Natale con nonno Angelo
Natale a Genova: avevo sette, otto anni. Nonno Angelo, nella casa di Via Casaregis, creava il suo capolavoro annuale, il pranzo di Natale. Era nato a Noto. Impiegato dello stato, messo in pensione dal fascismo, per aver alla fine dell’anno, buttato nel cestino dell’ufficio, il calendario a muro, oramai terminato. Quel calendario portava l’immagine di Mussolini. Gli fecero la spia e fu la sua fine sociale. Lo ricordo, alto, scuro, possente, pochi capelli, gli occhiali con stanghette d’oro. Era il padre‐padrone meridionale. Le donne, mia nonna Amina, le figlie, zia Maria, e Franca, mia madre, ubbidivano in silenzio. Ma non lo amavano. Lo temevano. Lui, a me, aveva insegnato a leggere e scrivere durante la guerra, in campagna, con la sua stessa severità, con lo stesso mio timore. Quando ad elementari avanzate, andavo a trovarlo, prendeva un libro dalla sua biblioteca e mi ordinava: “Leggi a voce alta, con garbo e intonazione”. Ricordo con angoscia quelle visite. Mamma mi abbandonava con lui, nello studio, odoroso di vecchi libri e sentivo il chiacchierare gioioso delle donne, chiuse in cucina, che avrei voluto raggiungere. Io leggevo male, sotto quello sguardo, e penso di averlo continuato a fare, da adulto, nella vita, quando mi si chiedeva di farlo in pubblico. Ho continuato ad avvertire la sua presenza. Trascorremmo con lui due Natali, dopo la guerra, prima della sua morte. Non ricordo regali, forse sicuramente un libro di lettura scolastico, dato senza la coreografia di albero e presepe. Un dono che avrò subito trascurato, non avendone traccia nella memoria. La casa, vasta, buia, odorosa di cere di mobili. La sala da pranzo ricca di argenti, tirati a lucido per l’occasione. L’”argenteria” di nonno Angelo fu il solo punto di riferimento di una ricchezza sottaciuta, per tutta la famiglia. A questo proposito, ricordo la sua figura, nell’ultima battaglia partigiani‐tedeschi, a Serravalle Scrivia, mentre si staglia sull’entrata del rifugio di campagna, una caverna, un rifugio per animali. Lui ha dietro il sole, sembra un ritaglio di carta nera. Alla sua destra una valigia di pelle marrone: l’"argenteria"! Al nostro arrivo, la mattina di Natale, la sala da pranzo era già un’esposizione di cibi, preparati il giorno prima da nonna Amina: insalata di polipo, salumi e formaggi vari, cassata siciliana, struffoli, babà, mostaccioli, esposti con cura. Ricordavano le origini siciliane di nonno e quelle lucane di nonna. Nonno restava chiuso in studio: leggeva a voce alta i classici latini. “Sta declamando Catullo, a Natale!”‐ Qualcuno degli invitati gli rimproverava. Le donne rumoreggiavano in cucina, in un gran da farsi. Ma regnava qui, l’unica isola di luce e di allegria di tutta la casa. Il resto era serioso e oscuro. In salotto gli adulti, vestiti a festa, fumavano, centellinando Malvasia, mentre zia Maria, suonava vecchie canzoni al piano. C’era una cerimonia che precedeva sempre, la preparazione del pranzo, l’accensione del braciere, da mettere sotto la tavola. Il clima natalizio, a Genova, è rigido e si era nell’angustia economica del dopoguerra. Adele, la cameriera, era incaricata della preparazione ed io la guardavo nel suo affannarsi. Per l’uopo sventolava una specie di ventaglio, fatto di penne di volatili. Uno strumento che mi affascinava per la sua ricchezza di colori. Quando i carboni erano rossi, si depositava il braciere sotto il tavolo della sala, a tenere tepore alle gambe. Ma…. sì c’era un ma, che mi ha fatto sempre pensare, con una certa severità, all’ignoranza o alla sbadataggine che regnava nella mia famiglia. Ricordo l’odore che si spargeva, per la sala, dal braciere: un odore acre, pungente, dapprima allettante, quasi fosse una droga da inalare. Mi accompagnava nell’euforia dei primi piatti, anzi forse finivo per ignorarlo, tra risa e parole dei commensali. Giunto alle carni, le narici mi bruciavano e la testa cominciava a pulsare. Perdevo l’appetito. La nausea saliva alla gola. Un sudore freddo scendeva nel collo.
‐ “Lucio, non sopporta il braciere, non vedi che faccia ha? Portalo di là in cucina”‐ La voce di nonno. Era ancora un suo ordine. La festa continuava.
E di là, vomitavo tutto il pranzo, mentre la vista mi si oscurava e quel sapore, o odore metallico mi invadeva. Perdevo conoscenza. Un sorso di Nocillo mi faceva tornare tra loro. Possibile, mi chiedo, che tutti, compreso mio padre, non conoscessero gli effetti dell’ossido di carbonio e il suo permanere, nell’ambiente, ad altezza di bambino? E questa nube di gas e di vomito copre, sfumandola, l’immagine di mio nonno, mentre dirige, allegro e gioioso, una tavola ricca e rumorosa, la tavola di Natale.