Lettera da un romantico
Erano le quattro del mattino. Un’esplosione riecheggiava lontana, ai bordi della città in festa. I fuochi e i petardi ronzavano nelle orecchie stanche e leggermente brille del commissario Lugarini, mentre si chinava ad osservare quel corpo inerte.
Una chiamata improvvisa lo aveva sottratto ai festeggiamenti per quel nuovo anno appena nato e già insanguinato. La piccola cittadina ‐ che poi tanto piccola ormai non era più, ma si sa, la gente ama convivere con le idee del passato ‐ era avvolta nella baldoria. Il tempo era stato clemente, nonostante i nuvoloni del pomeriggio, e la temperatura abbastanza mite di quell’inverno, aveva fatto si che migliaia di cittadini, stranieri e turisti si fossero riversati nelle vie della città.
Il commissario Lugarini beveva a grandi sorsi il caffè bollente che si era fatto portare dal giovane agente di pattuglia. Lontano anni luce dalla festa e dai fuochi notturni, teneva in mano un foglio di carta e se lo passava di continuo sotto gli occhi, storcendo la bocca e scuotendo la testa, incredulo.
Salvo, il giovane agente, lo osservava in silenzio; rispettava quell’uomo dall’aspetto sempre così altero e scorbutico. Guardava la sua enorme mole oscillare nella penombra, il fumo del caffè che si alzava lento dalla tazzina e quel foglio scritto a macchina. Voleva sapere; gettava occhiate furtive, ma non riusciva a carpire che qualche parola in qua e là. Il commissario se ne accorse e lo scrutò con curiosità.
‐Quanti anni hai giovanotto?‐
‐Ventisette, quasi ventotto ormai.‐
‐Quando li devi fare?‐
‐A marzo, il tre, commissario.‐
Lugarini sorrise e gli mostrò il foglio.
‐Beh, avevate la stessa età… Lo conoscevi?‐
‐Di vista, commissario. Frequentavamo la stessa scuola, ai tempi del liceo, ma non abbiamo mai avuto niente a che fare.‐ Guardò il cadavere steso sul pavimento e poi di nuovo il commissario.
‐Era un tipo particolare…‐ disse poi quasi con vergogna.
Il commissario socchiuse gli occhi. Si passò una mano nella folta barba grigia e pensò a quante volte nella sua lunga carriera – venticinque anni di onorato servizio – avesse sentito pronunciare quella frase. –Cosa significa, un tipo particolare?‐
Salvo sembrò contento della domanda; tutta quella attenzione nei suoi confronti da parte del commissario lo lusingava. Prima il caffè, poi quella richiesta sull’età, ora questa nuova domanda. Gli altri agenti stavano setacciando il bilocale, in cerca di qualche indizio o qualche altro reperto che potesse essere utile alle indagini.
‐Ehi, giovanotto‐ riprese il commissario –allora, cosa significa che era un tipo particolare? Si drogava, era un alcolizzato, un violento, un depresso?‐
‐No, commissario. Non so spiegarle bene.‐ rispose Salvo un po’ intimorito dal tono proditorio del capo.
‐Beh, provaci ragazzo, non voglio passare tutta la notte in questo tugurio.‐
‐Come dirle, era un tipo per i fatti suoi. Anche a scuola, se ne stava spesso in disparte, in un angolo, oppure a giro per i corridoi, senza parlare con nessuno.‐
‐Non aveva amici, vuoi dire?‐
Salvo si grattò il mento glabro, il tic del commissario pareva contagioso.
‐Non esattamente, commissario. Ne aveva certo alcuni, ma per la maggior parte del tempo, sembrava volersi isolare dal mondo. Di certo, mi è sempre sembrato molto solo, almeno nell’aria. Un solitario ecco‐ disse dopo una pausa con un risolino sommesso, contento di aver trovato le giuste parole. ‐Un ragazzo magro, timido almeno in apparenza, e molto solitario. Una specie di romantico sognatore dall’aria sempre malinconica. Forse non triste, commissario, ma certamente pieno di malinconia. Le poche volte in cui abbiamo scambiato due parole, sembrava di avere a che fare con un vecchio film americano, in cui gli attori parlano piano e sembrano ricercare ogni parola. Un tipo originale, di certo.‐
Il commissario Lugarini si piegò sulle ginocchia per osservare meglio il corpo senza vita del giovane. Un colpo di pistola ne aveva asportato la parte sinistra del cranio, una pallottola di un calibro notevole a vedere il risultato.
‐Beh, di tipi solitari o originali, ne esistono molti.‐ disse al giovane agente, passandogli il foglio di carta. ‐Leggi e dimmi che ne pensi.‐
Il foglio era in realtà una lettera. Una lunga lettera d’amore, il grido di un uomo folle di sentimento. Salvo lesse con attenzione le parole del ragazzo, gettando di tanto in tanto un’occhiata ora al commissario, ora al defunto steso sul pavimento. Quand’ebbe finito, il cellulare del capo squillò. Lugarini uscì dalla stanza e si allontanò. Tornò dopo pochi minuti e guardò con soddisfazione il giovane agente. Doveva ammetterlo: aveva un debole per quel ragazzetto imberbe e spigliato. Gli ricordava se stesso, la sua giovinezza e l’entusiasmo che metteva nelle prime indagini, prima che tutto divenisse semplice routine. La malinconia che lo prendeva a volte, non aveva nulla a che fare con i morti, i tormenti, le malefatte con cui doveva quotidianamente convivere: era dovuta proprio all’abitudine, al fatto che un morto ormai non lo scandalizzasse più di tanto. Era atroce, era forse insensibile? No, non pensava questo di sé. Ma notava con estremo rammarico che le sue reazioni davanti a certi drammi, non erano più così istintive e violente. Era calmo, ma calmo con tormento.
Così, osservava Salvo e se lo sentiva vicino; perlomeno col suo entusiasmo riempiva di senso quelle sue emozioni così vuote.
‐C’è una novità.‐ disse poi, scrollandosi di dosso la malinconia. –Conosci Dalia Vargas?‐
‐Certo!‐ esclamò sorpreso Salvo ‐la conosco anche piuttosto bene.‐
Aveva avuto con lei una storia di qualche mese, ai tempi del liceo. Dalia era bella, di origini messicane; una donna piena di vita e di entusiasmo. ‐Ma cosa c’entra lei?‐ chiese al commissario, preoccupato.
‐Hanno finito adesso di interrogarla. Sembra essere lei la destinataria della lettera.‐
‐Di questa lettera?‐ chiese Salvo sbalordito. Gli pareva impossibile che una come lei, avesse potuto avere a che fare con uno come Gianni Lobina. Guardava il corpo del cadavere e si chiedeva cosa diavolo potesse entrarci la sua bella ex.
‐Questa lettera, si.‐ riprese il commissario strappandolo ai suoi pensieri.
Il commissario Lugarini riassunse in breve il succo dell’interrogatorio. Gianni era scomparso da una festa verso le una e mezza, festa in cui appunto si trovava Dalia con alcuni suoi amici. Ed era lì che lui le aveva dato la lettera di cui evidentemente conservava una copia a casa. Dalia, insospettita dalla fuga improvvisa, aveva chiamato Silvio, un amico di Gianni e lo aveva pregato di cercarlo ovunque. Ma il cellulare di Gianni era spento, a giro per le strade non si trovava e neanche nel pub preferito lo avevano visto entrare. Così erano corsi a casa sua, ma erano giunti troppo tardi: il corpo insanguinato giaceva ormai sul pavimento da un’ora abbondante.
Salvo gettò un’occhiata alla lettera e scosse forte la testa. Uccidersi per amore, uccidersi per qualcuno, uccidersi… a ventisette anni. Guardava il corpo di Gianni e se lo sentiva vicino. Ma non capiva, non poteva capire come la vita potesse avere così poco valore per un giovane uomo che poteva tutto, che aveva un infinito davanti agli occhi. Forse Dalia… forse il commissario sapeva tutto.
E infatti, come se avesse sentito e letto nella sua mente, Lugarini si volse verso il giovane agente e lo pregò di leggere ancora una volta la lettera. ‐A voce alta, però.‐
E Salvo lesse, a voce alta e con un groppo alla gola.
Come guardarti e non impazzire? Come non perdere la testa per quello che un tuo solo gesto riesce a trasmettermi? Fino al patetico, al morboso, all’ubriachezza totale dei sensi, io ti guardo e mi sento svanire. Mi siedo e non riesco a respirare. Ti parlo, ti guardo, ti osservo al bar, al cinema, per la strada fra la gente e non riesco a smettere di sorridere. Sorrido e rido felice come un bambino, ancora entusiasta dell’incanto, dell’amore. Sorrido e rido come se mai niente mi avesse ferito, come se il passato fosse stato una grossa ciambella zuccherata, dolce, tenero, familiare e caldo. Sorrido e rido come se tu ci fossi sempre stata nel passato, nel futuro e in questo presente. Sempre presente anche nel vuoto più occludente. Sorrido e rido e mi scopro in lacrime. Come in quei vecchi film francesi in cui tutto sembra essere immobile, anche l’atto più violento e passionale. Questo è il mio sguardo: puntato dritto nei tuoi occhi, in ascolto, sempre. Adesso il mondo non esiste più. Chi lo vuole, chi lo cerca, chi ne ha bisogno? Tutto mi ferisce. Eppure so che tutto neanche mi tange adesso. Il filtro che sia voce, sguardo, sorriso, sospiro, abbraccio, silenzio, rimprovero, il filtro che dipingi attorno a me mi assicura dai mali. E non ho paura di abbandonarmi a te. Potrai ferirmi – ne hai il potere – potrai dilaniarmi, ma la certezza di averti avuto nella mia vita sarà indelebile. Ti guardo e tremo perché nei tuoi occhi riconosco i miei. Quelli di un ragazzetto quattordicenne che si innamorava di tutto e tutti, che si fidava, che si ammalava di sentimento anche là dove c’era solo il nulla. Conosco quello sguardo pieno di malinconia, che non si regala mai, mai si svende o si affitta, mai si disarma sotto prezzo, mai scade nella facezia lurida di un clown d’amore. So che dietro l’amore che mi doni vive tutto un universo: la malinconia che appare, la tristezza, la paura, la fragilità, il bisogno di carezza. Eccoti piegata in ginocchio, curva nella strada, in mezzo ai passanti indifferenti, macchine, moto, gingilli, e tu lì che piano piano ti colori, sempre più viva e fragile, ferma nel bel mezzo del fiume di fango. Nessuno ti nota, nessuno fa caso a quel corpo nudo che si acquatta e osserva sé, il mondo, la terra, il cielo, col suo occhio – mille occhi. Affili il sorriso per prendere respiro, perché il mondo ti ammorba. Ti ripieghi nel mezzo della strada e afferri qualcosa, che è il nulla per il mondo ma la vita per te. Io ti osservo incapace di muovere un dito, fermo, bloccato nell’angolo più buio e nascosto… nudo, debole e timoroso. Sei la bestia che scatena l’uragano. E ti temo. Mi attrai, ma ti temo. È un segreto che mi sfugge dalle mani. Tu lo senti, ma fai finta di niente. Accarezzi la terra piegata sulle ginocchia. Mi senti scorrerti dentro e non ti dai pena. Non gridi, non fuggi, non compatisci: attendi. E io mi chiedo se sei vera o sei miraggio. Così non riesco più a dormire, l’anima è sveglia e selvaggia e ti vuole. Esplodo e ti desidero, e tu sei lì ferma sulla strada. E sei selvaggia, sesso e magma. Niente ti è sconosciuto, nessuna anima o corpo. Sei la porta e la chiave, qualsiasi paradosso sfugga alle mani dell’uomo sconfitto. La rivincita del poeta, la chimera del sognatore. L’anima dell’arte. Mi rattrista l’arte. Fuga e desolazione. Nascondiglio per l’orgoglio sconfitto o vigliacco. Rifugio di una pena troppo pesante per la vita. Dov’è l’anima nell’arte? Dov’è la vita? Non esista vita che valga la pena di essere scoperta nell’arte. Esiste e agonizza solo un senso di sconfitta che ottunde la ragione. La vita vera che è arte, che è anima, è nella donna che cerca accovacciata nella strada, è solo in te. Senza tempo, senza limiti di sorta, senza nostalgie. Tu. Odio guardarmi attraverso i tuoi occhi, eppure mi è necessario. Solo tramite loro posso ripulirmi, esfoliarmi. Non sarei nulla senza l’emozione che mi dai e, cosa infinitamente peggiore, quel ragazzetto quattordicenne avrebbe continuato a dormire in eterno. A volte mi chiedo se senti lo squarcio che provochi dentro me, se senti quel cigolìo che non è dolore né tristezza, ma il nucleo profondo del mio sentimento. Mi dono senza armi e mi spavento, ma non ho più quella guaina di ovatta che smussa ogni sentire. Ho provato ad ucciderti, ma per cosa? Stavo cadendo a pezzi, mentre sentivo il tuo sguardo – così giovane e forte – avvicinarsi a me. Provavo a lottare: che beffa, lottare la vita per la morte. E per di più la morte lenta e arida del cuore. Ho tentato di scacciarti dalla mente, ma l’anima è stata più forte, ha vinto ogni barriera e resistenza, ha annientato i démoni che spuntavano ovunque senza riposo. Sono un uomo? Sono una bestia? Sono un ragazzo, un bimbo, una persona, un artista, uno scrittore, un poeta, un musicista, uno studente, un cassiere, una maschera, un benzinaio? Posso essere ciò che voglio e vivere mille vite, adesso non importa: è solo un contorno. Non mi annullo più come facevo prima, non azzero il mio essere per un amore o una persona. Adesso vivo anima e corpo… E sento. E tutto questo lo devo a te, che mi hai compreso anche quando avresti potuto odiarmi o ripudiarmi, che mi hai fatto sentire vivo anche quando io facevo di tutto per ucciderti. Ti ho fatto male e ho assassinato me stesso. Ma la linfa che ho trovato da quando ci siamo incrociati, vale qualsiasi crocifissione abbia mai vissuto nella vita. Tutto mi ha portato a te, a qui, a adesso. Ti chiedo tanto, perché nei tuoi occhi vedo quello che ho sempre sognato. Perché sento il calore e il bisogno d’amore che hai rifuggito e nascosto per anni. Perché annuso il sesso che traspare dai tuoi gesti. Perché amo la bambina, la donna, la puttana e la madre che custodisci gelosa.
Invecchierò e perderò fascino e senso, ma mai lo sguardo che mi salda ai tuoi occhi.
Ferma tutto e amami come l’uomo che hai sempre portato dentro…
Gianni
Salvo alzò lo sguardo e scrutò il commissario che lo osservava con un sorrisetto malizioso sulle labbra. ‐Non riesco a capire, commissario.‐ disse poi dopo un attimo di silenzio. ‐Cosa vuol dire questa lettera?‐
Il commissario Lugarini si grattò delicatamente la barba cinerea e prese il foglio tra le mani.
‐Immagina, Salvo: immagina un ragazzo, ma non un ragazzo qualsiasi. Un romantico, un sognatore, un giovane uomo che vive nella mente i sogni più fantastici. Mille vite, l’amore eterno, l’amore che squarcia ogni resistenza, che valica ogni limite. Mi segui?...Bene. Immagina ancora questo ragazzo costruirsi un essere divino, nella mente, solo lì, crearsi un sogno e dipingerlo, adornarlo, curarlo. E questo sogno, di colpo, non è più solo un sogno: è qualcosa di reale, un’essenza che puoi toccare. Immagina, allora, un mondo perfetto, creato nell’assoluto, unico, compiuto, tirannico. Attento ragazzo, tirannico… Bene Salvo… Guarda ora questo mondo e guarda quella porta. Al di fuori, oltre quella, non esiste più niente che possa migliorare questo sogno. Esiste il mondo, esiste la realtà. Quello che noi vediamo e sentiamo, quello che percepiamo come vero. Ed è un coltello questo reale, Salvo. Squarcia… Guarda Gianni e guarda la pistola che stringe in pugno: quello è forse l’unico contatto che aveva col mondo, di certo il più tangibile. La sua mente creava fantasie e illusioni. Creava e disfaceva a piacimento, giorno dopo giorno. Pensa solo questo: storie su storie, fantasie e surrealtà. Intrecci senza senso o direzione, subordinati al caso, al caos, alla follia. Non una mente: una fabbrica di allucinazioni! Tiranna, come ho detto prima; perché non lasciava spazio ad altro, perché non concepiva nient’altro che se stessa e il suo punto di vista. Crudele, no?! E una mente come la sua, fragile e lucida come la sua, allo scontro con la realtà, non può creare un uomo: no, può solo annientarlo, solo devastarlo.‐
Salvo scosse la testa e sospirò. – Un rifiuto, commissario. Dalia lo ha rifiutato?‐
Il commissario Lugarini sorrise. Ne aveva viste tante nella vita, ma quella ancora gli mancava.
Gettò il foglio sulla scrivania e mise una mano sulla spalla del giovane.
‐ No, Salvo… Lei gli aveva detto di sì. ‐
Fine Siena, 4 settembre 2007