Maria Antonietta e le signore zie
I racconti di Versailles ‐ N. 4
Maria Antonietta sbadigliò cercando di aprire un occhio gonfio di sonno, il sole riflesso nella specchiera l’accecò per un attimo.
‐ Chiudi le tende, per carità! – strillò alla cameriera che arieggiava la stanza.
‐ Sono le nove, altezza, non vi alzate?
‐ Non di colpo… lasciami prendere fiato…
‐ Madame, le signore zie…
‐ Le signore zie, le signore zie… ‐ disse stizzita la Delfina sedendosi di scatto, buttando indietro il copriletto fucsia per scendere dall’enorme letto.
‐ Madame, vi prego… – le corse dietro la giovane – eccovi la toilette…
‐ Scheiße… ‐ bofonchiò Maria Antonietta. ‐ Prego?
‐ Scheiße!
L’altra la guardò interdetta. La Delfina rise pensando che poteva pronunciare quella parola e che mai avrebbero saputo che in tedesco significava merde: libidine infinita! Come quando da bambina usava con Carolina, la sorella più cara, un linguaggio cifrato e nessuno ne carpiva i segreti.
‐ Scheiße… ‐ disse ancora, ma più pacatamente, ormai sottomessa al rituale quotidiano.
Arrivò la colazione: latte di mucca appena munto, schiumoso, in una tazza di porcellana con le sue iniziali. Lo bevve sbocconcellando croissants appena sfornati per lei. Passò velocemente alle preghiere raccogliendosi in silenzio: i ricordi di Hofburg e di Schönbrunn le trafissero lo sterno. Erano trascorsi pochi mesi da che aveva lasciato Vienna e la separazione doleva. In Francia era chiamata con distacco “l’austriaca”. Di questo, in fondo, provava orgoglio ma la sua, pur invidiabile, nuova condizione aveva un caro prezzo: a Versailles cercava di sentirsi in famiglia senza riuscirci. Chissà se avrebbe finito per abituarsi. Quindici anni! La vita sembrava lunga e lenta. Si alzò facendosi il segno della croce.
‐ Andiamo – disse e le cameriere le fecero strada aprendo una porta mimetizzata nella tappezzeria, con una chiave segreta, quella dei corridoi particolari del castello, dono che le figlie di Luigi XV avevano fatto a Maria Antonietta appena arrivata. Con quella la Delfina, senza essere vista ne seguita, poteva raggiungere le stanze delle zie, anche se solo madame Vittoria l’aveva con affetto autorizzata a trattenersi. Entrando nell’appartamento di tante Vittoria, la Delfina le vide tutte e tre sedute sul divano.
‐ Bonjour mesdames tantes – sorrise con un inchino grazioso.
‐ Bonjour cherie.
Uno dei luoghi più belli del castello, un tempo il bagno del re Sole. Maria Antonietta apprezzava il caminetto di squisita fattura, di un marmo così denso e scuro da avere riflessi azzurri se c’era una certa luce. Spazioso, elegante, di una sobrietà raffinata: poltroncine chiare, divanetti essenziali, lampadari come ghirlande. Sedette osservandole in silenzio.
Le mesdames di Francia, tre grassocce zitellone oltre i quaranta, precocemente invecchiate, si aggiravano come scuri uccelli per la corte, intrigando e lavorando a maglia. Alla nipote avevano insegnato l’uncinetto, col quale tentava di fare per il nonno un panciotto che non riusciva a terminare. Un tempo il Beneamato trascorreva la mattina con le figlie preparando loro il caffè e le zie andavano ogni sera a trovare il padre. Alle sei, l’ora in cui al re venivano tolti gli stivali, indossavano enormi paniers, giubbe ricamate d’oro, mantelli di nero taffetas e sfilavano con cavalieri, dame, paggi, scudieri, guardiani con potenti fiaccole, per corridoi e scale. Il pigro palazzo sembrava animarsi per incanto. Attraversavano il salone di Venere, quello di Diana con gli imperatori, il trono in porpora solenne, scintillavano le fiamme negli specchi della galleria e finalmente la grande camera dove la corte assisteva alle intimità del sovrano. Lì, quel Dio onnipotente, avanzava poggiando le labbra sulla loro fronte per deporvi un bacio. E subito rientravano. Che tempi meravigliosi! Che rimpianto!
Quando in scena era arrivata la favorita, una svergognata di infimo rango, le signore di Francia sentirono di avere perso il solo genitore rimasto. Il giorno che madame du Barry, dopo aver soggiornato dal valletto di camera del re, ricevette l’onore di una migliore sistemazione, toccò a Vittoria cedere alcune sale: per quanto abituata a traslochi e ristrutturazioni, madame Vittoria non glielo perdonò mai e, senza dubbio, questo episodio fu di importanza basilare per cementare ed espandere a corte le numerose fazioni antibarryste.
Maria Antonietta, su una poltroncina dai braccioli imbottiti, ora guardava le tre aspettando.
‐ Zie carissime, allora? Siete riuscite a convocare il re?
‐ Ma certo – disse Adelaide con tono volitivo.
‐ Anzi è lui che ha convocato noi – puntualizzò Sofia
‐ Cioè? –
‐ Siamo invitate a pranzo nei suoi appartamenti – spiegò con calma madame Vittoria.
‐ E quando?
‐ Oggi, alla mezza.
Antonietta batté le mani in segno di approvazione.
– Avete anticipato il motivo del colloquio?
‐ Gli abbiamo fatto cenno, ma voi saprete trovare parole migliori delle nostre.
Madame Vittoria porse un dolcetto che l’altra rifiutò.
‐ Bene, benissimo… allora vado a prepararmi e a farmi pettinare.
Sollevata Maria Antonietta salutò con un sorriso e, dopo un inchino, si avviò dal parrucchiere che come ogni mattina le avrebbe sistemato i capelli sulla sommità del capo. Nella cerchia delle zie la ragazzina era entrata per placare la nostalgia, alla ricerca di un affetto: le piaceva che avessero l’età di sua madre; a loro volta le mesdames avevano trovato in lei un appoggio utilissimo a esercitare l’ostilità sottile e implacabile nei confronti dell’amante del padre. Di loro il Beneamato non era mai andato fiero, pur se in generale non considerava le donne a meno che non fossero giovani e sensuali. A ciascuna aveva affibbiato un nomignolo: “Porcellino” a Vittoria, “Straccio” ad Adelaide, “Pezzuola” a Sofia. Figlie di re senza ulteriori fortune, ammesso che l’esserlo lo sia, erano state afflitte da un’educazione affilata come uno scudiscio.
Vittoria, la più gradevole fisicamente ed espansiva, aveva trascorso l’infanzia a 300 chilometri da Versailles nell’abbazia di Fontévrault, prescelta dalle famiglie nobili per l’educazione dei figli, ambita perché custodiva le tombe di Riccardo Cuor di Leone e di Isabella di Angoulême. Ma lei ne ricordava il chiostro, i lunghi colonnati in ombra, il risuonare di passi misteriosi, i sotterranei con le tombe delle monache dove i bambini venivano condotti a fare penitenza. “Dio mio dove sei?!” aveva un giorno gridato al buio, in ginocchio e con le mani sulla testa, mentre un pazzo, incarcerato nei sotterranei, rispondeva con urla farneticanti. Ancora oggi portava i segni di quella brutta esperienza dormendo male, eccitandosi per nulla, cercando di affogare le crisi di panico nella buona tavola senza badare se ingrassava, preoccupata solo di osservare, a suo modo, digiuni e quaresime.
Durante uno di quei periodi di contrizione, avendo per di più a cena un vescovo, si tormentava:
‐ L’uccello acquatico che ci viene servito sarà magro Padre, possiamo permetterci di mangiarlo?
Il prelato, assumendo un’aria grave, dopo avere riflettuto a lungo:
‐ Per saperlo bisogna farlo pungere sopra un vassoio d’argento ben freddo: se il succo si rapprende l’animale è grasso, se rimane sotto forma di olio l’animale è magro. Allora potremo mangiarlo.
Così fu fatto: attimi di timore, silenzio, poi un mormorio di sollievo quando “Porcellino” e i suoi ospiti capirono che avrebbero potuto saziarsi con grande voluttà.
Sofia era brutta al punto da destare ribrezzo o pietà, la sua altezzosità nascondeva diffidenza, durezza sorprendente d’animo, dettata dalla scarsa considerazione di sé e dalla paura: percorreva i lunghi corridoi in fretta e non rivolgeva la parola a nessuno, o quasi. Per evitare di essere interpellata aveva preso l’abitudine di guardare di sguincio fingendo di non vedere gli altri. Le dava fastidio persino madame Campan, la lettrice umile e affezionata che consumava per la corte i propri polmoni. Soltanto i temporali sapevano domare Sofia.
‐ Madame Campan vi prego, fermatevi… leggete, leggete, mi farà bene… ‐ e le afferrava le mani in preda al terrore durante un fragoroso acquazzone estivo, ma appena spuntato l’arcobaleno: “C’è il sole, nostro signore ci ha graziate… potete andare adesso”.
Adelaide aveva una personalità spiccata, un temperamento forte e ostinato che si era manifestato fin dall’infanzia. Raccontavano che il maestro di danza, unico insegnante di arti ricreative che avesse potuto seguirle a Fontévrault, stava un giorno istruendola su un ballo in voga, il minuetto color di rosa. Adelaide, che avrebbe preferito fosse chiamato in altro modo, lo canzonò:
‐ Blu blu blu… questo nome mi piace di più!
‐ Si chiama minuetto color di rosa…
‐ Blu blu blu … questo nome mi piace di più! ‐ puntò i piedi e rifiutò di fare un solo passo.
‐ Volete provare il #minuetto color di rosa? – il maestro sorrise con malcelata la stizza.
Adelaide per tutta risposta lasciò la lezione. L’ostinazione della principessa ora rendeva il gioco serio, allarmate dalla gravità del caso, le suore indissero un’assemblea nella quale si schierarono, manco a dirlo, dalla parte della figlia del re; dopo mezz’ora tornarono nel salone da ballo dove con ridicola austerità si misero in cerchio battendo le mani a tempo, sostenendo Adelaide che al centro gridava:
‐ Blu blu blu… questo nome ci piace di più! Blu blu blu… questo nome ci piace di più!
Il minuetto fu ribattezzato in blu.
Adelaide era stata poi quella che si era opposta con decisione al matrimonio tra Luigi Augusto e “l’austriaca”. Essendo però intelligente e avendo la malleabilità di un politico, pur mantenendo una rivalità e un’avversione tacita verso la straniera, coltivò con diplomazia la sua amicizia pensando che potesse essere conveniente: anzi fu proprio sotto la sua guida che le zie manovrarono perché la ragazzina cadesse sotto la loro influenza. La cosa non sfuggì all’ambasciatore Mercy Argenteau che preoccupato scrisse alla madre, l’imperatrice Maria Teresa: “Le mesdames tantes amano immischiarsi in piccoli intrighi, pericoloso sarebbe se vi attirassero anche la Delfina”.
Quando Luigi XV entrò nella sala da pranzo, arredata in verde, con arazzi ispirati alla caccia, trovò le donne ad attenderlo. Sedette a capo tavola, Adelaide e Sofia alla sua destra, Maria Antonietta e Vittoria alla sinistra. Durante quel pasto informale, con una servitù ridotta al minimo, dimezzate le stoviglie in porcellana, i camerieri disposero piatti per il brodo, per gli antipasti, per gli arrosti, per le insalate e per la frutta.
Il re si fece portare un uovo alla coque. L’addetto al servizio mise il portauovo di fronte a lui, porse una forchetta che il Beneamato prese, capovolse e tenne con manico oscillante rivolto all’oggetto. Silenzio. Finalmente sferrò il colpo.
‐ Parbleu! – tra i presenti corse un mormorio.
Scoperchiato il guscio in maniera perfetta, Sua Maestà mostrò orgoglioso la calotta: esibizione che ripeteva la domenica, davanti a cortigiani imbarazzati e prodighi di elogi sconcertanti.
Iniziarono. Il sovrano sapeva che l’incontro andava oltre il piacere del trovarsi, conosceva la seccatura cui far fronte, ma volutamente ignorò l’argomento e portò il discorso sullo stile del servizio e l’etichetta.
‐ Trovo sia bene che dal 1750 in poi si vadano abbandonando i piatti d’oro, d’argento, di vermeil… tranne ovviamente nelle occasioni che meritano.
‐ Oh sì, e poi vostro nipote adora le porcellane di Sévres – fece eco Maria Antonietta.
‐ Lo so… mio nipote è giovane, dunque è alla moda… ma adesso dov’è? – chiese accorgendosi all’improvviso della sua assenza.
Madame Vittoria celò un risolino, lo stesso fece Adelaide. A Sofia sfuggì una risata imprevista, fulminea come uno starnuto, che accentuò la sua altezzosa bruttezza.
‐ Vorrei ridere anch’io – disse Luigi XV irritato. Silenzio.
‐ Allora… dov’è mio nipote?
Madame Victoria intervenne: ‐ E’ andato ad aiutare i mastri muratori che stanno ristrutturando l’ala nord, rientrerà stasera.
Silenzio. Il sovrano fece una smorfia di disappunto.
‐ Non gli bastano le serrature? Pure questa ora? Ma che cogl… dove si è visto un Delfino che si ammazza di fatica, si insozza come un plebeo dalla testa ai piedi? Che senso ha?! ‐ alzò la voce, ma incontrando lo sguardo desolato di Maria Antonietta capì all’istante che era giunto il momento di parlar d’altro ‐ Comunque… non c’era qualcosa che dovevate dirmi… di che si tratta?
La giovinetta prese fiato, si schiarì la voce e bevve un sorso d’acqua. Dietro consiglio del suo ambasciatore Mercy Argenteau aveva voluto quell’incontro per una ragione precisa: la contessa Du Grammont, che faceva parte della cerchia della Delfina, durante uno spettacolo teatrale si era rifiutata di cedere il posto alla discussa Madame Du Barry, la favorita se ne era lamentata con il re e la contessa Du Grammont era stata allontanata dalla corte. Personaggio di secondo piano, la contessa era però parente del duca di Choiseul, ministro degli esteri: implicazione di grande rilievo. Con Antonietta Mercy Argenteau si era raccomandato di usare molto tatto e diplomazia, ma bisognava pur parlarne giacché anche il maresciallo di Beauvau e la duchessa di Choiseul avevano preferito rinunciare agli onori dell’intima società reale, pur di non trovarsi accanto quella donna: troppo.
‐ Monsignore – esordì la Delfina – sono veramente dispiaciuta per il comportamento assolutamente esecrabile della contessa Du Grammont, riconosco che essa ha sbagliato, sia nei vostri confronti che nei confronti di Madame. Tuttavia…
‐ Tuttavia? – disse Luigi xv, mentre un “ufficiale della bocca” gli versava del Borgogna
‐ Tuttavia avrei desiderato che prima di allontanare Madame du Grammont voi informaste me, avrei pensato a redarguirla io, a farle riconoscere il suo errore… lo avrei ritenuto un atto di cortesia da parte vostra… dal momento che, come ben sapete, la Du Grammont fa parte del mio entourage, sarebbe stato squisitamente gentile…
Il re bevve d’un fiato, sul volto lungo, grassoccio e cascante, si dipinse un’espressione di imbarazzo che rese più a punta il suo mento.
‐ Davvero? La Du Grammont è stata allontanata da Versailles? – mentì sapendo di mentire – Ma guarda… non lo avrei mai creduto! – dibattuto tra la cieca infatuazione per la sua amante e l’affetto per la nipote pensò di negare ogni responsabilità – Ma come! Non capisco… o forse sì, deve essere stata una decisione del duca di La Vrillière… ah! Quel maledetto La Vrillière… ‐ e strascicò il cognome del Ministro con intento denigratorio.
Gli occhi di Adelaide gli comunicarono scetticismo e rampogna e si zittì.
‐ Ora cosa intendete fare? ‐ chiese Maria Antonietta
Il Beneamato sembrò pensarci un attimo, allargò le braccia:
‐ Ovviamente far tornare a Versailles madame du Grammont…
Maria Antonietta battè le mani sciogliendosi in un sorriso:
‐ Oh… siete il sovrano più grande della terra!
Il re rise soddisfatto.
‐ Potete ben dirlo!
‐ Grazie, grazie Monsignore.
‐ Grazie a voi figliole per questo incontro… ma adesso rompete i ranghi… tornate nei vostri alloggi… ‐ guardò una pendola dorata su una mensola: era ora di tornare da Jeanne! Madame du Barry lo aspettava per rendergli più amabile la vita.
Adelaide, Vittoria e Sofia, si alzarono. Luigi XV le osservò confrontandole con la giovinezza radiosa dell’amante e gli apparvero senza speranza. Sospirò scuotendo la testa, pensò che in fondo non aveva sbagliato Luisa, quarta di loro, a farsi monaca. Aveva lasciato il mondo per la pace di Dio. Di lei restava a Versailles soltanto qualche mesto ritratto. Cresciuta nell’abbazia di Fontévrault dagli undici mesi ai tredici anni, si era sentita a disagio, quando, rientrata in famiglia per un breve periodo, era stata presa nel vortice della corte. Suo padre, sua madre, i suoi parenti, mai venuti a trovarla da bambina, persino le sorelle più grandi dalle quali era stata separata, erano estranei. Non capiva le loro abitudini. La reggia con le stanze labirintiche, gli interminabili corridoi, faceva paura. Sapeva a malapena leggere, non conosceva l’etichetta, non apprezzava i piaceri mondani, ma rammentava l’odore delle monache, il caldo della loro pelle, il silenzio del chiostro e stava male. Ne parlò con l’arcivescovo di Parigi accoratamente. Lui l’ascoltò. Così nell’aprile del 1770, poco prima del matrimonio di Maria Antonietta, Luisa prese la decisione di rifugiarsi nel convento carmelitano di Saint Denis, tra i più rigidi e spartani. Solo suo padre ne era al corrente: consenziente e smarrito non ne fece parola a nessuno. Appresa la scelta le sorelle sbalordirono: “Non è da noi che abita la felicità”.
La figlia di Luigi XV assunse il nome di suor Teresa di Sant’Agostino. Si disse che era stata illuminata da una grande vocazione, che avrebbe dovuto essere santificata, che aveva patito per essere ultima per rango: in realtà aveva sofferto tanto di solitudine, di segregazione dal mondo. Solo suor Paris de Soulanges aveva rappresentato il caldo seno di una madre e ora non voleva altro
Sulla porta le zie e Maria Antonietta salutarono il re con un inchino.
‐ Andate… andate pure…
‐ Grazie ancora Maestà.
La Delfina uscì dalla sala a testa alta, nello sguardo la luce del successo ottenuto, il cuore gonfio di orgoglio. Si proponeva, quella sera stessa, di scrivere alla mamma. non c’era dubbio alcuno, le avrebbe detto, che le sue qualità politiche e diplomatiche erano impareggiabili e che sarebbe diventata un giorno come lei: una grandissima regina.