Lo sciupafemmine
La avvertì prima di vederla. L’aria si spostò repentinamente per lasciarle cavallerescamente il passo e lo investì una fragranza che ne racchiudeva un’infinità senza che fosse possibile distinguerne una in particolare. Conosceva tutti i profumi femminili, sensuali, speziati, dolciastri ed ognuno gli provocava brividi diversi a respirarli sulle donne che li portavano, ma questo era ignoto, inebriante, ipnotico quasi. E poi la donna si materializzò. Nero l’abito che le accarezzava le forme morbide, neri i capelli, che le si arrampicavano come lunghi serpentelli maligni dalla schiena fin sopra la testa, lunare l’incarnato del volto dall’espressione corrucciata e interrogativa, che tuttavia non sporcava la perfezione dei lineamenti. Tutto in lei ricordava l’oscurità, quella notte dalla quale era emersa come per un prodigio miracoloso, ma nello stesso momento una luminosità inspiegabile la rendeva splendida. La creatura più affascinante che Gerardo Cammarota avesse mai visto in vita sua. Eppure di bellezze ne aveva conosciute in quantità. Gegè, così lo chiamavano tutti, era universalmente noto come lo sciupafemmine. La sua fama di implacabile conquistatore nel paese era stata tramandata di bocca in bocca, di pettegolezzo in pettegolezzo, fino a diventare leggendaria. E nonostante il pizzico di esagerazione propria delle chiacchiere, quella leggenda non era tanto lontana dalla verità. Le donne gli piacevano, le corteggiava. Tutte. Che fossero giovani o più mature, formose o efebiche, intelligenti o superficiali, ricche o senza un soldo, le adorava. E loro inesorabilmente gli cadevano ai piedi. Non sbagliava mai un colpo, mai aveva ricevuto un rifiuto, le collezionava come trofei da ammassare una dopo l’altra in una bacheca ideale nella sua mente, dove finivano per impolverarsi, non curate, non considerate. Cercava di non ferirne nessuna, ma in realtà non gli importava nulla di loro. Non sapeva cosa fosse amore, comprensione, rispetto, e non gli importava di saperlo. Contava solo l’eccitazione che gli dava l’idea della conquista, l’essere considerato da tutte come un dio, i sospiri e i gemiti di passione che suscitava, la disperazione delle abbandonate. E ora, ancora intorpidito dalla meraviglia, osservò intensamente quella esotica sconosciuta in cui si era imbattuto. Assolutamente originale. Unica e smarritasi in un posto ignoto, perché si aggirava guardandosi intorno, come cercando una via, una direzione senza trovarla. “Ha bisogno di aiuto? Non è prudente girare di notte da soli. Se vuole posso accompagnarla” Lei parve solo allora accorgersi di lui. Lo scrutò, lo analizzò, reclinò il capo da un lato per valutarlo meglio, sembrò perplessa per un momento, ma poi Gegè dall’espressione del volto intuì la sua risposta prima che la esternasse a parole. Lo fissò col nero abisso delle sue pupille e rispose tagliente:“Non fai per me. Non sei l’uomo che cerco. Arrivederci” Lo sguardo le si schiarì improvvisamente, come se avesse finalmente trovato una illuminazione, fissò oltre la spalla di Gegè, si avviò rapidamente senza neanche un commiato e dopo un attimo era stata fagocitata dal buio di un vicolo senza lasciare tracce. Lo lasciò ancora stordito da quell’invadente desiderio che si era incuneato in lui e lo aveva catturato rendendolo suo prigioniero. Gegè tentò di lanciarsi al suo inseguimento, provò a scovarla per le strade circostanti, ma fu vano, era ormai scomparsa chissà dove e non gli restò che tornare mesto, con passo depresso a casa sua, a leccarsi le ferite per l’onta subita, il primo e unico no ricevuto. Non riusciva a darsi pace, pensò ad una indagine che avrebbe svolto il giorno dopo per ritrovarla, per saperne notizie. Avrebbe chiesto ai suoi compaesani, qualcuno doveva pur conoscerla, forse era ospite, no no, troppo di classe, nessuno lì meritava un gioiello così raro in casa, ma doveva farlo distrattamente, senza mostrare qualcosa di più che semplice curiosità, per evitare di scatenare il tam tam delle chiacchiere delle comari. Dormì pochissimo quel brandello di notte che restava, si svegliò il mattino dopo con livide occhiaie e insoddisfazione palpabile. Impossibile riconoscere in quel volto stanco, in quello sguardo spento, l’irresistibile dongiovanni che incantava col sorriso aperto e brillante, gli occhi magnetici e i modi raffinati. Uscì di casa e affrontò per prima cosa un sole allegro, quasi sfottente, per un attimo ebbe l’impressione di aver solo immaginato la donna, ma si disse che se era credibile sognare un volto, una voce, impossibile invece creare dal nulla quell’aroma che l’accompagnava e che ancora gli impregnava le narici. Era stata una meteora, ma di certo non un parto di fantasie oniriche, non un’allucinazione. Il paese era nervoso quella mattina. Arrivato alla piazza dopo aver coperto rapidamente quella ristretta lingua di strada che chiamavano “il corso”, notò gruppetti sparsi di persone che chiacchieravano con enfasi, bisbigliavano, come accadeva ogni volta che c’era da sparlare di qualcosa o di qualcuno. E ci fu chi lo fissò. Possibile che già sapessero? Non c’era stato nessun testimone della defaillance, ne era certo, a meno che non si fosse nascosto dietro le ombre notturne, ma era tardi, troppo per le abitudini del posto. Non sarebbe stata la prima volta che segreti apparentemente inaccessibili erano stati svelati e svergognati senza potersene dare una spiegazione. Il paese sapeva sempre tutto. Ma non la sua disavventura. Non era di questo che stavano parlando, chi lo aveva guardato lo aveva fatto perchè tutti guardavano sempre tutti, ma la notizia del giorno era un’altra. “Ha saputo signor Cammarota? Povero notaio, pace all’anima sua” lo apostrofò il fornaio, quando Gegè passò davanti alla porta della bottega. Ah già, il notaio Arlingieri, irriducibile ultraottuagenario, che tante volte aveva dato l’impressione di essere lì lì per andarsene per poi riprendersi improvvisamente, tanto da dare l’idea a tutti di una sorta di inquietante immortalità. Dunque stavolta era morto, dunque non era così irriducibile! Certo Gegè non era contento della cosa in sé, ma gli faceva gioco perché impegnati nell’organizzazione del funerale, nella visita al defunto cui nessuno voleva rinunciare, nella litania delle lodi postume di quel brav’uomo, i suoi compaesani non avevano nè il modo, né il tempo, né l’attenzione per accorgersi del suo turbamento. Si guardò intorno, ma vide solo facce note, sempre le stesse da anni, e abbandonò la speranza appena accarezzata di potersi tuffare di nuovo nello sguardo che tanto lo aveva colpito. “Gegè…” Udì il richiamo, voce delicata e sommessa, si voltò di scatto con quella fiammella che riprendeva vita, ma chi gli stava venendo incontro non era che la sua fidanzata. Sorriso un po’ trattenuto, date le circostanze, ma sempre sereno, occhi che lo ammirarono come se fosse il tesoro più prezioso, braccia che lo avvinghiarono teneramente, lei gli si tuffò addosso come si fa con un rifugio. Ogni volta era questa la sua accoglienza, sembrava rilassarsi solo quando lui le era accanto. Era innamorata. Lui no. Ma nonostante questo non lo sfiorava neanche il pensiero di allontanarla da sé, così devota, così adorante, così semplice…. E così stupida, pensava a volte. Non gli faceva mai domande, e soprattutto non ne faceva a se stessa. Forse era davvero un’ingenua, o forse aveva incatenato ogni sospetto, qualunque traccia di gelosia e li aveva seppelliti da qualche parte, perché non la costringessero a tormentarsi, a dubitare, per non perderlo mai. Faceva sogni ad occhi aperti su progetti matrimoniali che probabilmente in cuor suo sapeva essere delle chimere, ma continuava lo stesso a fantasticare. Dopotutto era lei quella esibita nelle occasioni ufficiali, lei la donna pubblica con cui si mostrava a tutti i concittadini, lei quella che entrava in chiesa ogni domenica al suo braccio, invidiata dalle altre di cui sentiva gli sguardi sottecchi, taglienti e maligni. Forse non era affatto stupida in fin dei conti. Gegè ricevette un lieve bacio e tutte le informazioni sul trapasso del notaio e gli fu estorta la promessa di accompagnarla a visitarlo. Non fece obiezioni, non ascoltava nemmeno, ben altro carico di pensieri attanagliava la sua mente. Nella penombra della stanza da letto di Pietro Arlingieri non dovette neanche atteggiarsi a presentare un’aria contrita. Lo era davvero. Era stato stregato, segnato per sempre da quel fugace incontro. Chiuse gli occhi durante la recita dell’interminabile preghiera di suffragio, quel profumo era ancora impresso dentro di lui come una nuvola che lo seguiva, lo rievocò di nuovo, gli sembrò quasi di percepirlo realmente, ed inspirò per conservarne il ricordo ancora per un po’. Non gli aveva neanche dato il tempo di presentarsi, di chiedere il suo nome, di snocciolare qualcuna delle frasi galanti che di solito avevano un effetto travolgente, colpivano al cuore tutte le altre, riflettè mentre rincasava. Oh, ma quella non era una donna come tutte le altre, occorrevano strategie ben più complesse per attirarne l’attenzione, era ben diversa dalle sempliciotte del paese con cui non ci si doveva ingegnare più di tanto, non era paragonabile….Aprì distrattamente la cassetta delle lettere come faceva d’abitudine. Dora! Capì che il biglietto proveniva da lei non appena lo estrasse, senza neanche leggere la busta. Inconfondibile la carta pastello che era ormai diventata il suo marchio, e poi la calligrafia graziosa e capricciosa, nessun mittente scritto sul retro, il francobollo appiccicato al contrario. Insieme a un torrente di parole, novità, esuberanti descrizioni, baci disseminati qua e là e puerili disegnini, la lettera conteneva come al solito un invito ad incontrarsi. Erano tutte uguali le missive di Dora, stesso schema, stesso scopo. Si ostinava a conservarle tutte, sebbene fossero copie con variazioni della prima, come del resto serbava i ricordi di tutte, i piccoli regali ricevuti, in una scatola di scarpe nascosta in cima all’armadio ad eventuali occhi ospiti. Riguardava e rileggeva solo quando doveva riporre qualcosa di nuovo nel contenitore, più che nostalgia il suo era vero e proprio feticismo. Dora era una ragazza di città, conosciuta molto tempo prima in modo casuale. L’aveva avvicinata timida ed inesperta, l’aveva iniziata e trasformata in una spudorata e disinibita amante. Si incontravano clandestinamente, lei era ricca e disponeva di molto tempo libero, nonché di un pied a terre prestatole da una facoltosa e complice amica, l’unica a condividere il segreto della loro relazione. Se il padre ne fosse venuto a conoscenza sarebbe successo un finimondo, perciò erano sempre molto prudenti. Gegè pensava a volte che avrebbe dovuto farsi qualche scrupolo di coscienza, ma quando divideva ore di passione consumata tra le lenzuola della loro alcova, sorprendendosi una volta dopo l’altra dell’inventiva, della sensualità e della naturalezza con cui lo assecondava in tutto, si diceva che quella ragazza era geneticamente portata per la spregiudicatezza, perciò non aveva fatto niente di più che scoprire un talento che altri non avrebbero tardato a far emergere. Doveva forse sentirsi in colpa per una questione di mero tempismo? E continuò a vederla, senza per questo rinunciare ad incontrare ogni altra che gli facesse girare la testa. Ed onorando i suoi impegni di fidanzato. Ogni donna aveva la stessa importanza, era il suo mondo per tutto il tempo che gli stava accanto, e poi sprofondava nell’oblio e nel disinteresse una volta spentosi il piacere. Dora da un po’ lo aveva stancato, troppo giovane, troppo immatura e viziata, più nessuna novità, niente da scoprire ancora. Avrebbe voluto dirglielo tante volte, ma nonostante le buone intenzioni, quando gli si gettava addosso con entusiasmo non riusciva mai a terminare il discorso, non voleva farle del male, non trovava il coraggio, e poi in fondo era lei che lo cercava insistente, negarsi sarebbe stato sciocco e scortese da parte sua. Ma oggi era diverso. Le avrebbe cedute, barattate tutte per ottenere l’unica che sentiva di volere davvero, il cui ricordo non si rassegnava ad essere depositato da qualche parte sopito, ma gli urlava nella testa, gliela martellava, gli invadeva le vene. Stavolta sarebbe stato capace di dire basta. La noia della sua persona gli era insopportabile, non si sarebbe espresso proprio così, ma trovare le parole adatte non sarebbe stato un problema. Il giorno seguente arrivò in città puntuale, e come di consueto lei lo aspettava al solito posto, a pochi isolati da casa. Salì in macchina, Gegè la guardò appena, sovrapponendo al suo allegro vestitino a fiori il buio di quel raso che copriva fianchi e seni che forse non avrebbe mai potuto scoprire e toccare, gli diede un bacio e si accomodò sul sedile, pronta per l’ennesimo pomeriggio dedicato al sollazzo, ma lui non mise in moto e rimase con la testa china, a fissare ostinatamente il volante. “Allora? Non si va?” cinguettò Dora impaziente e scherzosa. “No”, cominciò lui con voce bassa e grave, e da lì, con esitazione, in modo sofferto, recitando un ruolo già interpretato altre volte, sciorinò la serie di motivi per cui loro due non dovevano più vedersi, la giovane età di lei, il suo bene, la propria volontà di non approfittare più di lei. Balle che avevano sempre suscitato singhiozzi e sconforto, le rare volte che le aveva utilizzate per scaricare qualcuna, parole ormai imparate a memoria, dal risultato garantito. Dora, come le altre, urlò, supplicò, scongiurò di non essere lasciata, lo picchiò persino, colpendolo con quella sua manina che in genere era stata utilizzata per comunicargli sazianti delizie, ma lui, indifferente, fingendo una pietà che era ben lungi dal provare, pensando che sarebbe stato bello potersi sentire così distaccato dalla donna in nero, trattarla così senza sentire neanche un sussulto di compassione, umiliarla per farle pagare la sua freddezza, fu irremovibile. La ragazza alla fine scese dall’auto e Gegè mise in moto in fretta, sparendole dalla vista in un lampo. Si sarebbe consolata presto, si convinse, avrebbe trovato in poco tempo qualcuno da condurre in quell’appartamentino che da oggi non avrebbe più assistito alle loro evoluzioni, che in quel pomeriggio tiepido di sole primaverile avrebbe aspettato invano il loro arrivo. Ma Dora invece ci andò. Come improvvisamente folgorata dall’unica, ovvia, naturale cosa da fare, camminando lentamente in modo automatico, fissando l’asfalto delle strade che la separavano dal suo nido d’amore, arrivò alla meta con un solo pensiero, una sola ossessione, un tragico incolmabile vuoto, il suo amore perduto. Andò diretta nel bagno, si mosse febbricitante e isterica cercando e frugando nell’armadietto, trovò. Una lametta da barba. Riempì la vasca da bagno fino all’orlo e senza chiudere i rubinetti, si spogliò come obbedendo agli ordini della follia, ormai sua unica padrona, e si calò nell’acqua bollente, recidendo con gesto rapido i suoi giovani polsi. Sangue, languore, lacrime, le pareti della stanza, l’acqua che scrosciava, si mescolarono tutte in un magnifico, teatrale dramma di cui fu per qualche minuto assoluta protagonista, cui l’unico spettatore desiderato non assistette. Fu questo il suo ultimo pensiero. Fu trovata più tardi, quando ormai l’acqua aveva aggredito il pavimento di tutta la casa, dissanguata, immolata a beneficio di chi non avrebbe mai conosciuto quel gesto, e in ogni caso non l’avrebbe mai pianta. Che di lei avrebbe serbato solo le superficiali lettere nella scatola di scarpe, senza mai rileggerle nemmeno. Nel frattempo l’ignaro Gegè era in un bar, intento a sorseggiare una bibita, refrigerio necessario dopo l’impegnativa conversazione appena terminata, nient'affatto sollevato nel cuore che gli doleva di straziante desiderio inappagato. E in quel momento, fu di nuovo lei, proiettata nel grande specchio del locale, che passava. Lui si girò, guardò verso la strada e si precipitò fuori impetuosamente, accompagnato da grida di protesta del barista che aspettava il pagamento della consumazione. Lo ignorò, non poteva trattenersi, non doveva perdere tempo, aveva solo quell’occasione. Lei era lì, inconfondibile pure in mezzo a tanta gente che affollava il centro. Affannata, i capelli che la seguivano svolazzando vaporosamente, agitata come una gatta selvatica, sembrava in fuga, si stava allontanando in fretta, quasi correndo, in evidente ansia. Gegè le fu dietro, guidato nel pedinamento dalla scia dell’ormai familiare profumo, cercando di non perderla di vista tra le tante persone alle quali era mescolata. Lanciò un grido, un “Ehi” di richiamo, lei voltò appena il viso, ma non si fermò ad attendere che la raggiungesse, non interruppe neanche per un istante il suo incedere, non lo considerò minimamente e tirò dritta ancora più velocemente. Così vicina, questione di pochi metri, ma distante come due terre divise dall'oceano. E poi scomparsa, perduta di nuovo. Gegè rimase inerte, boccheggiando per l’inseguimento faticoso che aveva tentato, ancora una volta distrutto, ancora una volta desolato. Non voleva saperne di lui, l’aveva evitato, era scappata! E intorno chiunque passava gli riservava occhiate sospette, diffidenti, ironiche. E il proprietario del bar, quando ci tornò per regolare il conto, lo aveva certamente identificato come un pazzo pericoloso che si sbrigò a liquidare, ne era certo. Non ne poteva più. Era troppo. Ignorato, snobbato. Lui, lo sciupafemmine! Quella rara bellezza doveva certamente avere qualche rotella fuori posto. Si rimirò nello specchietto retrovisore dell’auto sulla via del ritorno, quasi per controllare che il suo aspetto fosse sempre quello. E continuò a scrutarsi con attenzione anche davanti allo specchio del bagno. Era lui, identico al solito, le sue affascinanti fattezze, ammirate e vagheggiate da tante erano immutate. Doveva essere abituata a meraviglie celestiali per scansarlo, per fuggire così senza mostrare interesse. Forse non era il tipo attratto soltanto dall’aspetto fisico, ma lui di doti ne aveva da vendere, se solo gli avesse permesso di mostrargliele. Persino gli uomini lo apprezzavano. Gli amici affezionati ne invidiavano benevolmente i trionfi, padri a cui aveva restituito disonorate figliole prima illibate gli avrebbero cavato volentieri gli occhi, ma mai avevano osato affrontarlo, mariti da lui omaggiati di corna e umiliazione, nonché coperti di ridicolo, mai avevano proferito parola contro di lui. È che sotto sotto lo stimavano, avrebbero voluto essere come lui, incuranti delle regole, dotati di charme in avanzo, grandi amatori, senonchè avevano troppa paura di sfidare i benpensanti, di uscire dal seminato, del parroco che avrebbe tuonato contro l’assenza di moralità nominandoli uno per uno alla affollatissima messa domenicale, e della reazione delle loro compagne. A Gegè non importava essere minacciato di scomunica, di essere mal giudicato. Era incredibilmente attraente e lo sapeva. Mai avuto dubbi almeno fino a quando quella catastrofe seducente che ostinatamente gli si sottraeva si era intrufolata nella sua esistenza. Lo aveva sconvolto fin nel profondo. Cominciò a non avere più interesse per le avventure, per le loquaci conversazioni zeppe di adulanti bugie che distribuiva. Nessuna riusciva più a distrarlo, pur se tentava sempre l’impresa, non rifiutava gli incontri e seguiva sempre quel copione di frasi fatte e galanteria ipocrita. Era stanco di tutto, sentì che doveva trovare una soluzione, voleva quella donna o nessun’altra più. Ma non aveva idea di come rintracciarla. In preda alla depressione più nera trovava conforto nelle uscite con gli amici, nelle partite di biliardo, nel whisky trangugiato con avidità in serate fumose, apparentemente spensierate e divertenti, ma fin troppo caste per la sua fama. Aveva vinto e perso quella sera, fumando troppo, bevendo in eccesso, tra battute da uomini e risate volgari, e l’aria pungente della notte quando uscì in strada lo sferzò risvegliandolo in parte da un torpore vischioso. Poche flebili luci lo accompagnavano nel suo cammino, nessuno nei paraggi, era molto tardi. “Sono ubriaco fradicio, è solo la mia immaginazione” pronunciò inavvertitamente il suo pensiero ad alta voce, quando, come un replay della prima indimenticabile volta, la vide di nuovo. “Sparisci, velenosa fantasticheria, non tentarmi” farfugliò quasi urlando, ma quella non scomparve. Se era una fantasia aveva un’aria decisamente concreta. E concreta era. Realizzò questa conclusione in pochi secondi, pur rallentato nei ragionamenti dall’alcool, lo stesso motore che lo spinse a precipitarsi su di lei ed agguantarla per le braccia. Nervosa, spazientita, quasi smarrita la donna cercò di divincolarsi, non poteva essere bloccata, impedita, rallentata in nessun modo. Stava cercando qualcuno ed era indispensabile che lo trovasse. Possibile che quell’uomo non capisse e cercasse di ostacolarla? Ma Gegè quando voleva sapeva essere brutale e la immobilizzava con una tale stretta che le fu impossibile liberarsene. “Non sfuggirmi di nuovo, non voglio farti del male, ho solo bisogno di te, di averti, toccarti, sentirti mia. Ti sogno dalla prima volta che ti ho visto, ti voglio. Io ti amo!”. “Sei pazzo, stai chiedendo qualcosa di impossibile, non sai di cosa parli, te lo ripeto, non sei tu che cerco” la voce era controllata, ma si avvertiva una chiara nota di apprensione, di irritazione. “Cambierai idea, non posso perderti ancora, mettimi alla prova, almeno una volta, poi deciderai se andartene, ma non lo farai. Sei tutto, ti darò ogni cosa che chiedi, ti prego, seguimi!” la incalzò accarezzandole il volto e il collo concitatamente. Lo sguardo di lei divenne pensieroso, incerto, sembrava dilaniata in un dilemma senza via d’uscita, poi finalmente rispose “D’accordo, come vuoi” a malincuore, arrendendosi alle sue stesse parole. Furono a casa di Gegè in pochi minuti. Gegè emozionato, Gegè impaziente come mai gli era capitato, Gegè innamorato per la prima volta in vita sua, che sentiva che la sua vita sarebbe cambiata da quella sera, chiuse la porta dopo averla quasi spinta dentro. Non usò tattiche, affondando il volto nel suo collo, respirando a polmoni aperti il suo paradisiaco profumo che lo confuse, gli fece girare la testa. La liberò delle spalline del vestito, lo fece scivolare sul corpo scolpito denudandola, mettendo in mostra la pelle meravigliosamente diafana. La donna perfetta, la voleva e subito, stava per ottenerla, le prese la testa fra le mani, il cuore tumultuosamente galoppava, troppo veloce, troppo forte, lo investiva quel battito, non riusciva a controllarlo, si sentiva quasi schiacciato. Accanto a lei si sentiva libero dall’insoddisfazione che da sempre era la sua compagna più fedele, che non lo abbandonava neanche nei momenti di maggiore eccitazione, che cercava inutilmente di soffocare, di narcotizzare attraverso le conquiste, le amanti, la devota fidanzata. Era lei la sola a farlo sentire appagato senza neanche averla sfiorata, la amava dal primo momento, da morire. Desiderava baciarla, da morire, avvicinò la bocca, la premette contro la sua, la assaporò avidamente. Da morire. Il dolcissimo sapore di quelle labbra gli regalò un sorriso di compiacimento e poi fu come uno squarcio immediato, simultaneo di tutto il suo corpo, che si accasciò floscio e senza vita in terra, fulminato da un infarto irrimediabile. Da morire, appunto. L’eco dei sospiri ansiosi di qualche secondo prima tardò qualche frazione di secondo a dissolversi del tutto, ma finalmente fu quiete. E la morte fissò con rimpianto quella carcassa immobile ai suoi piedi. Non era suo compito essere sentimentale, mai era stata inseguita, corteggiata, confusa, invitata e svestita prima del suo fatale bacio. Arrivava, colpiva e se ne andava. Non era affar suo essere pietosa, ma lo stesso si chinò su di lui ricomponendolo in una posa più dignitosa, accomodandolo con fatica sul letto in una posizione rilassata. Molti sorridevano al gusto del suo bacio, prima che lei gli sottraesse la vitalità, ma non le era mai capitato di vedere qualcuno così sinceramente contento e bellissimo. Aveva insistito tanto già la prima volta, intralciandola mentre lei cercava la casa del notaio, l’aveva incalzata quel giorno in città, quando stava precipitandosi per mettere fine prima possibile alla sofferenza di quella giovane infelice che spontaneamente stava allontanandosi dalla vita insostenibile, e alla fine, pur impegnata in un altro incarico, tentata si era fatta sedurre, incantare, ed aveva ceduto. Debolezza imperdonabile per chi come lei doveva limitarsi a prendere senza giudicare, senza scegliere. Doveva andare ma rimase. Non volle lasciarlo solo, si trattenne a vegliarlo per il resto della notte, versando lacrime silenziose e disperate, altra ingiustificabile violazione del suo ruolo. E per quella notte la signorina Luce Lo Castro, vittima originariamente designata e cercata per i vicoli del paese fino all’incontro con Gegè, ebbe salva la vita. Probabilmente per molto altro tempo. Perché quella notte, quel paese e questa storia, di morti ne avevano visti abbastanza, e avevano diritto ad una tregua. Non sarebbe ripassata per un po’, riflettè dando un’ultima occhiata a Gerardo Cammarota, detto Gegè, conosciuto come lo sciupafemmine, che aveva anticipato la sua fine scritta per il bisogno di sentirsi veramente vivo, per essere andato incontro alla morte ed averla persuasa ad un baratto, forse, in cuor suo sapendo perfettamente chi era, forse consegnatosi consapevolmente a lei per la pace che incontrarla gli aveva donato. Ad ogni funerale solitamente partecipava tutto il paese, magari con indifferenza, senza un briciolo di commozione per il defunto di turno, solo perché la presenza era richiesta dalla convenzione. Al funerale di Gegè nessuno potè dirsi indifferente. Sincero il pianto delle numerose fanciulle con cui si era intrattenuto, e il cordoglio dei suoi amici, che diventavano improvvisamente orfani del loro eroe. Inconfessato, ma palpabile e a malapena controllato il senso di sollievo misto al rimpianto dei suoi rivali e detrattori. Persino Don Luigi, il parroco, era affranto mentre si apprestava all’elogio funebre di quella giovane canaglia che non era riuscito a redimere con le sue paternali, che non aveva avuto il modo di riportare sulla retta via, come l’evangelica pecorella smarrita. La signorina Luce Lo Castro fece il suo ingresso nella chiesa con passo incerto, viso stravolto da dolore e lacrime, sobrio vestito nero, sostenuta con abnegazione da Michele Curatolo, miglior amico di Gegè. In qualità di storica fidanzata le era stato riservato l’onore del posto della vedova, in prima fila, accanto al feretro, pur se ognuno aveva la certezza che se non fosse capitata la disgrazia mai sarebbe diventata la signora Cammarota. Ma nessuno obiettò, almeno questo riguardo le era dovuto. Fragile e disperata la ragazza non si decideva a staccarsi dal braccio del suo accompagnatore, lo sentiva come la sua unica protezione, il solo soccorso. Pensò che sarebbe stato opportuno invitarlo per il tè il giorno seguente, per ricordare Gegè, per ringraziarlo della sua incredibile gentilezza. Gran brava persona Michele, e forte, solido, ma senza una compagnia femminile, libero e disponibile. Così riservato e discreto, non meritava la solitudine, ma qualcuno che lo comprendesse, che lo aspettasse fedelmente, che gli concedesse la dovuta considerazione. Sì, avrebbe avuto piacere di frequentarlo, naturalmente per onorare la memoria di Gegè, per mantenerlo vivo tra di loro, in fin dei conti se non altro avevano già in comune l’amore incondizionato per lui. Gli si strinse inavvertitamente di più, lo volle seduto accanto a sé quel Michele che si era precipitato non appena saputa la notizia a casa dell’amico, ne aveva guardato l’immoto volto tranquillo dagli occhi chiusi, aveva ringraziato Dio per quel sorriso conservato dall’irrigidimento che significava una morte neanche percepita, senza alcun dolore o spavento e poi si era affrettato a far sparire quella colpevole scatola di scarpe, piena di prove certe dei tradimenti, gettandola nel bidone dell’immondizia per evitargliene la vista, per proteggere l’idea che lei aveva di Gegè ma soprattutto il suo delicato sentimento, il suo amor proprio, povera Luce. Non aveva mai condiviso il modo irrispettoso con cui Gegè la trattava, la costante umiliazione cui era sottoposta dai sussurri maligni della gente. Non gliel’aveva mai detto, né avrebbe mai confessato a lei tutte le confidenze che aveva ricevuto, ma non approvava ed era dispiaciuto per lei, in fondo le era affezionato, e mentalmente prese con se stesso l’impegno di starle vicino, aiutarla a superare il brutto momento, perché affidargliela era sicuramente quello che Gegè avrebbe voluto. La dolce Luce, ignara di essere stata risparmiata grazie a Gegè che in prossimità della morte aveva compiuto, involontariamente, l’unico gesto d’amore per lei, come se avesse indovinato il pensiero del premuroso giovane, ebbe in quel momento la certezza che avrebbe sorriso di nuovo, che non sarebbe rimasta inconsolabile e solitaria, in una sola parola, non sarebbe invecchiata zitella. E Gegè ne sarebbe stato contento, avrebbe capito. Una piccola folla si trattenne sullo spiazzale dopo la cerimonia, per commentare, giudicare e criticare prima di salutarsi. “Lo sciupafemmine non ha avuto fortuna stavolta: la morte non s’è fatta incantare” sentenziò con ironia forzata e di cattivo gusto qualcuno. Ma non sapeva quanto si sbagliava.