Martino e la pietra bucata (prima parte)
Martino Campari, classe 1909, era un contadino quarantaduenne; aveva i capelli color castano scuro, con qualche rivolo di grigio lungo le basette folte e sporgenti di fianco alle orecchie ed un ciuffetto ramato in mezzo alla fronte, e portava la barba quasi sempre "incolta". Abitava a Verucchio, borgo di antiche origini nel riminese. Rimasto senza figli e vedovo da tre anni (sua moglie Fiorella, donna di bell'aspetto, conosciuta in una balera di Sogliano, morì la vigilia dell'epifania del 1948 mentre in bici, una sera, tornava a casa dal lavoro di fantesca a Corpolo, paese vicino, investita da una auto pirata), si occupava, per darsi pane, d'un modesto pezzo di terra, meno grande di un'ara e mezza, poco più di centocinquanta metri quadri: coltivato tutto a pomodori, carote e cipolle.
Martino aveva fatto la guerra nelle fila dell'esercito, col grado di sergente maggiore: nell'estate del 1942 era stato inviato in Russia, al seguito dell'ARMIR (divisione di fanteria "Ravenna") per difendere le posizioni lungo il Don: quando, però, tra il dicembre del 1942 e il gennaio del 1943 si scatenò la grande offensiva invernale dell'Armata rossa, le forze italiane dovettero ripiegare ed aprirsi il varco per la fuga.
Il 1942 (terzo anno di guerra) fu quello cruciale nello svolgersi del secondo conflitto mondiale. Le forze dell'Asse (Germania, Giappone, Italia) subirono pesanti sconfitte su vari teatri e fronti di combattimento: in Africa settentrionale, nel Pacifico, in Russia, appunto. Le truppe che Mussolini decise, nella primavera del 1942, di organizzare nell'ARMIR (Armata italiana in Russia) e di inviare a sostegno del contingente italiano preesistente sul fronte orientale (tre divisioni formavano già il corpo di spedizione italiano in Russia, denominato CSIR), erano scarsamente dotate di mezzi mobili e prevalentemente composte da reparti di alpini, perché si prevedeva venissero usate sul Caucaso. Invece, si attestarono lungo il Don a difesa di un fronte di circa duecentosettanta chilometri. Con l'offensiva dei russi, il fronte italiano, inferiore di numero e mezzi nonché male equipaggiato, si ruppe in più punti. Le divisioni di fanteria (Ravenna, Pasubio e Torino, a nord; Sforzesca e Celere, a sud) si ritirarono ai primi di gennaio del'43, mentre il corpo d'armata alpino (Julia, Cuneense, Tridentina), il quale aveva indomitamente respinto ogni attacco nel suo settore, ebbe ordine di ritirarsi solo il 15 gennaio quando ‐ invero ‐ era già totalmente accerchiato dal nemico. Dovette farsi strada combattendo e marciare sopportando le avverse condizioni del clima. La stessa Radio Mosca esaltò il valore di quegli uomini affermando: "Solo gli alpini italiani sono da ritenersi invitti in terra di Russia". Le perdite italiane furono 84830 tra caduti e dispersi. Circolava voce tra le truppe in ritirata (nessuno mai seppe se si trattasse di una leggenda o di una storia vera, però!) che un tenente maggiore degli alpini, certo Sirtori Albigio, di Castelrotto, provincia di Bolzano, avesse fatto un sogno e lo raccontò poi, pari e patta ai suoi uomini: "Il duce, ormai da alcuni giorni camminava insieme ad un vecchio asino nel deserto della Sirte sotto un cocente sole che avrebbe ucciso anche le pietre. Quando l'asino ragliava, per la sete, egli esclamava: ‐ Zitto, sei solo un asino, tu, non lamentarti! ‐ Ad un certo punto, i due giunsero in prossimità di una piccola oasi. Il duce stesso scese dalla groppa dell'asino, si avvicinò ad una pozza d'acqua e, dop'aver bevuto esclamò: ‐ Boia, quanto è calda! Li apparve, allora, il diavolo (era un miraggio del deserto o una figura reale?Chissà!), che esclamò: ‐ Sei solo un asino, tu, non lamentarti! ‐ A quel punto l'asino ragliò di nuovo: fu per contentezza, forse, o semplicemente per approvazione?!
Martino fu davvero fortunato: dopo aver camminato per diversi giorni tra neve e ghiaccio, sfidando il terribile inverno russo e l'artiglieria nemica, riuscì a salire su un merci, insieme ai compagni di reparto (sessantadue uomini in tutto), che lo portò a Kiev, in Ucraina; di lì, poi, arrivò in Romania, a Bucarest, ed infine in Iugoslavia, sulla costa dalmata, a Spalato, da dove si imbarcò per l'Italia e raggiunse finalmente casa. Molti italiani, purtroppo, non ebbero egual sorte: chi restò seppellito sotto la neve e il ghiaccio, chi fu mutilato dallo scoppio di una granata o reso sordo dal rumore delle bombe, o orbo per una scheggia rimbalzata negli occhi. Alcuni suoi compagni persero l'uso di gambe o braccia ma lui, invece, alla resa dei conti, se la cavò a "buon prezzo", come recita un vecchio e sempre valido intercalare di Romagna: perse l'uso di due dita della mano destra, rimaste atrofizzate in perpetuo a causa del gelo, e la patria ‐ ahilui! ‐ ch'egli aveva onorevolmente servito, non li riconobbe un benché minimo, e misero, indennizzo! Egli, però, bontà sua, non s'era affatto perso d'animo come sempre era accaduto dal giorno in cui nacque: dopo aver comprato la terra da un fattore si era messo a fare il contadino, appunto. E sovente, mentre lavorava la terra, pensava ‐ e si poneva domande ‐ o rifletteva su quanto li era successo, sugli avvenimenti che lo avevano visto protagonista, volente o meno che fosse, insieme a migliaia di altri uomini, di quella fiumana che scorre incessante travolgendoli e si chiama storia. Ma, soprattutto, pensava, si interrogava o rifletteva su quel termine, su quella parola di sei lettere: patria.
‐ Maledetto colui che lo ha inventato! ‐ diceva fra sé e sé. ‐ Perché mai essa, che sia o meno madre (patria) e, al tempo stesso, padre (che da patria potestà) proprio non conta, debba arrogarsi il diritto di essere giudice e decidere sulla vita e morte di migliaia di uomini? Quelli forse non sono figli, uomini, prima ancora di essere padri? Eppure spesso, anzi, quasi sempre sul tavolo degli eventi che si susseguono vengono trattati da "cani" (con tutto il rispetto per quei quadrupedi, amici fedeli dell'uomo: molto più, a volte, degli stessi suoi simili!), o, peggio ancora, da "lupi" (con tutto il rispetto per quei quadrupedi, i quali vivono in branco: laddove vige la legge della solidarietà e no dello scannarsi vicendevolmente!); mossi come semplici pedine in un gioco al massacro, barattati sulla scacchiera per meno di un tozzo di pane, come fossero mera merce di scambio, per sete di conquista o per mania di grandezza di qualcuno, per la imperitura gloria oppure semplicemente...perché milioni di morti devono essere messi sul piatto della bilancia, alla fine: in cambio, appunto, d'una dichiarazione di guerra annunciata, o di un armistizio, per una collina (del disonore) o una postazione da conquistare a tutti i costi, per difendere uno stupido, insignificante ed insulso pezzo di terra, magari in una terra lontana e sconosciuta, ma abitata da propri simili, da "fratelli", seppure di diversa razza. Gli uomini, ‐ si ripeteva l'uomo, ex soldato ora contadino, ‐ sono uomini, diamine, esseri viventi e non carne da macello...ma i potenti, gli stati, le nazioni coi loro governi se ne fregano di loro e sempre lo faranno! La patria, puah! Buona, quella, soltanto a rilasciar benemerenze ed attestati, ad apporre medaglie sul petto dei superstiti: quanta inutile ferraglia! Tutto questo a posteriori, col senno di poi (di cui, si dice "son piene le fosse..." insieme ai morti, purtroppo!): ma quanto aveva visto coi propri occhi, Martino, e vissuto in prima persona, questa volta (al tempo della Grande guerra, invece, era poco più d'un bimbo), aveva inevitabilmente lasciato il segno nel suo cuore e nella sua coscienza di di uomo e se lo sarebbe portato al fianco sino alla tomba! Ma egli, oltre a essere un tipo alquanto riflessivo, era uomo di ben altre virtù e ideali, di provati sentimenti d'animo: non era nato solo per fare il contadino! Aveva studiato a scuola e poi, allo scoppio della guerra e prima di partire per il fronte, per suo conto a casa, riuscendo a prendere (cosa inusitata all'epoca!) la licenza media prima ed appresso quella liceale; per via della sua aria da intellettuale era noto in paese col soprannome di "prof". Molti, però, lo chiamavano anche "Bolivar" (dal cognome del famoso condottiero e generale venezolano): perché nutriva una sviscerata passione per la storia del centro e sud America e poi perché sul muro della sua stanza da letto era affisso un quadro raffigurante quel personaggio illustre.
Simon Bolivar fu generale, condottiero e abile diplomatico. A suo modo, anche, un romantico idealista, visionario e sognatore. Dopo aver vissuto a lungo in Europa, tornò in patria e si consacrò interamente alla causa dell'indipendenza delle colonie spagnole in sud e centro America. Ottenne la liberazione del Venezuela (1817); nel 1819, col Congresso di Angostura fu eletto presidente della repubblica della Grande Colombia, a cui fu annessa, nel 1832, l'Ecuador. Quell'anno fu liberato il Perù, parte del quale costituì poi la repubblica di Bolivia nel 1825. Egli pensava (anelava) di riunire tutte le repubbliche sudamericane in una unica confederazione da contrapporre alla Santa Alleanza (Austria, Prussia, Russia) in Europa: questo progetto fallì per le tendenze separatiste ed unioniste dei vari stati.
Martino era capace di fare discorsi lunghissimi ed al contempo profondi e lucidi; aveva doti innate di comunicatore e la dialettica scorreva nel sangue suo pari passo ai globuli bianchi e rossi: per questo motivo i capintesta della federazione, tutti uomini in gamba nonché antifascisti di lungo corso e provata fedeltà, sovente lo mandavano in trasferta, quando fosse libero dal suo lavoro, per reclutare nuove leve nei comuni limitrofi del riminese e del ravennate oppure in quelli lungo l'argine del Savio, nella parte sud‐orientale della provincia di Forlì. E'da dire, invero, che tutto ciò egli lo faceva, essendo un impolitico (parola la quale, pur avendo lo stesso prefisso di impotente, ha tutt'altro significato...dicasi, cioé, di colui il quale: sia contrario alla savia politica, meglio ancora inabile verso un pensiero politico limitante la libertà stessa dell'essere umano) soltanto per passione (insana o meno che fosse non li importava più di tanto!), di certo no per soldi o bisogno di rinomanza e successo: non li era mai interessata la "carriera", né avrebbe mai barattato la sua vita semplice per nulla al mondo! Molti verucchiesi, quando esso doveva parlare nei comizi come spalla del politico più noto oppure dell'Azzeccagarbugli di turno, si spostavano in bici, o in moto, o con mezzi di fortuna (inclusi trattori ed affini), per andarlo a sentire. Una volta a Bagnacavallo, paesotto di quindicimila anime (in gran parte contadini mezzadri e gente semplice), venti chilometri da Ravenna, accadde che la gente lo applaudì per dieci minuti ininterrotti dopo averlo ascoltato a un festival dell'Unità! Era davvero un maestro dell'eloquenza o, per dirla alla maniera dei latini, dell'ars oratoria: che aveva appreso leggendo i classici sui banchi di scuola e per proprio conto (tanto Catone, quanto Cicerone: maestro della sostanza, il primo, della forma più pomposa e altisonante, l'altro; ma anche Lucio Licinio Crasso, Seneca, Quintiliano, Frontone, Simmaco ed Apuleio). Lui era un testardaccio figlio di contadini, sempre molto deciso in quello, e su quello, che doveva fare: amava fare da solo, s'era fatto da sé, con le sue forze e col suo intelletto. Ma era anche uomo di grande raziocinio ed estremamente tranquillo: mai una parola fuori posto, un alterco con nessuno in paese; assennato ed equilibrato, insomma, in ogni cosa facesse e per qualunque decisione prendesse. Sin da giovane aveva professato l'ateismo e mostrato scarsa simpatia verso la chiesa (i suoi nonni materni, però, mai lesinarono la dècima al clero in loro vita!) e i preti (ma non era affatto di quelli che buttano bombe sulle sacre processioni né sparano addosso ai suddetti quando pronunciano l'omelia o recitano il "salve o regina"!), tuttavia, negli ultimi tempi aveva modificato le sue abitudini: forse, chissà, preso da una arcana voglia di trasgredire o, più semplicemente per evadere dalla routine del suo duro lavoro.