Memoir
Francesca si affacciò su questo affollato palcoscenico che chiamiamo mondo oltre mezzo secolo fa, nascendo da una famiglia toscana di origini rurali; ben presto si trasferirono in Piemonte per necessità, come spesso accadeva e continua tuttora ad accadere.
È sempre stata una bimbetta sveglia, chiacchierona, talvolta esuberante, che adorava giocare all’avventura insieme ai ragazzini del quartiere. Quel gigantesco abbozzo di scavo dietro la lunga fila dei garage condominiali era, per loro, un perfetto territorio selvaggio. Nell’angolo più profondo e lontano un rivolo d’acqua trasudava alimentando la crescita di un piccolo canneto. Un fico gigantesco dominava la scarpatella, molti cespugli ed erbacce per ogni dove, e ancora dossi e buche con vecchie pedane abbandonate ottime per costruire rifugi. Un paradiso.
Lei altro non era che uno dei tanti bambini urlanti che si sbucciavano le ginocchia e correvano a casa in lacrime per farsi mettere un cerotto o per fare merenda. Non era un capo, no davvero, tantomeno un personaggio di spicco, solo una fra tanti, un piccolo seme nella melagrana di un’infanzia spensierata. E non era particolarmente entusiasta di sprecare il suo tempo a scuola, benché ci tenesse moltissimo a non far brutta figura. Per questo, probabilmente, si impegnava quel tanto che le consentiva per stare nella media e non essere un bersaglio (né in negativo, né in positivo), delle varie Signore Maestre delle Elementari che, a turno, le toccarono in sorte.
Leggeva il minimo indispensabile alla sopravvivenza scolastica. Per questo accolse con un tiepido ringraziamento uno dei regali per la promozione alle Scuole Medie. Un’amica di famiglia glielo depositò nelle mani ammiccando come fosse un tesoro prezioso: un libro, il suo primo libro… Certo, per una che sfogliava a mala pena Topolino, dovette apparire quasi un dispetto, ma la buona educazione imponeva regole inderogabili. Così, lo confinò per qualche giorno sul ripiano alto della scrivania, unico e solo. Poi, un po’ per senso del dovere, un po’ per curiosità, lo riprese fra le mani: “Il Corsaro Nero” di Emilio Salgari.
Ne osservò il dorso rosso, l’illustrazione di copertina e fece scrocchiare la colla che reggeva le pagine di un’edizione economica che si sarebbe rivelata preziosissima.
Quasi magnetizzata dall’immagine, si accoccolò sul pavimento dietro la poltrona del salotto, là dove formava un angolo fra il muro e l’ampia porta finestra sulla terrazza del soggiorno. Un posticino riservato, fresco e luminoso che sarebbe presto diventato il suo cantuccio preferito.
Aveva poco più di dieci anni e mezzo, la prima estate senza compiti delle vacanze, un mare di tempo per giocare e per leggere.
A pagina 20 si era già invaghita delle parole del Capitano. Terminò il libro così in fretta che sua madre pensò avesse barato. Ne chiese un altro e un altro ancora.
Il mondo della sua fantasia andava via via definendosi e si illuminò d’incanto con Sandokan, di cui non era difficile innamorarsi, ma lei, sapendolo impegnato, ripiegò più saggiamente su Yanez de Gomera, benché subisse, almeno un poco, anche il fascino del fido Kammamuri. L’aria della sua infanzia si riempì ben presto del profumo dei manghi (i cui frutti non avrebbe visto per altri 25 anni) dell’odore di salsedine, dell’aspro sentore delle bettole dei sobborghi indonesiani, del buio delle sentine. Le orecchie si perdevano nel frusciare delle sete, nello sciacquio dell’acqua appena mossa dai remi delle scialuppe, nel rombo del cannone, nel frastuono della tempesta, nel vento che ululava tendendo le vele e scuotendo il sartiame. Gli occhi si beavano dell’orizzonte solcato dai gabbiani e dalle fregate, incantati dalle scintillanti nottiluche, dal luccichio nello sguardo della Tigre… e le fantasie non rimasero confinate nell’angolino dietro la poltrona, tracimando nella sua realtà di bimba. Lo scavo dietro casa si trasformò nel teatro di mille battaglie, il canneto divenne una palude indiana, il fico si trasformò in un Banian, Francesca era Sandokan e gli altri bambini i suoi tigrotti. Fece proseliti, prestò i suoi libri sotto giuramento solenne di trattarli come sacre reliquie, pena terribili vendette. Le vacanze si ammantarono di misteri e di complotti e tutti si lasciarono irretire dalla magia esotica di quei romanzi.
Alla fine dell’estate i tomi sul ripiano alto della scrivania erano sette, tutti letti, tutti assaporati con un gusto che mai avrebbe immaginato e destinati ad aumentare fino a occupare ogni spazio disponibile e oltre.
A Ottobre, affrontò il primo giorno delle Medie con la consapevolezza che dietro la copertina di ogni libro si nascondeva un universo unico, affascinante, in attesa di occhi curiosi e menti insaziabili cui svelarsi. Fu così che nacque in lei il gusto di studiare. L’argomento in sé, rivestiva poca importanza, qualunque cosa fosse scritta e qualunque cosa si potesse scrivere andava bene.
Leggere e scrivere erano già diventate la sua splendida ossessione. I risultati? Anche quelli un dettaglio marginale… Per quanto ora si impegnasse sempre ad ottenere il massimo, rimanevano un semplice accessorio. Il vero piacere era legato alla pura azione del leggere, dello scoprire; si trattasse di storia o di letteratura o di una nuova lingua.
Quel Capitan Salgari, che aveva navigato dal salotto di casa sua, le aveva insegnato a fare altrettanto: era stato l’artefice della sua rivoluzione, l’ispiratore di uno splendido volo che l’avrebbe accompagnata e sorretta per il resto della vita. Anche quando, tornata invisibile, un seme in mezzo a tanti altri semi, dietro la maschera di un quotidiano quieto vivere, avrebbe affidato ai sogni, alla fantasia e a parole scritte quasi in segreto, il compito di mantenerla viva.