N.Y.

Prime ore del mattino. Sono appena uscito sulla Broadway, sto percorrendo un largo marciapiede. Uno strato di lattine e di bottiglie crea problemi alla stabilità del mio passo.
A terra il resto di un colossale bivacco: contenitori di patatine, resti di panini, bicchieri di carta. I bidoni dell’immondizia sono punti di riferimento per altri cumuli di rifiuti. E’ appena trascorso da poche ore il sabato notte ed io mi rammarico di non averlo potuto vivere. Ho un tramonto sul Bosforo in debito con me stesso per la stessa ragione: la stanchezza del viaggio. A mia difesa posso dire di essere arrivato alle due di notte dopo un volo di dodici ore, attese comprese. Il taxi mi ha lasciato stanotte di fronte all’albergo, un grattacielo di sessanta piani. I marciapiedi erano densi di folla. Luci violente, lampeggianti a volte, da ogni dove. Un caos di auto, un intreccio insolubile, immoto, tra un suonare di clakson. Un muro di vetri illuminati che tocca il cielo nero, ai lati della strada: i grattacieli visti dal basso ti incutono angoscia, ti schiacciano. Sull’entrata mi hanno accolto due gorilla in doppio petto blu e cravatta argentata. Un’ombra, piccola e nera mi ha preso le valige e mi ha proceduto: un ragazzino di non più di tredici anni. Hall deserta, i radiotelefoni dei gorilla hanno chiesto mie notizie a qualcuno che non vedevo. Su uno schermo televisivo è apparso il mio nome con una serie di dati dell’ufficio immigrazione. Acconsentono a che io possa salire in camera. All’entrata dell’ascensore trovo altri due giganti neri con manette penzolanti alla cintura e maniche della camicia arrotolate sui bicipiti che mi esaminano attentamente, non sorridono. Attendo l’aprirsi delle porte e due specchi sulla parete di fronte negli angoli mi rassicurano che nessuno è nascosto nei due spazi bui, ai lati dell’entrata. Saliamo io e il ragazzo, muti, guardandoci negli occhi a tratti. Un sibilo ed uno strusciare di corde che mi preoccupa. Il corridoio è in penombra, solo luci di emergenza. L’odore di una moquette impolverata. Scarpe da pulire e vassoi con resti di cena fuori delle porte mi costringono ad un accurato slalom. La stanza è molto dimessa. Il condizionatore ha una vibrazione che mette in forse il mio futuro sonno. Il ragazzino attende. Non ho spiccioli, gli do un biglietto da mille lire. Lo guarda poco soddisfatto. Lo prendo per le spalle e lo spingo fuori. Un odore di muffa, luci tenui sul comodino mi intristiscono. La finestra riflette una luce giallognola esterna. Intravedo un baratro di grattacieli. In fondo, i fari delle macchine creano un fiume luminoso. Mi arriva il suono delle sirene delle macchine della polizia. Mi ricorda i film della mia infanzia. Guardo la vita nelle finestre illuminate del grattacielo confinante. Un signore in mutande beve birra di fronte ad un televisore e si gratta la pancia. Una donna si aggira riordinando una camera. E’ in sottoveste, ma non è affatto attraente. Il sonno tarda e resta superficiale per tutta la notte, rotto dalle sirene delle auto della polizia. Un carosello continuo.
L’aria della mattina ha cancellato gli incubi. Sono raggiunto da quella strana euforia che mi pervade ogni qual volta inizio a conoscere, per la prima volta, una città o una persona. C’è pochissimo traffico. L’aria è frizzante, mi penetra nella camicia. Solo pochi passanti. E’ domenica mattina. Due ragazze in tuta mi sorpassano correndo. Non si parlano. Auricolari alle orecchie. Mi arriva la vibrazione della musica tenuta al massimo volume. Un gruppo di schettinatori vola al centro della strada, sembra non toccare il suolo. Mandano suoni gutturali, preoccupanti. Mi ricordano i Sioux dei film. Le vetrine dei negozi chiusi sembrano non attirare lo sguardo. Negli atri di alcuni negozi stanno ancora dormendo barboni alcolizzati. Si muovono lentamente tra mucchi di cartoni come grossi vermi. Hanno anemie tremende nei volti spenti. Guardo a tratti il cielo azzurro e lontano in questo abisso di cemento e vetro. Vorrei raggiungerlo, elevarmi, togliermi da questo strisciare in un fondo. Da un portoncino in ombra esce un braccio. Sento improvvisamente la morsa sulla mia spalla. Mi fermo. Ora i miei occhi sono entrati nel buio e ne hanno ravvisato l’immagina di un negro. Il viso è lucido di sudore, la barba lunga è intrecciata allo sporco. Gli occhi sono di luce. E’ vestito di stracci. Mi guarda immobile non mollando la presa sulla mia spalla. Vedo uscire dal suo fianco l’altra mano, bianca, magra. Mi indica una grossa chiazza rossa di sangue che sto calpestando. Mi stupisco a non essermene accorto.
“American Kaputt” mi urla nell’orecchio. E’ un suono rauco, frammentato da un ansimare. Sento il suo fiato di alcol sul mio volto.
“American Kaputt” ripete ancora, in un tono di vittoria su qualcuno che non immagino. Dò uno strattone e mi libero. Ho i piedi impantanati in un rosso viscido. E’ una colla densa. I piedi sono pesantissimi. Affretto il passo evitando la traccia lasciata di fronte a me sul marciapiede. Ora sono piccole sfere rosse, spruzzate qua e là. Sembrano rotolare davanti ai miei passi.
“American Kaputt” continua ad urlarmi alle spalle. Ed è un urlo di vittoria certa.