che nascono nella testa del Signor S.
Oggi pomeriggio, ad esempio, riordinando le sue librerie, gli venne fatto di notare come la polvere che immancabilmente e pervicacemente si attacca ai libri, con una sconfinata attrazione, degna del miglior bibliofilo, gli sembrasse differente a seconda, non dei tipi di libri o di rilegature o di carta, ma a seconda invece degli autori.
Notava che sui volumi di Borges, ad esempio, essa avesse una consistenza sabbiosa, più ruvida che non quella che avvolgeva gli amati libri di Conrad. Questa era invece più appiccicosa e quasi salmastra.
E così pure il pulviscolo aereo, che tutto e tutti ci avvolge non visto, sceglieva per fermarsi e rendersi visibile, sulle pagine di omero, un aspetto come di cenere sottile, quasi fosse stata setacciata e filtrata dai secoli. Eppure S spolverava le librerie tutte assieme, quando ne aveva il tempo e la voglia.
Si domandò se non fosse un segno tangibile e veritiero delle sue abitudini letterarie. Forse i libri che leggeva maggiormente in un periodo, si ritrovavano assaliti da polveri diverse, a seconda della stagione, del tempo, dei pollini.
Ma questa ipotesi dovette essere scartata subito, poiché ricordava benissimo di aver divorato la nausea di Sartre, con veloce e ironica passione e di aver invece tralasciato per mesi e mesi di proseguire la lettura della ben più ponderosa e pesante, e peraltro incompiuta essa stessa “Critica della ragione dialettica”. Eppure entrambi avevano quella polverina, che per curiosità S assaggiò dalla punta dell’indice, dolciastra e scivolosa al palato.
L’idea che la polvere, come essenza distillata del mondo, della vita e della materia tutta, potesse possedere una qualche sorta di coscienza o di distinzione per affinità elettiva, lo affascinò per tutto il giorno.
Così i tomi dei filosofi greci, avevano una particolare polvere di consistenza cristallina, quelli dei latini si sporcavano immancabilmente di micro noduli nerastri e fuligginosi.
Pasolini era preda preferita di materiale atmosferico aspro e pungente, la Yourcenar invece di una morbida bambagia grigia, Bukowsky aveva le pagine intaccate e corrose da un qualche polline aggressivo e dirompente, su Goethe si posava leggera e romantica una patina quasi azzurrina.
Insomma non c’era autore che non avesse la sua sporcizia preferita. S si chiese se non fosse ormai preda di allucinazioni visivo‐olfattive‐gustative. Non si risolse a sottoporre la questione nemmeno al suo vecchio amico Alberto, studioso puntiglioso e irreprensibile di filologia classica, che nel pomeriggio era passato a trovarlo per una amichevole chiacchierata.
Quella notte, sprofondato nel sonno più tardi del solito, per via della insistente allergia alla polvere che lo accompagnava, a periodi, fin dall’infanzia, S fece un sogno conturbante e disturbante al tempo stesso.
Stava dormendo su un letto di libri, una vera catasta. Accanto a sè vedeva distintamente che, dove era sempre stato il comodino, c’era un perfetto cubo di tomi rilegati in pelle. La testiera del letto, era un muretto di pubblicazioni tascabili. Girate verso la sua testa per il lato libero delle pagine, emettevano fruscii ad ogni suo movimento, quasi sussurrassero a bassa voce i loro brillanti contenuti, per riversarli copiosamente nella sua scompigliata testa di intellettuale.
Sul display della sveglia elettronica, poggiata sopra il cubo di carta compatta e rilegata in pelle, scorrevano, come titoli di borsa, autori e titoli degli innumerevoli volumi della sua biblioteca, e di ognuno ricordava qualche frase, o la copertina, o addirittura il prezzo stampato sul retro.
Una specie di febbre letteraria, di incubo tipografico, gli stava inondando la mente di parole, effigi di marmo, quadri e dagherrotipi. Si svegliò in sogno, come spesso gli accadeva, sudando e tremando, le lenzuola stropicciate intorno a lui, erano di fine e velenosa carta di quotidiano. Il Corriere ammiccava dal suo petto ansante, Il resto del Carlino gli avvolgeva la mano destra e il Secolo XIX la sinistra. Sopra la sua testa, vide appesa al muro una copia dell’Osservatore romano benedicente. Si rigirò di scatto, per cercare di recuperare il sonno. Il rosa tenue della Gazzetta dello sport fasciava i suoi cuscini, chiamando la sua fronte imperlata di sudore ad asciugarsi con la foto di Pantani sul Tourmalet.
S si levò a sedere sul letto letterario, sulla pira culturale, sulla sua alcova intellettuale.
Vide con chiarezza che la polvere era su tutte quelle pagine, quei dorsi, quei tagli di cultura.
Formava un paesaggio variegato e affatto dissimile nei colori e nelle dimensioni dei granuli.
Si guardò le mani e le vide coperte di pulviscolo grigio e uniforme, si strofinò i capelli già scompigliati e altra polvere grigia si diffuse nell’aria.
Cominciò a sentire un prurito in tutto il corpo, che lo costrinse a scendere dal letto e allontanarsi da tutti quei fogli, quei caratteri neri, quelle parole che adesso erano un marasma unico e indistinto, senza punteggiatura, senza sintassi comprensibile, senza l’ombra di un sintagma riconoscibile.
La paura di aver perduto e intossicato la sua intera vita, di futili parole, di esercizi intellettuali fini a sè stessi e in nulla veritieri o attinenti alla realtà, lo sconvolse e rimase in mutande, a un metro da quel monumento alla sua presunzione e mania, tremando e piangendo.
Per quella provvidenziale caratteristica onirica, che ci permette di introdurre, come il vero deus ex machina, i cambiamenti necessari alla storia, S si avvide di avere, infilata nell’elastico dei boxer, una grossa scatola di fiammiferi da caminetto.
La aprì e ne trasse un lungo bacchetto zolfato, lo sfregò sul lato della scatola e lo gettò sulla catasta di carta. Immediatamente il fuoco divampò alacre e felice. Le pagine si contorcevano e accartocciavano nel calore rosso e purificatore, le parole bruciavano e si dissolvevano in nera cenere volatile e non più significante né significata.
Tutta la sua stanza da letto fu piena di quel rogo giustiziere, vide il volume tascabile di Farenheit 451, cercare di darsi alla fuga, sbattendo le pagine come ali di colibrì, ma le fiamme lo avvolsero e cadde in picchiata, scomparendo nel caos piro‐letterario.
Il fuoco consumò in fretta i quintali di carta vecchia e rinsecchita. S rimase nella stanza da letto, attonito e mezzo scottato. Ai suoi piedi tutto era cenere. Una coltre grigiastra e uniforme. Esultò per la liberazione da quell’assedio librario. Poi, con una tristezza inspiegabile, si avvicinò a quel tappeto di cultura bruciata, ad osservare il frutto del suo sdegno di spirito libero. Alla luce nascente del mattino, che filtrava serena dalle imposte socchiuse, vide che le ceneri non erano grigie e uniformi, erano un finissimo caleidoscopio di colori. Riconobbe in quel mare bruciato, i cristallini splendenti dei suoi amati filosofi greci, l’azzurrino di Goethe che si spandeva in sottili onde sulla superficie, la bambagia della Yourcenar accumularsi in arcipelaghi...