Le ultime ore di Molly (seconda parte)
Adulti XXX, contenuto erotico esplicito. Racconto tratto da "Anima Porcella" di Monica e Manuel Drake ‐ disponibile su Amazon e nelle migliori librerie online.
Quando arrivai nei pressi della chiesetta, la funzione domenicale era già conclusa, ma scorsi il Vicario accanto al portone d’ingresso che stava salutando gli ultimi fedeli che uscivano.
Anche lui mi notò e attese che gli fossi davanti: “Buongiorno, cara. Tu devi essere Molly, la nuova servetta della locanda. Vero?”
Il tono mellifluo e il volto da faina non mi fecero presagire nulla di buono.
“Sì, signore.” risposi, abbassando gli occhi.
“Bene. Hai bisogno del conforto del Signore?” domandò, accarezzandomi la testa.
Annuii senza guardarlo in volto.
“Seguimi, cara.” Varcò l’ingresso e io lo seguii fino ad un confessionale, dove mi inginocchiai in attesa che completasse il rito iniziale della confessione.
“Dunque, Molly: confessa al Signore tutti i tuoi peccati…”
Esitai qualche istante, perché ritenevo che, se avevo commesso qualche peccato, non era stato per mia volontà, compreso il desiderio di suicidarmi che ne era una diretta conseguenza.
“Non avere timore, mia cara. Apriti liberamente: il Signore è magnanimo ed è disposto a perdonarti, se tu gli racconti nei dettagli gli atti immorali che hai commesso.”
Come avevo ipotizzato, anche il Vicario era un lurido porco, desideroso di farsi fantasie erotiche ascoltando la mia confessione. Dopo quasi un’ora e un’infinità di domande pruriginose, in merito a dove mi toccavano, a quali posizioni avevo assunto, su cosa mi dicevano gli uomini mentre mi scopavano, su come li avevo fatti sborrare, etc., finalmente ricevetti l’assoluzione, assieme all’ovvia penitenza: “Ti assolvo dai tuoi peccati, Molly. Ora andremo in sacrestia e reciteremo insieme alcune preghiere di espiazione, perché hai peccato tanto e ripetutamente, e la tua anima dev’essere ripulita per bene se vuoi che torni nella grazia di Dio.”
Uscì dal confessionale e mi invitò a seguirlo. Imboccammo una porta che divideva la zona dell’altare da un breve corridoio, intriso di odore di muffa che nemmeno il profumo dell’incenso riusciva a mascherare.
La sacrestia era occupata prevalentemente da un armadio dall’aspetto monumentale, di legno scurissimo, dove alle ante chiuse si alternavano alcuni ripiani ingombri di oggetti sacri.
Quasi al centro, di fronte ad un crocefisso altrettanto scuro e coperto di sporco, campeggiava un inginocchiatoio, dove il prelato mi fece accomodare. Si mise di fronte a me e, dopo avermi imposto il segno della croce, recitò un breve salmo in latino, quindi mi domandò: “Conosci qualche preghiera, Molly?”
“Sì, certo.” risposi.
“Allora, inizia a recitare quelle che sai e non fermarti fino a quando non sarò io ad interromperti.”
Ubbidii alla sua esortazione e, con gli occhi rivolti in basso e le mani giunte, appoggiate alla parte anteriore dell’inginocchiatoio, iniziai le mie orazioni a voce bassa, con lui che rimase di fronte, ritto e immobile, con il breviario tra le mani ma con gli occhi fissi su di me.
Al termine della quarta o quinta orazione, successe quanto avevo temuto: notai il movimento del prete che chiuse il breviario e lo mise in una tasca della tonaca, quindi prese a slacciarne alcuni bottoni.
Proseguii a recitare la preghiera facendo finta di niente ma, quando mi fu più vicino, alzai gli occhi e vidi il suo lungo cazzo spuntare dalla fessura anteriore della veste talare.
Pose una mano dietro alla mia nuca e mi ci fece avvicinare la bocca. Abbassai le palpebre e mi rassegnai all’ennesimo stupro orale, durante il quale non mi aiutai usando le mani, per non apparire in nessun modo complice o partecipe a quell’atto che ritenevo indegno per un uomo di chiesa che, soprattutto, avrebbe dovuto essere il conforto e il rifugio alle mie sofferenze.
Dopo interminabili minuti, con le parole spezzate dagli ansimi di godimento, mi esortò: “Non sottrarti al tuo dovere di bere tutto il sacro nettare che stai per ricevere…”
Appena concluse la frase, la mia bocca si riempì con il suo seme che dovetti ingoiare.
Quando si fu completamente svuotato, estrasse il membro dalle mie labbra e lo asciugò con un fazzoletto che aveva recuperato da una tasca. Poi me lo passò con atteggiamento paterno.
Mi pulii la bocca e glielo restituii.
“Brava, Molly. Vedo che sei una devota fedele del Signore. Per oggi ti sei pienamente meritata l’assoluzione. Adesso puoi andare, ma ti aspetto domenica prossima alla stessa ora.”
Mi feci il segno della croce, mi alzai dall’inginocchiatoio e mi allontanai velocemente senza salutarlo.
Era ora di pranzo, perciò tornai mestamente alla locanda, dove trovai solo il lavapiatti e il cuoco che stava preparando i cibi che sarebbero stati serviti per la cena.
“Cosa vuoi mangiare, Molly?” mi domandò gentilmente, rimescolando il contenuto di uno dei pentoloni fumanti. “Ho preparato della carne. È abbastanza buona… Ci vuoi anche qualche patata lessa, insieme?”
“Fai tu, grazie.” risposi. Ero talmente avvilita che ben poco mi importava dei miei gusti in fatto di cibo. La mia unica ambizione era alleviare i crampi allo stomaco che, certamente, non erano provocati solo dall’appetito.
Consumato il pasto nel mio stanzino, non avendo altro da fare, mi misi a dormire, in attesa del servizio serale in sala e al dover nuovamente soggiacere alle voglie dei clienti nelle camere.
Sebbene fosse domenica, gli avventori della locanda erano numerosi come quelli della sera precedente. Avevo sperato che, essendo giorno di festa, molti sarebbero rimasti a casa con le loro famiglie, ma mi sbagliai.
Il casino, le baruffe e gli strepiti riempivano nuovamente l’ambiente, la cui aria era anche intrisa degli odori provenienti dalla cucina e dal “materiale umano” presente, totalmente ignaro che esistessero igiene e pulizia. Eppure, alla maggior parte di essi faceva piacere trovarmi con la pelle profumata di sapone quando mi scopavano e affondavano i loro volti tra le mie tette. Non capisco come non riuscissero a comprendere che sarebbe stato lo stesso per me.
“Sono solamente delle bestie!” conclusi, cercando di dare una risposta plausibile che appagasse interrogativo.
Quando vidi alcuni ospiti salire verso le camere, mi aspettai che l’oste mi mandasse a soddisfarli, e così fu: “Ehi, Molly. Devi andare…”
“Si, lo so.” lo interruppi. Egli sorrise, sollevato dal fatto che avevo capito l’antifona ed ero entrata nel mio ruolo di cameriera‐puttana.
“1, 2 e 4. La tre è ancora libera. In tutto sono sette… Un bel po’ di soldi per me e qualche extra per te! Ah, ah, ah…” e aggiunse: “Cerca di farteli velocemente, perché stasera c’è parecchia gente e, dopo, ho ancora bisogno di te in sala. Capito?”
“Ho capito.”
“E brava la nostra Molly!” concluse, congedandomi con una decisa manata sul culo.
Arrivai alla porta della 1, bussai ed entrai. L’occupante era solo, in piedi, davanti alla piccola finestra con i vetri sudici ed appannati.
Lo salutai rispettosamente: “Buonasera, signore.”
“Oh, ciao, bellezza!” esordì voltandosi. “Sei davvero bellissima con quei capelli che sembrano in fiamme. E che occhi da demonio hai… Mi sa che tu hai bisogno di essere punita per questo tuo aspetto peccaminoso…”
Fui spaventata dalle sue parole, ma restai immobile, in attesa degli imminenti sviluppi della situazione. Per tentare di smorzare il suo approccio di stampo religioso‐superstizioso, dissi: “Vi sbagliate, signore. Sono stata in chiesa proprio questa mattina, mi sono confessata e il Vicario mi ha dato la piena assoluzione…”
“Non mi fido del Vicario, tanto meno della sua capacità di giudicare se uno è un buon cristiano o un figlio del diavolo. E tu mi sembri proprio appartenere a quest’ultima risma. Hai bisogno che sia io ad impartirti la mia punizione…”
Senza che avessi il tempo di reagire, mi fu addosso ed insieme rovinammo a terra. Lui si sollevò parzialmente appoggiandosi sul mio petto e mi strappò la camicia, liberando i miei seni.
“Lo dicevo io che sei una strega! Chissà quanti uomini hai ammaliato con queste tette spudorate.”
Mi assestò un ceffone. Con gli stinchi, mi trattenne le braccia incollate a terra, e la testa, spingendo il suo bacino contro il mio mento. Dalla giacca, estrasse un pezzo di corda, con la quale aveva già formato un cappio, e me la infilò fino al collo.
Terrorizzata, cercavo di divincolarmi. Battevo i piedi in terra e urlavo ma, dato il rumore che c’era nella sala sottostante, sicuramente nessuno avrebbe udito i miei richiami.
In un attimo di lucidità, mi venne spontaneo mordergli con forza le palle, data la loro posizione a me così favorevole. La mia azione ebbe il risultato di farlo saltare all’indietro con una velocità che nemmeno un grillo si sognerebbe.
“Maledetta puttanaaaaa!!! Lo dicevo io che eri un demoniooooo!!! Bastardaaaa!!!” urlò, cercando di riprendersi.
Scattai in piedi e tentai di raggiungere la porta. Lui mi afferrò per un braccio ed estrasse un coltello. Raccolsi tutte le mie forze e la mia disperazione, riuscii ad aprire la porta e a trascinarmelo dietro, fin sul corridoio soppalcato che sovrastava l’ambiente inferiore.
Urlai nuovamente a squarciagola, attirando l’attenzione di quanti stavano sotto.
Probabilmente, timoroso di essere scoperto, il mio aggressore lasciò repentinamente la presa del mio avambraccio. Non ebbi la presenza di spirito di cessare per tempo gli strattoni che davo per sfuggirgli. Così, il rinculo che ricevetti mi fiondò verso la balaustra.
La stessa forza che avevo messo per divincolarmi, mi catapultò oltre il parapetto, facendomi precipitare a peso morto.
Rovinai su uno dei tavoli sottostanti. L’impatto fu così repentino e violento che tutto ciò che stava sopra di esso, e che non rimase schiacciato sotto il mio corpo, volò per aria. Alcune persone sedute sulle panche accanto, dallo spavento, si ribaltarono a terra.
Per una volta in tutta la sua storia, nella sala gremita calò un silenzio totale e raggelato.
Un istante dopo l’impatto, vidi dall’alto il mio corpo spalmato sulla superficie ingombra di cibi e suppellettili. I miei capelli erano sparsi in un fulvo ventaglio che stava impregnandosi velocemente del sangue che mi sgorgava copioso dalla bocca e dalla tempia sinistra, mentre le mie braccia aperte sembravano abbracciare amorevolmente la solida superficie che mi aveva uccisa.
Trascorsero parecchie decine di secondi, prima che qualcuno rompesse l’immobilità della scena per avvicinarsi a me ed accertarsi se ero ancora viva. I miei occhi sbarrati sancirono senza alcun dubbio la mia dipartita.
In questo lasso di tempo, vidi i loro volti offuscarsi e diventarmi irriconoscibili, proprio come potei osservare su alcuni intervenuti al mio primo funerale. Ma qui, proprio tutti subirono lo stesso fenomeno, nessuno escluso.
Così, realizzai che ciò era dovuto al fatto che le loro erano anime perse, oppure erano esseri dalle sembianze umane ma senza un’anima, proprio come ebbe ad ipotizzare un mio professore universitario, sostenitore del teorema che non tutti gli esseri umani hanno un’anima e che molti animali, invece, ce l’hanno.
Uno degli astanti, con lo sguardo atterrito, si rivolse all’oste e gli domandò: “E, adesso, cosa si fa?”
Il padrone della locanda, senza togliere gli occhi dal mio cadavere, rispose freddamente: “Era una povera diavola… Ma non voglio problemi a casa mia. Qualcuno vada ad avvisare il prete: gli dica che è capitato un incidente e che serve benedire un morto. Intanto, portiamola velocemente al cimitero. La seppelliremo subito, senza troppo clamore.”
Due di loro si diressero svelti fuori dal locale, mentre altri tre o quattro presero il mio corpo, lo avvolsero in una tovaglia ed eseguirono le istruzioni dell’oste.
I miei colleghi si affrettarono a pulire tutto ciò che era coperto dal sangue e presero a spazzare da terra i cocci di bicchieri e piatti, e i rimasugli di cibo che contenevano.
La mia visione seguì i miei resti nel percorso verso il camposanto. Sotto una pioggia gelida e battente, al chiarore di alcuni lumi a petrolio, nel più remoto angolo fu scavata una fossa e vi fui gettata senza troppi riguardi.
Mentre il prete recitava alcune preghiere, alcuni sgherri si affrettarono a ricoprire lo scavo e a camuffare la terra smossa con della paglia. Ovviamente, non fu deposta una lapide, e nemmeno un semplice crocefisso.
Sulla via del ritorno, l’oste spiegò ad alcuni suoi clienti che “la poveretta” era orfana e che non aveva parenti o amici che sarebbero venuti a cercarla. Perciò, se nessuno avesse raccontato quanto successo, tutti si sarebbero dimenticati di Molly molto velocemente.
Tornato alla locanda, per risollevare gli animi, offrì da bere a tutti i presenti. Poco dopo, il prete, anch’egli con il viso offuscato, si unì alla cricca di assassini e conniventi.
In breve, l’atmosfera chiassosa e caotica tornò la stessa di sempre, proprio come se nulla fosse accaduto.
Tra tutto quel casino, riuscii a cogliere chiaramente una frase pronunciata dall’oste: “Tranquilli, domani arriverà una nuova ragazza che sostituirà Molly come cameriera e come puttana. Ci sarà da divertirsi per tutti! Ah, ah, ah…!”
Nonostante il distacco dalle cose materiali da cui era permeata la mia anima, e che avevo imparato a reputare normale per la mia condizione di trapassata, anche in quest’occasione non fui risparmiata da una forte indignazione.
Come di consueto, il mio spirito prese ad elevarsi velocemente al di sopra della scena, ma questa volta udii la voce di una giovane che mi ringraziava ripetutamente, riconoscente e felice di essere finalmente libera dal destino crudele di cui era stata vittima.
Ovviamente, la voce era quella dell’anima della quale avevo momentaneamente preso il posto nel corpo dell’infelice ragazza dai capelli colore del fuoco.
Volgendo lo sguardo al cielo, diventato repentinamente limpido e stellato, pensai: “Ci deve pur essere una giustizia in grado di punire quegli esseri aberranti e demoniaci…”
Non feci in tempo a concludere il pensiero che una saetta di potenza incredibile si abbatté con un fragore assordante sul fabbricato della locanda e, con la stessa velocità con cui era arrivata, lo ridusse in un cumulo di cenere fumante, mentre decine di voci agghiaccianti venivano inghiottite dalla terra dove sorgeva.
(parte 2 di 2)
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