Lei mi è sacra (prima parte)
"Lei mi è sacra. Ogni desiderio tace alla sua presenza. Non posso dire quello che succede in me quando le sono vicino; mi pare che tutta l'anima si riversi nei miei nervi."
Queste frasi tratte da "I dolori del giovane Werther" di Goethe mi vennero in mente quella sera, mentre la guardavo seduta sul divano che discorreva animatamente, sorridendo e gesticolando con grande scioltezza. Capii di amarla così forte, che mi sentii un romantico di inizio ottocento; con tutta quella sbobba retorica sull'amore spirituale che travolge un uomo e una donna quando si amano e non possono amarsi, quando vorrebbero toccarsi e non devono farlo, quando sanno benissimo che ciò che fa crescere a 'sti livelli stratosferici la loro attrazione è proprio l'impossibilità di cedere ad essa, eppure, pur sapendolo, continuano ad amarsi.
La sostanza dell'amore è questa d'altronde: la distanza tra desiderio e realizzazione. E lo sforzo di non realizzare il desiderio per non annullarlo.
Ma quando le provi comunque, queste sensazioni, ti coinvolgono troppo. E le ami, queste sensazioni, come qualcosa di sacro, che ti svela per l'ennesima volta qual è il senso profondo e unico della nostra vita, la sola cosa per cui valga la pena di vivere.
Si, si, va beh.... Ma cominciamo dall'inizio, appunto.
Avevo conosciuto Beatrice per mezzo di un'amica comune. Una sera mi aveva invitato alla sua festa di compleanno, dicendomi: « Dai vieni, è gente simpatica, ho detto che avrei portato un amico... Mi scoccia andarci da sola... »
Ed ero andato. Curioso il giusto, ma anche cosciente che la cosa poteva essere noiosissima. Era una di quelle situazioni sleccate della buona borghesia milanese, colta e ricca, che pur piene di buoni propositi di informalità, diventano ultraformali di fatto, a causa della pretenziosità politico‐culturale che vogliono emanare. Comunque andai. Dovevo troppe cose a Carlotta e quello era uno dei modi meno faticosi per sdebitarmi.
Quando arrivammo e lei venne ad aprirci, fu come un pugno nello stomaco. Quei due occhi grigio‐scuri, ondeggianti e liquidi, che si spalancarono su di me, non dico che mi accecarono, ma quasi. E quel vestito di raso rosa, attillato e corto sopra il ginocchio, accoppiato con quelle scarpe grigie decolleté e con un piccolo tacco, neutralizzava immediatamente la romanticità del suo sguardo per dirottarti verso dimensioni ben conosciute di puro, semplice attizzamento.
Quando la mia amica mi presentò sulla soglia e lei mi guardò fisso negli occhi per un solo fuggentissimo istante, sentii cominciare a risorgere nella mia anima quell'archetipo romantico di cui parlavo all'inizio e che era stato un must decisivo della mia adolescenza, corredato da vari tentativi di realizzazione, regolarmente e totalmente sempre frustrati.
Ricordai la mia passione culturale, alle superiori, per la descrizione dell'amore romantico, e il mio impazzire per quel "romanzetto" di Goethe, che il nostro prof. ci aveva fatto leggere mentre studiavamo il Foscolo. Ci aveva detto placidamente: « Vedete ragazzi, il famoso "Le ultime lettere di Jacopo Ortis" in fondo è una sorta di cover de "I dolori del giovane Werther” di Goethe. Stesso soggetto, stesso genere narrativo, stesso finale, stessa atmosfera. Cambiano solo alcuni insignificanti particolari... Se calcolate che è stato scritto quattro anni prima che il Foscolo nascesse, potete capire bene che non solo gli italiani in quell'epoca si ispiravano abbondantemente, fino a copiarle, alle letterature tedesca e francese, ma lo facevano anche con decenni di ritardo... Così era ridotta allora l'Italia, vera provincia d'Europa...»
E così, per studiare il Foscolo, eravamo partiti da Goethe. Il prof. ci aveva spiegato che "I dolori del giovane Werther" era stato il primo romanzo veramente romantico della storia, scritto anzi quando ancora quell'aggettivo non era neanche stato coniato; e che era diventato un vero best seller e aveva travolto tutti i giovani acculturati d'Europa. Tutti avevano divorato quel “romanzetto” e tutti avevano preso ad imitarne il protagonista, cominciando a vestirsi e ad atteggiarsi come lui, ed arrivando persino ad uccidersi per amore, per essere trendy e alla moda fino in fondo.
Voi capite bene che, spinto anche da quella atipica introduzione critica, io mi ero divorato quel "romanzetto", e mi ero stampato nell'anima quell'archetipo, che era ormai fuori epoca, ma che, anche per quello, avevo giudicato molto, molto figo...
Insomma nei giorni in cui avevo conosciuto Beatrice quell'archetipo era risorto prepotentemente in me, dopo che per almeno un paio di decenni lo avevo quasi oscurato, seppellito in qualche zona recondita del mio inconscio più profondo.
Dopo averci accolto, Beatrice tornò a fare la padrona di casa, dolcissima, elegantissima, raffinatissima, ed io mi sorpresi in varie occasioni incantato ad osservarla e a gustarla in tutte le sue pose, in tutti i suoi atteggiamenti.
Stavo seduto immobile su quel divanetto con il bicchiere di gin tonic in mano e mi divertivo a guardarla, solo a guardarla. Non sperai neanche di poterle parlare, di cominciare a conoscerla, e mi tornò in mente un altro brano del Werther: "«Io la vedrò!» esclamo al mattino quando mi sveglio, e con gioia guardo il bel sole: «Io la vedrò!» E non ho altro desiderio per tutto il giorno. Tutto, tutto è assorbito in questa prospettiva! "
Tanto che, quando lei arrivò al nostro divanetto e si mise a sedere tra me e la mia amica, mi emozionai a dismisura. Allora la osservai da vicino e intrasentii il suo odore, la sua fragranza; notai la sgranatura della sua pelle abbastanza scura, la foltezza dei suoi capelli castani e le sue mani con le dita lunghe e affusolate. Quando si rivolse a me poi, e con fare cortese mi disse: « E tu Fabrizio, cosa fai nella vita?», mi sembrò un miracolo. Persi quasi la testa e, ora non ricordo bene, ma senz'altro le risposi con dei banali monosillabi.
Non mi sembrò che fosse colpita da me, anzi, dopo quelle due chiacchiere si alzò e torno a fare audience tra la massa degli invitati.
Quella sera la rividi un'ultima volta mentre rientrava dalla terrazza con sopra al vestito un impermeabilino nero, e mi sembro così smodatamente carina, che davvero quasi mi impaurii e affrettai i preparativi per l'uscita, che la mia amica aveva già cominciato a fare.
« Ci rivediamo, si? » mi disse mentre mi dava la mano per salutarmi. Io la squadrai un attimo con forza, notando con gusto il contrasto tra il nero dell'impermeabilino e il rosa del vestito, e dissi: « Si certo, spero proprio di si...» E solo in quel momento le lasciai trasparire chiaro che ero stato colpito, tanto. Lei mi fissò ancora una volta con quegli occhi grigi e disse solo: « Bene, buonanotte.»
La mia amica, che non si era accorta di niente, appena usciti mi disse:
« Allora che ti è sembrato di Beatrice, bella no?»
« Cazzo, se è bella...» risposi e aggiunsi canticchiando: « Bella...bella e impossibile....», entrando definitivamente e stabilmente nel mood “testa tra le nuvole”.
Poi non vidi l'ora di congedarmi da Carlotta, per concentrami su quel pensiero immenso e sui flashback di quella serata.
Volli rivederla subito, e andai su Facebook. La trovai e vidi che la sua pagina era aperta a tutti, per cui mi ubriacai delle sue immagini, esplorando palmo a palmo il suo profilo e gustandomi con ardore i suoi look vari e sempre raffinati... Poi le chiesi l'amicizia, ma subito annullai la richiesta. Mi sembrò troppo invadente farlo e decisi di aspettare gli eventi, giocando solo sulla suggestione creatrice. C’è chi dice in giro che se uno pensa una persona con forza, se desidera con forza che questa persona lo pensi, la cosa succede prima o poi, ed io automaticamente innestai questo meccanismo dell’anima dentro di me: cominciai a pensarla forte.
E dopo una settimana il miracolo avvenne. « Mi ha detto Beatrice: perché non porti anche quel tuo amico simpatico che è venuto alla festa del mio compleanno? »
Quando la mia amica Carlotta pronunciò queste parole, quasi mi spaventai per i risultati dei miei pensieri. La suggestione creatrice stava funzionando dunque: lei in qualche modo mi aveva pensato.
Quella sera si trattava di una cena per pochi intimi: otto persone, compresi i padroni di casa. Oltre a me e Carlotta altre due coppie area borghesia milanese.
Quando mi vide arrivare, mi sorrise con forza: « Ciao Fabrizio!!! ‐ si ricordava il mio nome dunque! – Come stai? »
Mi trattava con confidenza, eppure non ci eravamo scambiati che due magrissime parole. Possibile? Che davvero anche lei mi avesse pensato durante quella settimana? Non mi risposi, perché mi persi di nuovo ad osservarla.
Aveva una camicetta attillata e lucida grigio chiara che riprendeva i suoi occhi, sopra a dei jeans anch’essi attillati, corti alla caviglia; e ai piedi due scarpe nere decolléte, con un tacco medio, capelli sciolti e lucidalabbra. Sempre classe, sempre grande stile misto a sensualità appena accennata.
Quella sera ogni tanto mi si rivolgeva. Quando dicevo qualcosa di interessante o quando con i miei sguardi le facevo capire che ascoltavo con attenzione quello che diceva lei.
Dopo cena poi si sedette accanto a me sul divano e mentre parlava mi fissava con quegli occhi di ghiaccio ed ogni tanto mi chiedeva qualcosa sulla mia vita. Mi sentivo perso, e tutto il resto che succedeva intorno a me sinceramente neanche lo vedevo.
Scoprimmo di avere una passione comune per l’Ottocento. Anche lei aveva fatto il liceo classico e si era flesciata per la letteratura francese di quel secolo: Balzac, Flaubert, Baudelaire, Maupassant… Per cui decidemmo di andare insieme a visitare una mostra sulla pittura romantica.
Aveva il depliant di presentazione appoggiato sul tavolinetto posto davanti al divano, e la copertina era proprio il quadro di Hayez raffigurante il famoso bacio romantico. Non vi dico come fui travolto e turbato da tutte quelle strane coincidenze.
Accettai entusiasticamente la sua proposta e il sabato successivo ci trovammo davanti al palazzo reale, alle 15,30, per visitare insieme quella mostra.