Lo specchio
Lo specchio
Era domenica, questo lo ricordo bene, poiché dal “pepperepè” scocciante della sveglia al mio poggiare del piede sinistro sul pavimento intercorse, o così mi sembrò, un lungo lasso di tempo. Lo avvertivo anche dai rumori provenienti dalla strada sottostante, non più assordanti come in tutta la settimana ma fattisi lievi e discreti per rispetto al settimo giorno o alla pigrizia di certi romani che attardandosi fra chiacchiere e tavolate la sera precedente avevano fatto della notte il giorno.
Dormivo placidamente quando fui infastidito e sovrastato da un sordo “tlok.” Veniva da fuori. Mi trascinai svogliatamente alla finestra. Scrutai il terrazzo e vidi la tenda, che sganciatasi dal suo supporto si era arrollata su se stessa.
Già mi infastidiva il solo pensiero di rimetterla al suo posto, sapendo bene cosa significa tirate giù a peso morto quella pertica lunga quattro metri, unta di grasso e pesante di peccati vecchi.
Lasciai cadere la cosa assieme alle mie braccia, che si disposero eloquentemente lungo i fianchi contornandosi di tutta la sciattaggine che offriva loro la mia persona. Le ciabatte mi trascinarono verso il bagno e una volta entratovi chiusi la porta, più per abitudine che per salvaguardare la mia intimità.
Il mio nemico beffardo e con l’aria da finto pietoso era sempre là, non si era mai mosso, almeno così voleva dare ad intendere. Erano anni che sopportavo la sua speculare fiatosa presenza.
Si nascondeva, il sagrestano; farabutto di un pezzo di merda! Che quando chiudevo gli occhi faceva finta di scomparire. Invece rimaneva là, l’infame, a spiarmi e a sbeffeggiarmi da dietro il lucido opaco e marrone che limita la sfoglia sottile dal vetro all’argentatura.
Mi faceva la linguaccia e poi il labbruccio, digrignava i denti e ridacchiava beffardo. Riaprivo gli occhi e fingeva di non essersi mai mosso. Imitava ogni mio gesto, il pappagallo, e mi ossequiava in ogni movimento che facessi. Schifoso, servo adulatore e falso. Con un occhio completamente chiuso e l’altro leggermente socchiuso cercavo con la sua coda di sorprendere sul fatto lo speculare scimmiotto, ma anche così mi atteggiava al crudo sberleffo, parafrasi alla mia uscita di senno.
Passavano impietosamente i giorni, gli anni, e la canutaggine si intrufolava con prepotenza nei miei capelli. Il mio ventre una volta piatto e scolpito andava gonfiandosi, smollandosi e dilatandosi. In ogni ora del giorno e della notte la specula della mia angoscia era presente. Ne avvertivo la presenza anche quando spegnevo la luce. Era là, lo sentivo, anche se faceva finta di essere andato via non comparendo nel buio.
La mia salute cominciò a diventare cagionevole, mi nutrivo pochissimo e lo smaltimento di molta ciccia, invece di ridarmi una figura snella e aggraziata , mi faceva ora apparire emaciato e intristito, con la pelle dilatata e smagliata. Man mano che mi specchiavo mi rendevo conto che anche lui, l’infame, appariva dimagrito per farmi dispetto. Era così geniale nel suo ruolo di attore che riusciva a simulare anche le mie smorfie di dolore che quasi mi convinceva a provare compassione per la sua immagine da povero riflesso.
La notte iniziai a riposare male, e mille ghigni di bocche dentute mi offrivano il tartaro giallognolo dei loro sfottò.
Sono anni che mi riprometto di spaccargli la faccia, mandandolo in frantumi di innumerevoli scaglie. Questa mattina mi sa che lo farò, cosi scomparirà una volta per tutte dalla mia vista quel faccino da minchia lessa che mi asseconda sapendo i miei occhi aperti, e poi quando li chiudo, dietro dietro mi fa versacci sguaiati esplicati accompagnandoli anche con l’agitarsi delle mani.
Per carità: non lo fare! Proruppe una afona voce alle mie spalle.
Alter‐Ego! Angelo custode! O alito opportunista della comare secca, che volendomi preservare dalla follia mi reclamava sano e cosciente tutto per sé.
“Rompendo lo specchio andresti a creare così tanti frantumi che a occhi aperti, non credo mica, ce la faresti a sostenere con lo sguardo” diceva.
La voce, almeno quella non poteva essere riflessa. Veniva da un Mio di dentro! Come un aiuto insperato, potevo avvertirla tenendo gli occhi indifferentemente chiusi o aperti. Per essere più sicuro che non fosse un’altra diavoleria dello specchio mi tappai anche le orecchie; la voce, che più che altro si faceva avvertire come un sentore, mi giungeva rassicurante e consigliera. “Vedrai almeno mille altri Te, e quando chiuderai gli occhi, gli sberleffi li avvertirai moltiplicati per mille e saranno tutti diversi fra di loro poiché il vetro si disporrà casualmente rispetto la traiettoria dei tuoi occhi.”
A quel saggio dire, sentendomi raggelare il sangue diedi retta a quella voce desistendo dal mio sano proposito di vendetta. Da quel giorno feci scomparire dalla mia casa ogni superficie speculare che potesse ricordarmi la scomoda e angosciante presenza di quell’infame riflesso del Me che non conosco.