Morte di un clochard romano

 Giacomo era un clochard di Roma, aveva cinquant'anni e di certo non li portava bene...mezzo secolo di vita, insomma, e sentirlo tutto sulle spalle. Da venti anni viveva in strada: la notte, tutte le notti di ogni santo giorno per trecentosessantacinque giorni all'anno! Di giorno a chiedere l'elemosina, ad elemosinare la quèstua per un caffelàtte, magari un cornetto o un panino. Raccoglieva cinque, sei o sette euro e subito scappava al bar o al supermercato (molti senza lavoro e fissa dimora fanno così: per evitare di accumulare cifre più grosse e poi...perché nessuno di loro ha un conto in banca o aspira ad aprirlo, un giorno!). Dopo lo trovavi spesso a piazzale Ungheria, in vicinanza della zona delle ambasciate, al quartiere Parioli. A volte si univa a ragazzi dell'est e indiani, o cingalesi, o del Bangladesh che chiedono elemosina ai semafori o puliscono i vetri delle macchine in transito, altre a degli artisti di strada e con loro intonava qualche motivetto blues. Era stato un musicista, Giacomo, da giovane; aveva suonato il clarinetto in una piccola band di provincia, in Abruzzo; ed era stato pure in America, nel Kentucky, in Illinois, nel Missouri e sul fiume Mississippi...aveva ripercorso la "via del blues", in quella lontanissima estate del '79 (un sogno coltivato sin dalle scuole elementari e finalmente messo in opera), lungo la mitica route 69: egli conosceva a memoria i pezzi di Charly Patton e Lead Belly, quelli di Robert Johnson e di "Big Bill" Broonzy, "Blind Lemon" Jefferson, Son House, Skip James e molti altri che spesso il padre, grande appassionato di blues, ascoltava. Quando era tornato a casa da quel viaggio, durante quell'estate, tutto li sembrò diverso: toccò il paradiso con entrambe le mani...aveva conosciuto il sesso e l'amore ma anche la droga e l'alcol, in America; e poi aveva preso il vizio delle puttane e del gioco: trovava un lavoro e lo perdeva, ne trovava un altro e perdeva anche quello, magari il successivo durava, a volte ma no molto spesso, però, qualche settimana in più del precedente: tuttavia era sempre lo stesso andazzo, non cambiava nulla. Paradossalmente dopo quel viaggio tanto agognato era cominciata la sua parabola in discesa, il declino personale e di uomo: negli anni ottanta morirono i genitori, perse anche la sorella, morta accidentalmente nel corso di una rapina. Si ritrovò così senza casa e a vivere da solo...sperduto a vagare nelle strade della grande città: all'inizio può essere un impatto devastante, quasi letale per alcuni. Riuscì a disintossicarsi dall'alcol e dalla droga grazie all'aiuto di qualcuno; viveva in città di elemosine ma a volte anche di furtarelli ed espedienti. Per un po' sparì dalla circolazione: si accodò ad un gruppo di artisti girovaghi rom e girò per l'Europa intera, in Ungheria e Romania, in Iugoslavia e poi in Russia, in Belgio, Francia e Germania...era stato un modo per cambiare aria, ma la vita del barbone ce l'hai dentro, lei ti marchia eppoi ti...come il richiamo della foresta per le belve e per i primati. Nel 1990 aveva ripreso la sua vecchia occupazione a tempo pieno: la strada, in fondo, era la sua vita, il suo habitat ideale; quelli come lui, senza fissa dimora e occupazione, non possono farne a meno, entra nel sangue e nella testa come la droga, l'alcol, il gioco, una bella donna, magari; vivere diversamente per quelli sarebbe come calarsi in un'altra dimensione, invivibile...toglierli il respiro e farli morire soffocati. Alcuni suoi amici erano morti di freddo, anni fa. Lo scorso anno anche Alfredo, suo compagno di bevute e di stanza, se n'era andato (insieme condividevano una roulotte abbandonata, a volte, allo "stalag 17", come tutti quelli come loro lo chiamano, vicino una pineta in periferia),  falciato senza pietà da un'auto pirata al Tuscolano. Era triste da un po', Giacomo, a volte imbronciato e malinconico, ed aveva perso quel sorriso e il suo fare scanzonato che sempre l'accompagnava nonostante tutto, nonostante quella vita di merda che ‐ comunque ‐ nessuno sceglie mai di vivere: forse, chissà, dentro sé stesso presagiva qualcosa, immaginava, sapeva. L'altro ieri sera, dopo aver smesso di suonare l'armonica per i passanti dirimpetto al "Mattarello", ristorante d'asporto, a piazza Cuba, e all'altezza della fermata del 168 (lo strumento gliel'aveva regalato anni fa uno di loro: subito imparò a suonarla...aveva il senso della musica e del ritmo innati, Giacomo, il groove dentro come tutti i buoni strumentisti), aveva raccolto le sue poche cose (qualche busta di plastica piena di cianfrusaglie, una vecchia radio, un manico di scopa e nulla più) e come faceva di solito s'era incamminato verso viale Romania per percorrere non più di centocinquanta, duecento metri: nei pressi della chiesa Parrocchiale di San Roberto Bellarmino, in un angolo semi nascosto, dirimpetto a un negozio di pneumatici, aveva approntato il suo letto per la notte e s'era intrufolato nella catasta di cartoni...il suo domicilio attuale. All'alba lo ha trovato senza vita Michele Angiulli, netturbino sessantenne emigrato a Roma dalla Puglia quarant'anni fa: Giacomo era morto nel sonno, probabilmente, aveva il cranio fracassato e versava in una pozza di sangue; una spranga di ferro, lunga quaranta o cinquanta centimetri, giaceva per terra accanto al suo corpo inerme. Forse...chissà? Giacomo era un barbone, aveva cinquant'anni, è stato trovato morto: "una bocca in meno da sfamare", diranno in molti (ma mangiava davvero così tanto?). Per altri invece un rompicoglioni maleodorante in meno da sopportare e da annusare, in giro per il quartiere, e un impiccio in meno per il Comune che dovrà anche sostenere le spese funebri. Ma si, dai, meglio così, in fondo...in fin dei conti era solo uno di quelli che non aveva nulla da perdere e non lascerà niente a nessuno; era soltanto un barbone, un clochard come li chiamano adesso gli esterofili, i puristi ed i signori più distinti: a chi fregava un cazzo di Giacomo?

Taranto, 21 ottobre 2020.